ConTatto
Da
rinomata donna d'affari quale era, era ben consapevole che il miglior
biglietto
da visita era una buona stretta di mano.
Era
una scienza che aveva coltivato nel tempo con pratica e spirito di
osservazione, studiando le diverse reazioni chimiche che il semplice
contatto
di due palmi riusciva a scatenare. Bastava saperne cogliere le
caratteristiche
per rendersi immediatamente conto della persona che si aveva davanti:
c'era chi
stringeva con decisione e veemenza, denotando una forte sicurezza di
sé e chi,
al contrario, faticava quasi a chiudere la presa, riluttante e timido
del
contatto fisico. Alcuni non prolungavano la stretta per più
di qualche secondo,
concisi e non intenzionati a sprecare tempo prezioso, altri invece ti
chiudevano in una morsa, avviluppando la mano con le dieci dita ed
esibendosi
in noiosissimi ed infiniti convenevoli che producevano una fastidiosa
sensazione di viscidume. Ne aveva viste e toccate di tutti i tipi: mani
da
uomo, da donna, con le unghie curate, la pelle morbida, sciatte,
screpolate o
invecchiate dal tempo. Certe depositavano la dolce traccia di un
profumo al
loro tocco e certe lo sgradevole contatto della pelle sudata. Molte le
persone
nascoste dietro cinque falangi e molte le sensazioni più o
meno piacevoli che
si erano scatenate grazie all’empatia stimolata dai singoli
individui. Eppure,
per quanto queste emozioni fossero esclusive nel loro genere data la
varietà
degli animi umani, erano divenute ordinali ed estremamente mediocre
comparate a
quelle scatenate dal contatto con le sue mani.
Non
ne aveva mai incontrate di simili, erano uniche nel loro genere
esattamente
come il loro proprietario.
Erano
forti, calde e abbronzate. Nascondevano il ricordo della guerra e della
sofferenza tra le pieghe del palmo, in prossimità della
linea della vita. Il loro
tatto non aveva mai percepito il dolce tepore scatenato dal tocco di
una pelle
amata, bensì solo il bruciante calore energetico che veniva
sprigionato dalla
punta delle falangi contro povere anime innocenti. Non vi era un solco
dedito
all'amore, solo solitudine e diffidenza avevano attraversato le pieghe
della
pelle. Il primo contatto era avvenuto di sfuggita, rapido e distratto
ma
abbastanza intenso da lasciarle un'impronta indelebile che, tuttora,
permaneva
e riconosceva in ogni fibra del suo essere. L’imponente
figura del sanguinario
principe guerriero che, con la semplice imposizione di un dito aveva
visto
freddare il suo compagno anni addietro, era stata sormontata dalla
semplice immagine
dell’uomo che, cresciuto in terreni aridi di sentimenti,
venduto ad un tiranno
e costretto ad assistere alla fine del suo regno e della sua
realtà, leccandosi
le ferite e con il solo appoggio di se stesso, cercava con ardore di
andare
avanti, di riscattare il proprio orgoglio e rimettere insieme i pezzi
che anni di
barbarie, usurpi e insuccessi avevano mandato in frantumi.
Aveva
agognato a lungo quel tocco alieno,
capace di distruggere vite e pianeti, ma anche di accarezzare l'erba e
curare
le ferite. Aveva continuato a cercarlo, incurante del pericolo che si
celava
sotto le unghie e desiderosa della rude morbidezza della sua pelle,
come un
assetato nel deserto correva verso la fonte, senza porsi il dubbio che
si
trattasse di un miraggio. Più se ne abbeverava,
più imparava a riconoscerlo e a
percepirlo familiare. Col passare degli anni era divenuto talmente
parte di lei
che ad un esame specifico e attento non si sarebbe potuta distinguere
un'impronta digitale dall'altra. Ne riconosceva il tocco, la forma,
l'odore. Le
piaceva osservare le dita agili afferrare la bottiglia d'acqua e poi
accartocciarla
con la semplicità con cui lei coglieva un fiore da terra, le
piacevano i
muscoli contratti e i nervi tesi del dorso durante gli allenamenti e la
faceva
impazzire il pensiero delle falangi su di sé e loro figlio.
Avrebbe potuto
disegnare le sue mani su un foglio ad occhi chiusi con la sicurezza
che, a
lavoro ultimato, sarebbero risultate identiche alle originali.
Riconosceva ogni piega del palmo e le aveva viste mutare col passare
degli anni
e degli eventi, farsi meno marcate e profonde ma più sottili
e levigate. Così
come il vento liscia la pietra di una montagna, era sicura che il
contatto
reciproco e la stretta spasmodica delle loro dita nei momenti
più frenetici
della loro intimità avessero ammorbidito la scorza dura dei
primi momenti della
loro convivenza. E ne riconosceva i segni nella
quotidianità. Era apparso un
nuovo solco, un timido percorso aperto tra le valli di un'impervia
catena
montuosa. Silenziosa e cocciuta, come un esploratore in balia della
forza della
natura, era riuscita ad addentrarsi e tracciare il suo sentiero, farsi
spazio
tra la piega dei ricordi sanguinari e quella delle notti insonni in
compagnia
degli spiriti dei dannati immolati da lui, condendola con gesti
semplici di
affetto e presenza.
Era
da diverso tempo che l'aveva notata e le piaceva da impazzire
percorrerla
pigramente col dito, la sera, nell'indolenza di un amplesso appena
consumato o
nella stanchezza di un'intensa giornata di lavoro o di allenamento,
quando
entrambi giacevano fianco a fianco confusi dal sonno, le barriere meno
impervie. La carezzava e sorrideva beatamente
di nascosto al pensiero di averla tracciata lei, di aver trovato la
fonte in
cui dissetarsi.
E
anche ora, col respiro mozzato e il cuore martellante nel petto, non
riusciva a
smettere di pensare al solco in quella mano, che seppur lontana vedeva
ben
nitida davanti agli occhi, al centro di quel palmo aperto nella loro
direzione.
Non aveva preso un abbaglio, non si era trattato di un miraggio:
l'aveva vista
nascere, l'aveva scavata con le sue forze e con l'impegno di tanti
anni,
l'aveva sentita farsi spazio lentamente, misurandone i progressi giorno
dopo
giorno. La fissava con intensità, incredula. Erano il suo
braccio, la sua
spalla e il suo corpo quelli che dominavano la scena davanti a lei, nel
mezzo
del palco del torneo Tenkaichi. Era suo marito, il suo uomo
colui che con un ghigno sprezzante metteva in mostra l'arma
più pericolosa che possedeva, se stesso.
Guardava
lui e guardava la sua mano, la stessa che l'aveva carezzata e toccata
in tante
notti, la stessa che molti anni addietro aveva sfiorato rimanendo
marchiata a
vita, la stessa che conosceva come se si trattasse della sua medesima,
ed in un
certo senso era così che si sentiva Bulma, unita a
quell'uomo che ora faticava a
riconoscere, che la notte mischiava il suo respiro e il suo odore al
suo, nella
migliore delle fusioni che potessero esserci.
Fissava
le sue dita e non poteva credere che da esse si fosse scatenata un'onda
di
energia tale da spezzare le vite delle povere anime che, appena qualche
attimo
prima, avevano acclamato la vittoria del loro
figlio, inarrestabile e
violenta tanto da distruggere gli spalti dell'arena a pochi metri da
lei. Lei,
che pensava di aver trovato la fonte, di aver tracciato un sentiero tra
le
montagne che gli circondavano l'anima, di essere stata ad un passo
dalla vetta.
Era
sempre stata brava a codificare le persone in base alla stretta della
mano, era
convinta fosse il miglior biglietto da visita che una persona
possedesse. E
quando era avvenuto tra loro aveva sentito, aveva percepito
l’uomo
assopito dentro il guerriero
Non
poteva essersi sbagliata, non poteva credere, non voleva
credere. Al
diavolo tutti, al diavolo gli strepiti malevoli di Chichi e delle
persone
intorno, che credessero e vedessero
quello che volevano.
"Questo non è il mio Vegeta".
N.d.A.:
1223
parole.
Molti anni fa ho scoperto questo sito grazie a
Dragon Ball e pubblicare una storia in questo fandom è
sempre un’emozione particolare,
saranno i ricordi di tutte le storie lette, gli autori seguiti e i
sogni nati
qui dentro a suscitarmi certe sensazioni.
Ad ogni modo, grazie per avermi dedicato il vostro
tempo ed essere arrivati fino a qui.^^