Monreale, 19 maggio
1860
Mia adorata,
vi chiedo umilmente perdono. Non avete
ricevuto più mie da quando salpammo da Porto Santo Stefano,
e profondamente mi
vergogno per avermi costretto a rimanere in pensiero per me.
Purtroppo, i frenetici e intensi
avvenimenti di questi ultimi giorni hanno prosciugato ogni minuto del
mio
tempo, lasciandomene una briciola miserrima da dedicare interamente a
me
stesso, e a voi. Quest’oggi solamente sono riuscito a
racimolare un poco di
carta e un carboncino, e a scribacchiare qualche riga per voi, per
rincuorarvi
e rassicurarvi sulla mia incolumità.
Il pensiero di voi è stata l’unica
ancora che mi ha permesso di non affogare in questo mare di morte e
disperazione.
Una sanguinosa e terribile battaglia si
è conclusa quattro dì addietro, e mi ha concesso
l’onore spiacevole di sfiorare
l’orrore della guerra, la desolazione e la devastazione che
le sono compagne, e
l’annullamento totale dell’umanità.
Preferirei non dilungarmi su così
tristi e macabri argomenti, ma lo sconvolgimento che ha prodotto in me
un
simile avvenimento, è tale da non poter essere contenuto
troppo a lungo, e ho
la necessità di condividerlo con qualcuno.
Io facevo parte del primo Battaglione
dei Cacciatori delle Alpi, e non presi parte alla battaglia, se non
nelle fasi
finali, rimanendo nel contingente di riserva. Gran parte di quello che
sto per
riferirvi mi venne raccontato, sebbene ebbi la sfortuna di assistere
con i miei
occhi ai più grotteschi episodi, che intimamente scossero il
mio animo.
Breve ma intenso fu lo scontro, e al
primo assalto dei borbonici, inaspettato e violento, respinto con non
poche
difficoltà dai nostri, la speranza di poterlo vincere si era
già dileguata come
una fiamma di candela spenta da un soffio di vento.
Il generale, avendo notato come a
malapena fossimo riusciti a frenare l'attacco di un sesto delle forze
nemiche
schierate, pensando che difficilmente avremmo potuto resistere a
un'azione più
energica, diete l’ordine di prepararsi alla ritirata. Ma il
prode Garibaldi bloccò
tale ordine e intimò con la sua voce imperiosa:
«Nino, qui si fa l'Italia o si
muore!»
Quelle poche parole ebbero l’effetto di
un incantesimo sugli uomini: quel pugno di sbandati trafelato, pesto,
insanguinato, sfinito da tre ore di corsa e di lotta, trovò
nelle maliarde parole
dell’uomo la forza di risollevarsi e tenersi in piedi, e
riprese, come gli era
stato ordinato, la sua salita micidiale, risoluto all'ecatombe. Come
egli aveva
previsto, la fortuna fu nostra: incalzati nuovamente di fronte a quel
branco di
indemoniati che pareva uscissero da sottoterra, sgomenti
dall'improvviso rombo
dei cannoni che Orsini era finalmente riuscito a portare in linea,
turbati dal
clamore crescente delle squadre sui loro fianchi, i borbonici
disperarono di
vincere, e voltate le spalle, abbandonarono il monte e si precipitarono
a
rifugiarsi dentro Calatafimi.
La vittoria, però, è stata resa amara
dal sapore di sangue e dal puzzo di morte che la impregnò:
diciannove dei
nostri caddero, tra cui il giovane Gaspare
Tibelli,
spirato il giorno del suo diciottesimo compleanno, nel primo assalto, accanto al
portaordini
Adolfo Biffi di tre anni più giovane. Mi era stato affidato
l’incarico di
rintracciare i feriti e i moribondi in quel marasma di carne e corpi, e
mentre
vagavo come un dannato sulla desolante distesa di cadaveri,
l’occhio cadde su
quel giovane uomo che rantolava penosamente, il petto dilaniato da una
baionetta. Non si poteva fare molto per lui: la lama aveva perforato un
polmone
e il respiro era rotto e macchiato di sangue. Mi accostai a quel
giovane e feci
tutto quanto fu in mio potere, accompagnando la sua dipartita per il
Regno dei
Cieli. Conosco la famiglia di quel ragazzo, e fu per me straziante
essere lo
spettatore imponente della sua morte. Mi domando che senso abbia avuto
questa
battaglia e a che prezzo siamo riusciti a conquistare la vittoria.
Lo
spettacolo più miserabile, però, apparve a
Partinico, la sera addietro: all'entrata
e per le vie della città, trovammo molti cadaveri di soldati
borbonici, carbonizzati
e straziati in mille modi. Intorno a sette od otto di questi cadaveri,
molto
fanciulle danzavano a cerchio tenendosi per mano e cantando.
Interrogata, da
uno dei nostri, una donna del perché non li
avessero concesso una
sepoltura degna, «Perché non meritano sepoltura;
devono mangiarseli i cani!» ella
rispose e tali parole produssero in noi grande orrore e sgomento. Il
popolo era
stato molto maltrattato dai soldati borbonici, anteriormente alla
battaglia di
Calatafimi, e quando questi tornarono fuggendo e sbandati, la
popolazione aveva
dato loro addosso massacrando quanti potevano, e perseguendo il resto
verso
Palermo.
Ma
erano cadaveri d'Italiani da Italiani sgozzati che, se cresciuti alla
vita dei
liberi cittadini, avrebbero potuto servire efficacemente la causa del
loro
oppresso Paese. Invece, come frutto dell'odio, suscitato dai loro
perversi
padroni, essi, finirono straziati, sbranati dai loro propri fratelli,
con tal
rabbia da far inorridire le jene!
Non
rinnego gli ideali che mi hanno spinto in questa impresa, ma mi chiedo
se questo
sia il metodo più efficace e se le conseguenze di questa
nostra impresa saranno
sempre ugualmente cruente.
All’inizio
non nutrivo alcun dubbio in proposito: la guerra condotta per nobili
scopi è
una guerra giusta, almeno così pensavo…Ma dopo
gli avvenimenti di quest’ultimo
periodo non sono più certo di nulla.
In
questi momenti, arriva in soccorso il ricordo di voi, che mi rammenta
il motivo
che mi spinse ad imbarcarmi in questo progetto ancora abbozzato e
pernicioso:
desidero offrirvi un luogo che possiate finalmente sentire come vostro,
una
Nazione unica, che possiate chiamare “casa” e che
riunisca, oltre a voi, tutti
coloro che si sentono parte di questa famiglia.
Non
sopporto il pensiero che viviate sotto il gioco di una potenza
straniera, che
non comprende i nostri bisogni e la nostra lingua; voi necessitate di
vivere in
una Nazione che sia libera e unita, dovete sentirvi parte di un popolo
in cui
vi riconosciate e vi sentiate protetta, come se fosse
un’estensione della
vostra famiglia.
Ho
avuto modo di parlare con Garibaldi, poco prima della battaglia, e
riferii a
lui queste stesse parole.
Il
generale ha un aspetto da brigante con quella sua capigliatura fulva,
lunga e
selvaggia e i dardeggianti occhi chiari, dallo sguardo fiero e
profondo, ma
dentro di sé nasconde un animo ardimentoso e temerario,
più di tutti noi. È lui
che guida e sprona, che risolleva chi precipita nella polvere.
È lui che
sostiene tutti noi: un sol uomo a reggerne mille!
Ha
un incredibile vigore e la forza dei suoi ideali è tale da
superare qualunque
ostacolo ostruisca il suo cammino. È inarrestabile! Il
fervore con cui sostiene
le sue idee è pari solo a quello con cui i Santi sostenevano
la Fece per la
quale vennero martirizzati- spero di non risultare ai vostri occhi
blasfemo con
codesto azzardo, ma non saprei come altrimenti spiegare
quell’ inestinguibile fiamma
che arde entro di lui e illumina e a scalda noi altri.
Durante
quel breve colloquio, mi domandò per chi stessi combattendo
e rischiando la mia
vita. Non chiese “per cosa”, ma “per
chi”, come se avesse intuito che la mia
motivazione fosse una persona, e non un’ideale o uno scopo
effimero e
inconsistente. Gli parlai di voi e del dono che mi ero prefissato di
farvi.
«Non
dimenticatevi mai della vostra promessa» mi disse,
stringendomi una spalla,
«Sono gli affetti che ci permettono di rimanere
umani.» E quando fissò gli
occhi turchini su di me, sussurrando codeste parole, vidi brillare
nelle sue
iridi la stessa determinazione che accende il mio cuore, mitigata da
un’umanità
profonda e sofferta. Quella stessa umanità l’aveva
spinto a ordinare che i
cadaveri dei borbonici venissero seppelliti. Nei suoi occhi si
specchiava una tristezza
sconfinata, scaturita non solo dalla desolazione e dalle barbarie
causate dalle
battaglie, ma maturata attraverso la sofferenza di vedere la propria
città
natale strappata alla sua legittima proprietaria e diventare terra
straniera.
Quello sguardo era lo specchio dei tormenti del suo cuore.
Mi
narrò del terribile patto, sancito dalla Francia come
pagamento per il soccorso
che stava offrendo alla nostra causa, e mi confessò che
avrebbe liberato la
città, come ora stava facendo con queste terre.
I
Siculi ci hanno accolto benevolmente, come dei salvatori, e molti di
loro si
sono uniti alla nostra causa.
Ho
conosciuto uno di questi prodi connazionali, Saverio
Privitera, uno “scugnizzo” mio coetaneo che ha la
propria dimora e la propria
amata ad Acireale. Trascorriamo le sere rievocando le rispettive
città e
riesumando le loro bellezze, smussandone i difetti che paiono
più
insignificanti agli occhi della memoria e della nostalgia. Egli mi ha aiutato ad
apprezzare questa terra
brulla e inospitale, mostrandomi le sue bellezze nascoste e segrete,
rivelate
solo a coloro che sono capaci di scovarle: le montagne aspre che si
arrampicano
fino al cielo, sfidandone le azzurrità infinite; gli arbusti
che con strenua
testardaggine rimangono abbarbicati alle colline butterate dalle piante
di
fichi, e le rovine, che appaiono improvvisamente, lasciandoti con un
grido di
meraviglia e sorpresa incastrato tra le labbra, ricordi morenti di
civiltà
perdute intrise di storia e segreti, che raccontano nei sussurri del
vento di
antichi fasti e guerre e amori, e racchiudono tra le colonne rovinate
dal tempo
le grandi imprese gloriose come le piccole conquiste quotidiane. Mi
piace
passeggiare tra queste costruzioni decadenti, un senso di pace e
tranquillità
mi invade, concedendomi il lusso di cadere nell’oblio della
contemplazione
dell’arte. Queste mie escursioni solitarie sono il mio
massimo diletto e ogni
attimo libero, diviene per me l’opportunità di
godere del silenzio denso di
significati e misteri di cimiteri di un’altra epoca. E il
mare di quest’isola è
un’altra delle bellezze celate d questa terra: è
di un azzurro intenso e omogeneo,
paragonabile a quello del cielo terso e alla sfumatura del vostro
abito, quello
che indossaste il giorno in cui partii.
Ho raccontato a Saverio di voi, come
egli mi ha narrato della sua Maria Assunta, che lo attende ad Acireale.
Racconta di lei con le lagrime agli occhi, e la pipa sospesa tra le
dita,
dimenticata, totalmente immerso nella contemplazione estatica
dell’immagine di
lei.
Io stesso devo avere un aspetto simile
quando, a mia volta, mi dilungo sulla vostra bellezza e le vostre altre
numerose
qualità; attraverso le mie parole commosse e sentite, la
vostra figura si delinea
come un affresco dalle tinte delicate e morbide: il vostro abito
azzurro, la
vostra folta capigliatura scura in cui affondare le dita come in un
mare di
seta, i vostri occhi supplichevoli e brillanti di lagrime...e le vostre
labbra,
le vostre amatissime e sospirate labbra! Ancor oggi posso rievocarne la
morbidezza fragile e il sapore dolce e lieve, di promesse appena
sussurrate e
di dolceamari addii.
Immerso nei crepuscoli malinconici di
questa terra, riassaporo ogni istante di quel bacio, e ogni volta mi
sembra
assuma un sapore e un significato nuovi eppure conosciuti.
Quel bacio fu per me il più straziante
e il più bello che rubai alla vostra bocca profumata: il suo
calore aleggia
come un’ombra sulla mia, accompagnandomi nei momenti di
sconforto e malinconia.
Esso è per me una fonte da cui ho
attinto la forza per continuare combattere e sopravvivere un giorno in
più: è
quel bacio a infondermi la fermezza che rinfranca e incoraggia
l’anima mia, e
mi permette di affrontare un nuovo dì. E il ricordo della
vostra bocca tremante
e disperata cancella le immagini tetre e meschine di cadaveri e morte;
la
vostra dolcezza e la vostra delicatezza e il solo loro ricordo sono
bastanti
per rendere più sopportabile questo Inferno, portandone una
scheggia di
Paradiso.
Le vostre lacrime ancora bagnano le mie
gote, e le vostre piccole mani candide ancora stringono il mantello,
nel
tentativo ultimo di trattenermi e percepisco ancora il vostro corpo
tremante,
che avvolgeva il mio, cercando un rifugio tra le mie braccia,
pregandomi di non
partire e lasciarvi.
Eppure, mi lasciaste andare, amandomi a
tal punto da permettermi di inseguire il folle progetto di un sognatore
abbigliato di scarlatto. E ve ne sono immensamente grato.
Sappiate che non vi ho abbandonata.
Quello fu un bacio disperato in cui raccogliemmo tutti i nostri
sentimenti, il
nostro affetto e le nostre preoccupazioni, in cui cercammo entrambi un
conforto
e una speranza; ma per me, fu anche il sigillo di una tacita promessa:
tornerò
da voi, mia amata, e vi sposerò!
Quel bacio diventerà il preludio di
tanti altri, scambiati all’ombra di questi alberi di limoni,
quando vi porterò
a visitare la Sicilia e condividerete con me questo sole e questo mare,
scambiando battute con altri italiani e sentendoci parte di
un’unica realtà.
Questo è il mio intimo giuramento per
voi, luce dei miei occhi,.
Vi amo profondamente e disperatamente,
e a ogni nuovo respiro il mio pensiero corre a voi, ringraziando Iddio
di
concedermi una speranza in più di rivedervi. Vorrei poter
tornare presto ad
assaporare le vostre labbra e accarezzare il vostro corpo.
Ho bisogno di voi e del vostro affetto,
le vostre lettere sono un magro conforto, un fantasma sbiadito della
vostra
amabilità, della vostra sensibilità, del vostro
riso e del vostro profumo.
Voglia Iddio che ritorni il più presto
possibile per sigillare il compimento della mia promessa.
Per sempre vostro
Alessandro