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Autore: meiousetsuna    16/06/2017    4 recensioni
Sherlock e John sono ormai una coppia consolidata, ma Sherlock è un po’ indispettito da alcuni atteggiamenti del suo dottore.
Prima faceva di tutto per lui: correva dall’altro capo di Londra per porgergli il telefono, diceva “grazie” al posto suo, faceva la spesa senza protestare per ciò che trovava in cucina.
E ora? Ora osa rispondergli no!
E non solo una volta, molte: cinque di sicuro più noiose delle altre…
Fun&love,
vostra Setsuna
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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rating arancione
commedia, romantico, lime, fluff
Johnlock

Le cinque volte che mi hai detto di no

Quello che veniva sempre tacciato di essere un bambino indisponente era lui, pensò Sherlock, ma l’atteggiamento del suo compagno quando voleva manifestare scontento poteva eguagliarlo, almeno secondo il suo parere.
Era lì, sprofondato nella poltrona preferita, che leggeva il giornale come se tutte le catastrofi atte a colpire l’umanità si fossero date appuntamento per essere riportate in quella precisa edizione del Times.
Quanto accaduto era quasi incredibile, ma vero.
Gli aveva domandato un favore semplicissimo, perché non doveva eseguirlo?
Lui odiava avere a che fare con la stampa ― a proposito di quotidiani ― mentre il dottore non era eccessivamente infastidito se si trovava a rispondere a delle domande personali. Erano quelle a destabilizzarlo, non le richieste di informazioni sui casi; quando erano archiviati non c’erano problemi.
‘Vivete insieme, siete una coppia, cosa volete dichiarare?’
Non voleva dichiarare proprio niente! Se John preferiva rispondere ‘non sono gay!’ oppure ‘sì, siamo fidanzati e lo facciamo sui gradini all’ingresso’ a lui stava bene ugualmente.
Provò a lanciargli uno sguardo accusatore, ma questo cadde miseramente nel vuoto, con un triste mayday inascoltato.
Sherlock sospirò in modo teatrale, assaggiando un sorso di tè. Non era certo il primo rifiuto significativo che gli arrivava dal suo dottore, ma il quinto. Doveva preoccuparsi?
La prima volta che era rimasto indispettito era stato all’inizio della loro nuova vita ― non che questo contasse molto, ma erano tre mesi, undici giorni e circa diciotto ore fa; ricordare le date gli veniva  automatico, tutto qui ― quando erano scesi da un taxi con calma, per una volta.
Aveva perfino avuto la gentilezza di dirgli “paga la corsa” invece di allontanarsi e basta e John gli aveva risposto “no”.
La sua espressione era stata così interdetta, che il tassista si era schierato dalla sua parte.
“Che vuol dire no?
“Vuol dire che non sono un bancomat! Pensi che sia economico viaggiare sempre così? Faremmo prima a comprare un’utilitaria, credo, e poi è la tua maleducazione… Gesù, scappi senza mai mettere una mano al portafoglio! Sai quanto costa una corsa?”
“Qualche sterlina”.
Qualche… sei incredibile!”
“Non te la prendere, bello” l’autista fissò Sherlock con occhi bovini “prima sono tutti carini, dopo che ci vai a letto cambiano”.
Al detective non restò che saldare e rimuginare sull’accaduto per una serata intera.
Se non ci fosse stato un altro episodio molto ravvicinato, forse l’avrebbe archiviato come ‘non rilevante’.
Il sette novembre* era il compleanno di suo fratello, ma non aveva previsto di chiamarlo per fargli gli auguri, non usavano certe banalità tra loro. Però la mattina del sei aveva sentito bussare alla porta del 221B di Baker Street in un modo che ad altri sarebbe apparso normale, ma per lui era così distinguibile ― né scortese né paziente ― che aveva aperto senza chiedere chi fosse, ma affermandolo.
“Anthea”.
“Salve. Da parte di mister Holmes”.
Perché, lui chi era, invece? Presa la busta la ringraziò con un lieve cenno del capo, ricambiato da un mezzo sorrisetto accondiscendente. La aprì subito con curiosità, restando basito. Quell’elegantissimo cartoncino di pergamena era un biglietto d’invito a una festa. Da Mycroft.
I più assurdi scenari si manifestarono davanti ai suoi occhi, tanto da obbligarlo a spostarli con la mano come le informazioni in eccesso mentre cercava la soluzione di un mistero.
Uno scherzo? Non ce n’era motivo. Una trappola? No, Anthea era troppo serafica, avrebbe notato qualche indizio. Non gli restava che immaginare una specie di riunione massonica, con suo fratello che indossava una tunica rossa da Gran Maestro, magari con Lestrade che gli reggeva lo strascico…**
Scacciando un brivido, Sherlock aveva optato per la soluzione più logica: inviare John al suo posto con un dono adeguato.
“No, non pensarci proprio”.
No, ancora?
“Io ho già Harry, Mycroft è un problema tuo, non hai dieci anni, parlaci! Se vuoi però ti accompagno a scegliere un regalo, contento?”
Non lo era affatto, ma nessun ricatto o modo affabile aveva convinto il suo fidanzato a cambiare idea; quindi, per non perdere la faccia, la sera seguente Sherlock si era diretto a Pall Mall vestito impeccabilmente, con una scatola incartata e infiocchettata contenente una camicia di seta bianca sotto il braccio, e con un travaso di bile di discreta portata.
Non poteva fare uno sforzo per lui? Si sarebbe divertito: c’era un’orchestra, era stata servita un’ottima cena, gli ospiti legavano tra loro… evidentemente suo fratello era impazzito, ma perché doveva subire la stessa sorte? Era tornato a casa come un reduce di guerra, almeno su questo John avrebbe potuto simpatizzare, invece gli aveva solo chiesto se fosse stata una bella festa.
L’investigatore aveva bofonchiato qualcosa come ‘passabile’ e si era diretto tutto impettito verso la loro camera, con la certezza di percepire uno sguardo malizioso di John che lo centrava sulla prima vertebra come una freccia.
Certo, il turno del terzo ‘no’ aveva assunto la gravità di una catastrofe mondiale, perché era stato a letto.
La stanza era quasi totalmente al buio, tagliato da un raggio di luna che s’intrufolava tra le tende, talmente sottile da sembrare una lama color latte.
L’insonnia non era stata mai un gran male per Sherlock, e non vedeva perché non coglierne il lato migliore… aveva sfiorato il viso di John, felice di riconoscerne i tratti, di sentirsi a suo agio col profumo della sua pelle.
Poi aveva lasciato che una mano scivolasse viziosa più in basso, ma il riposo di un soldato non diventa mai davvero profondo. Il biondo aveva intercettato le sue dita con le proprie, fermandolo con delicatezza, la voce impastata dal sonno.
“Sherlock… no, non ce la faccio adesso”.
Il cuore dell’investigatore si era fermato per un attimo, un attimo lunghissimo. Non era possibile, ci poteva essere solo un terribile motivo dietro quel rifiuto. Si stava già stancando di lui, non gli sapeva dare quello di cui aveva bisogno? Era interessato a qualcun altro?
“Dio, stai pensando delle cose così brutte che mi pare che mi stiano lapidando… vieni qui, girati”.
“Era solo questo?” La voce di Sherlock era acida, quella di John divertita, per quanto incerta.
“Chi è stupido, ora? Rilassati, mettiti comodo col cuscino… sono le tre di notte, ho lavorato otto ore nello studio, poi abbiamo inseguito un pluriomicida che avrei volentieri lasciato scappare…”
“Ma John!”
“Un uomo che fabbrica una bomba carta e la porta alla riunione di condominio ha la mia ammirazione… e hai voluto prenderlo per fare un regalo a Greg per non farlo sbranare dai giornalisti, non è nemmeno un caso da zero, per te”.
“Hai cenato, vero?”
“Sì, lo ammetto, ho anche mangiato e quindi digerisco… ascolta adesso, sto per riaddormentarmi. Va tutto bene”.
John attrasse il suo innamorato con la schiena stretta contro il suo petto, passandogli un braccio sotto la testa, e posando la mano destra sul suo cuore turbato, bene aperta perché fosse uno scudo efficace.
“Ti tengo. Prova a dormire un po’, serve anche a te. Sei umano, Sherlock”.
“… scusare…”
Cosa? Non ti ho sentito”.
“Non ti scusare”.
“Humm… non lo stavo facendo. Buonanotte”.
Era confuso, un po’ arrabbiato, ma quando malgrado la differenza di altezza Sherlock riuscì ad appallottolarsi come un gattino che si acciambella in un posto caldo e comodo, contro la sua volontà gli occhi si chiusero in un sonno tranquillo.
La quarta volta era stata disdicevole: la scienza non ammette limitazioni!
John si ergeva come un intero battaglione a difesa del frigorifero, ed era chiaro che sarebbe passato alle maniere forti, se necessario.
Lo fissava come un rapace, pancia in dentro, petto in fuori e piedi alla giusta distanza per non poter perdere l’equilibrio in un attacco.
La sua attitudine era così marziale che Sherlock sentì un brivido di eccitazione attraversarlo, e quasi avrebbe cambiato piano, se convincere Molly a fornirgli dei bei pezzi di cadavere fresco non fosse diventato più difficile, nell’ultimo periodo.
“John, non essere testardo: solo per il tempo di vedere formarsi un fungo della pelle che vive alle basse temperature, capirei dove si trovava la vittima…”
“NO! Quel morto dovrebbe essere al cimitero, Sherlock, in una bara! Non in un frigorifero domestico, cielo, ce l’hai un po’ di decenza, oltre al senso dell’igiene?”
“Ma non se ne accorge! Ragiona!”
Il risultato fu di essere quasi sbattuto fuori di casa, destino che toccò al grande baule isotermico, che fu gettato, con mira addestrata, proprio all’angolo del cassonetto dell’umido.
Il bruno recuperò il contenitore, mentre una signora si era fermata a guardare la scena, con aria compassionevole.
“Che brutte queste liti… l’ha messa alla porta con quattro vestiti eh?”
“Con un braccio in perfette condizioni! E altro!” Sherlock era proprio sconvolto per distrarsi così; ma dopo aver esibito la prova di quanto affermava alla donna ― e il di lei svenimento ― si era trovato in cella in questura, steso a elencare la lista dei difetti altrui, finché un solerte Lestrade l’aveva fatto rilasciare, per tornare da quell’oscurantista del suo fidanzato.

Il terzo biscotto allo zenzero trovò la sua giusta fine accompagnando il fondo della tazza di Earl Grey.
Sherlock si sedette senza parlare, chiudendo gli occhi per concentrarsi meglio. Gli appartamenti di John nel Palazzo Mentale apparvero subito nella loro importante bellezza; non glielo aveva ancora detto per una forma di ridicolo pudore, ma non c'era solo una stanza riservata al medico. Subito si era espansa in una suite di lusso, poi in un appartamento a due piani, neanche se si fosse trasformato in un agente immobiliare.
Al piano terra c'erano le prime informazioni; nome, immagine, colore preferito, attitudini, data di nascita; il solito. E il registro delle sue azioni, compresi quei cinque comportamenti negativi che non riusciva proprio a gettare via, non c'era nulla di John che riuscisse a considerare superfluo.
Era questo a dare un peso eccessivo alle cose?
Sherlock tornò con la mente al giorno successivo lo screzio per il pagamento del taxi. Al piano superiore, dove conservava i ricordi, c'erano le memorie che non lo preoccupavano, che quindi erano state spostate e sistemate in bell'ordine come libri su uno scaffale.
Erano usciti correndo, eppure John lo aveva superato e gli aveva aperto lo sportello, con scandalo del tassista, che avrebbe trasportato volentieri solo donne poco abbigliate, altro che qui due damerini!
Il divertimento per la sua espressione aveva superato il nervosismo precedente, e in più John aveva cavallerescamente pagato.
A poca distanza c'era il ricordo della sera nella quale il suo ragazzo si era rifiutato di andare al compleanno di Mycroft.
Sherlock rivide se stesso avanzare facendosi largo tra quegli sconosciuti insignificanti — che probabilmente erano Pari del regno, duchi e ambasciatori in visita.
Mycroft gli venne incontro col suo fare snob e il sorriso mellifluo delle grandi occasioni.
“Non ci credo, il mio fratellino mi ha fatto questo onore; grazie di quella camicia di seta che hai scelto col dottor Watson, bianca, senza dubbio”.
“Risparmiami la tua deduzione sul contenuto della scatola, è una scienza che ho inventato io. Piuttosto questa buffonata? Credevo che la tua idea di compleanno fosse sciogliere dei pitbull all’ingresso se ti avessero portato fiori e regali, e osservare il risultato da una torre segreta…”
Il maggiore degli Holmes sospirò, nascondendo quel gesto umano soffiando l’aria in un calice di Dom Pérignon rosé. “Malauguratamente la nostra beneamata sovrana ha avuto la compiacenza di ricordarsi di me, facendomi gli auguri tre giorni fa in occasione… in una situazione riservata. Ora ho una cinquantina di persone che conosco troppo bene per gradirne la presenza in casa che si sono sentite in dovere di mostrarmi la loro disinteressata amicizia… Lady Smallwood, è splendida questa sera! Mi scusi, sarò subito da lei. Dicevamo… credevo venissi in compagnia dell’ottimo dottore, Sherly”.
“Mi ha mandato solo”. Sherlock si sarebbe morso la lingua osservando l’espressione serpentesca che si formava sul viso del politico.
Solo. Prima ti piaceva questa parola. Non quando eri piccolo, ma subito dopo sì. Ormai sei qui…”
Sherlock non l’aveva programmato, e una parte di sé si insultava da sola, ma un abbraccio un po’ rigido lo stava unendo a Mycroft, compresa una fugace carezza del maggiore sulla sua nuca.
“I miei auguri, fratello”.
Possibile che John, a furia di vivere con lui, stesse diventando più intelligente? Tanto da prevedere cosa sarebbe successo? No, la sua mente era come un mare tranquillo, a riposo. Il più delle volte.
Forse per rendergli giustizia doveva recuperare anche il ricordo della mattina successiva al Sommo Rifiuto.
Aveva socchiuso gli occhi, accorgendosi che albeggiava ancora, dovevano essere appena le sette. Quel contatto tiepido che lo sfiorava all’attaccatura dei capelli erano piccoli baci che John gli stava posando tra i riccioli e il collo, mentre la mano che l’aveva tenuto abbracciato ora era sotto la camicia del pigiama. “Buongiorno… hai dormito come un bambino”. John ― che vigliacco! ― era passato a strusciargli le labbra dietro l’orecchio, consapevole dell’effetto che gli faceva.
“E ora che sono riposato, vorrei alzarmi”. Una risata di cuore fu la risposta che ottenne, mentre si sentiva artigliare il fianco, e una mano tra le gambe che mise fine alla sua recita.
“Non mi pare che desideri andartene, solo che sei permaloso”.
“Togliti di dosso, John!” La frase su seguita da un gomitata all’indietro, talmente poco convinta da funzionare come detonatore.
In un attimo pigiami e biancheria erano sul pavimento, mentre John lo prendeva così, su un fianco; non aveva mai provato ed era bellissimo; ogni movimento lo faceva inarcare per sentirlo più in fondo, finché un’incredibile ondata di piacere gli tolse il respiro.
“Sherlock?”
“Sì, John” la voce del bruno era sempre così dolce e vellutata, dopo, da mettere voglia di ricominciare.
“Se ieri avessimo fatto due minuti di sesso meccanico non sarei stato molto contento. Io con te faccio l’amore”.
Possibile che avesse diviso così ingiustamente quello che gli dispiaceva da quello che lo rendeva felice? Era davvero così egopatico, quindi?
Restava l’episodio del frigorifero. Quel ricordo era a portata di mano, essendo il più recente.
Quando era rientrato a casa dall’arresto, stanco e di pessimo umore, aveva trovato il tavolo apparecchiato per il tè, le tazze a fiori blu, e una magnifica torta a quattro strati di cioccolato diverso, nel centro.
“Bisogna pregarti per mangiare, a meno che siano biscotti o quella torta spaventosa, e costa una fortuna! Non potevo farla puzzare di cadavere, Sherlock. Mangia, non farmi innervosire, per favore. Per… i tuoi giochini compreremo un frigo da campeggio da mettere in soffitta”.

Sherlock posò la tazza, guardando fuori dalla finestra i giornalisti accalcati che aspettavano che il portoncino si aprisse, poi di nuovo John assorto nella lettura.
Se non volesse gridare a quegli sciacalli “io non sono gay” come se si vergognasse di lui? Né sbattere loro in faccia la verità, diminuendo la loro privacy? Lo stava lasciando scegliere, e per lui  sarebbe stato quel che sarebbe stato.
“John”. Sherlock si avvicinò fino a posargli un bacio sulla fronte.
“Questo, perché…”
“Grazie per quando mi dici di no”.


*La data è assolutamente inventata da me, non avendola reperita in alcun sito: ho pensato che se è incredibilmente intelligente e alla fine è legatissimo a Sherlock, può essere uno Scorpione.
** Ho pensato ad una versione antica dell’abito, sul genere di Sarastro ne “Il Flauto magico”

  
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