Ubriaco, di nuovo.
Chuuya si sentiva uno stupido, in quel momento.
Si era ubriacato, di nuovo, per l’ennesima volta.
Si era ubriaco eppure non riusciva a dimenticarne il volto e i lineamenti e il
suono della voce. Non ne scordava neppure la profondità degli occhi castani.
Ne ricordava perfettamente ogni solco della pelle, ogni piega delle labbra,
ogni movimento casuale.
Si era ubriacato, di nuovo, e di nuovo era tornato ad essere fragile e pieno di
crepe. Dazai gli era impresso nella mente, marchiato a fuoco, e Chuuya iniziava
a credere che non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Iniziava a credere che lo
avrebbe sognato ogni notte e che, ogni notte, si sarebbe svegliato in preda ai
deliri cercandolo nel letto, al suo fianco. Ed iniziava a credere che, ogni
notte, si sarebbe alzato barcollando e, barcollando, sarebbe arrivato in bagno
per poi caracollare davanti al cesso e rigettare l’anima.
Faceva male, il ricordo. Il ricordo delle sua risa e delle sue smorfie, persino
quello delle battute squallide e fastidiose sulla sua ridicola altezza. Faceva
male sapere di rivoler indietro quelle cose, di rivolere indietro Dazai. Faceva
male rendersi conto di quanto tutti quegli anni e tutto ciò che avevano
condiviso fosse stato solo un gioco, di come
lui fosse stato solo un gioco e un burattino e Dazai l’uomo mascherato,
quell’uomo che mai nessuno avrebbe conosciuto davvero, che tirava i fili. Non
avrebbe saputo dar nome a quel dolore sordo e persistente poiché chiamarlo
mancanza o nostalgia o rimpianto l’avrebbe ridicolizzato e ristretto,
spogliandolo della verità, rendendolo nulla se non un suono qualunque emesso da
una bocca qualunque.
Faceva male rendersi conto di come quel ragazzo che non era mai realmente
esistito lo perseguitasse più di tutti gli altri fantasmi.
«Chuuya» la testa era scattata in alto, come attratta dalla
più potente delle calamite. Un fulmine gli aveva attraversato il corpo ed
improvvisamente non aveva visto nulla che non fosse lui.
«Chuuya» di nuovo. Una voce, quella voce, la sua voce. Un richiamo, allora come
oggi.
Pareva schernirlo, quel tono trasognato, come se stesse cercando di mascherare
malamente il divertimento causato dalle sue condizioni.
Ubriaco, era ubriaco, solo ubriaco.
Dazai non era lì, non avrebbe mai potuto.
Un gemito strozzato era uscito dalle labbra di Chuuya, un gemito che presto si
era trasformato in uno scroscio di risa incontrollate ed irrefrenabili. Cosa
avrebbe mai potuto fare, oltre che ridere? Era disgustoso, tutto quello, quel
suo sognarlo, quel suo ricordarlo, quel suo volerlo accanto, ma più di ogni
altra cosa erano disgustose le lacrime bollenti che spesso non riusciva a
trattenere.
La bottiglia era tornata maldestramente alle labbra del rosso, tremava, per
qualche motivo –non avrebbe sputo dir perché- di certo non per la figura
castana che, slanciata come un giungo, si stagliava nell’oscurità, poiché
–Chuuya ne era certo- tutto quello non era che un’altra assurda allucinazione
dovuta all’alcol, non avrebbe mai potuto essere altro. Tremava e il vino rosso
gli ruscellava lungo le guance e il mento e il collo come sangue, bagnandogli
la pelle più di quanto non gli rinfrescasse la gola.
Era disgustoso che Dazai fosse il suo tormento, da sveglio e da dormiente, da
sobrio e da ubriaco, ed era disgustoso che Chuuya amasse perdere la testa solo
per poterlo vedere un poco più nitidamente.
La figura si era avvicinata -erano stati solo pochi passi- ma avevano fatto
appannare la vista di Chuuya ricoprendola di chiazze nerastre.
Lui stesso era disgustoso, questa era la verità, Chuuya Nakahara si faceva
schifo, ma, ancora peggio, si faceva pietà.
Era dolore malcelato, il suo. Ovattato, come quando ti si tappano le orecchie a
causa della pressione: senti quello che c’è intorno, eppure è tutto un po’
distante, sei separato dal mondo da una spanna d’aria ed un vetro di parole non
udite. E sono fastidiosi, da un certo punto di vista, quei suoni così strani,
ma se tutto quello persiste e continua così per ore ed ore finisci per smettere
di accorgertene e tutto resterà solo un suono ovattato, cotone nelle orecchie,
risate non udite e ferite tamponate. Ma poi le orecchie si stappano sempre,
esattamente come il dolore di Chuuya ricompariva sempre, a intervalli più e
meno regolari, e tutto torna ad investirti senza delicatezza né pietà.
Chuuya aveva riso di nuovo quando il profumo di Dazai,
chicchi di caffè freschi di tostatura, gli aveva riempito le narici oscurando
tutti gli altri odori. Era indietreggiato, Chuuya, spaventato dalla realtà e
dalla concretezza di quell’allucinazione, era indietreggiato fino a trovarsi
con le spalle premute contro il muro, la presenza del moro incombente su di
lui, ogni secondo un passo più vicina. Si era agitato convulsamente e il vino
rosso era schizzato fuori dalla bottiglia: aveva inondato il cappotto di Dazai,
il viso di Dazai, i capelli di Dazai, era colato sul pavimento e colato,
arrivando a formare una grossa chiazza scura che aveva finito per macchiare
l’angolo del tappeto. C’erano stati altri gesti convulsi, altro vino era volato
fuori dalla bottiglia prima che questa gli fosse strappata di mano dalla figura
che aveva davanti. Chuuya aveva continuato ad agitarsi in preda ad una follia
febbricitante anche quando Dazai, o chiunque o qualunque cosa fosse la cosa che
aveva davanti, gli aveva afferrato le braccia, bloccandolo e poi, vedendo come
non fosse servito a nulla, lo aveva stretto a sé, imprigionandolo tra quel
maledetto corpo che odorava di vino, caffè e casa, e la parete gelida. C’era
stato un momento in cui Chuuya aveva continuato a dimenarsi: sentiva caldo
ovunque, su ogni parte del corpo, coperta e scoperta, e gocce di sudore gli
rigavano la fronte e colavano lungo il collo, anch’esse bollenti. Era stato un
momento, o forse di più di uno, in cui Chuuya non era riuscito a respirare e
aveva avuto la sensazione si star soffocando nella sua stessa saliva mista a
vomito.
Ma era durato solo un attimo, si diceva, sì, solo un momento.
La presa si era allentata e Chuuya aveva approfittato di quel secondo per
spingere via l’altro con tutta la forza che gli era rimasta nelle braccia.
Avrebbe potuto spingerlo di nuovo, tirargli un pugno, scappare via, chi gli
diceva che quello in realtà non fosse un ladro che l’alcool gli aveva fatto
scambiare per Dazai? Ma non aveva fatto nulla di tutto quello, no. Le mani gli
erano ricadute sul petto e le dita, frenetiche, avevano iniziato a slacciare la
camicia, incastrandosi le une con altre e perdendo costantemente la presa sui
bottoni, gli stessi bottoni che alla fine erano stati strappati a forza fino a
che camicia, giacca e panciotto non erano caduti a terra, inzuppandosi di vino.
S’era appoggiato con la schiena e la nuca contro la parete, il petto bagnato
d’un sudore affannoso e malsano, gli occhi chiusi e le labbra semi-aperte alla
spasmodica ricerca d’aria. Le gambe gli tremavano e la testa gli girava tanto
che, per un momento, aveva creduto di stare per cadere a terra. La voglia di
vomitare era tanta, la bile gli bruciava in gola come acido, ma il ragazzo che
un tempo era stato Chuuya -e che adesso non era altro che un pezzo di carne con
troppe lacrime ed urla trattenute-, aveva aperto gli occhi e guardato la figura
castana che, ancora, si stagliava davanti a lui.
Chuuya e Dazai, il fantomatico Doppio Nero, erano
paragonabili ad un temporale. Persino lo stesso rosso aveva fatto quel paragone
più di una volta.
Chuuya era fulmine e lampo: il primo ad arrivare e quello a causare i danni atroci.
Chuuya era una scarica elettrica incontrollabile che distruggeva qualunque cosa
al suo passaggio, uomini, donne e bambini, non faceva la differenza, tutto ciò
che si parava sulla sua strada, semplicemente, moriva, per colpa sua o per
riflesso o continuità non aveva importanza.
Dazai era il tuono, una semplice reminiscenza: se la prendeva comoda e seguiva
il lampo più o meno distante, sempre alle sue calcagna, mai troppo lontano da
perderlo di vista, sempre abbastanza vicino da perseguitarlo con la sua
presenza. Ma era del tuono che i bambini, durante le notti temporalesche,
avevano paura. Cos’erano fulmine e lampo se non una scarica d’elettricità
chissà dove e bagliore luminoso? Era il tuono quello distruttivo, quello che
rimbombava ovunque, che faceva piangere i neonati nelle loro culle sebbene non
facesse realmente alcunché.
Dazai era quello, un inseguitore, un ritardatario, una semplice eco che, però, con
il solo suono, spaventava più di tutta l’eterna, indistruttibile ed eterea
potenza del fulmine.
Chuuya lo aveva spinto, di nuovo, e Dazai s’era lasciato
buttare indietro come una bambola di pezza. Aveva barcollato e Chuuya lo aveva
spinto di nuovo, e poi di nuovo e ancora e ancora e ancora, fino a che Dazai
non aveva smesso di arretrare ed era rimasto fermo nel bel mezzo della stanza,
immobile se non per leggero ciondolare dovuto alle sempre più deboli pressioni
del ragazzo. Pressioni che presto di erano trasformati in pugni, ma anche
quelli erano durati poco. Tutto era scemato, lentamente, fino a trasformarsi in
qualcosa di grottesco e ridicolo.
Dazai aveva bloccato le mani del rosso, ma questi si era liberato della sua
presa e aveva continuato, come una goccia d’acqua che cade su un masso, inutile
da sola, ma che prima o poi sarà capace di scavare un solto nella roccia.
Prima che quel momento fosse arrivato, però, lacrime bollenti avevano iniziato
a rigare il volto di Chuuya.
Lacrime brucianti, acide contro la pelle.
Lacrime avide, avide di dolore, avide di gemiti ed urla, avide d’altre lacrime,
avide d’altra pelle su cui scorrere, avide semplicemente d’altro, di tutto ciò
che Chuuya poteva e non poteva dar loro.
«Te ne sei andato.»
Fuori pioveva, Chuuya se ne era reso conto solo in quel momento, e un tuono
aveva coperto le sue parole spezzate facendolo sussultare.
«Te ne sei andato» aveva ripetuto «Mi hai abbandonato.»
Parole taglienti come una lama, che però a Chuuya stesso erano suonate vuote. O
meglio, non vuote, piene di quel dolore ovattato che da tempo sentiva
riempirgli il cuore.
«Chuuya…»
«Mi hai lasciato solo.»
«Chuuya…»
«Tradito.» Questa volta non c’era stato
alcun richiamo. «Tu hai infranto la nostra promessa, tu mi hai tradito.»
Non c’erano bisogno d’altre parole.
Hai tradito la fiducia che riponevo in
te, la fiducia che mi aveva spinto ad appoggiarmi a te durante i miei momenti
di panico, la fiducia che mi aveva fatto stringere a te durante le notti buie,
la fiducia che mi aveva detto che non c’era nulla di male a farsi toccare, la
fiducia che mi aveva permesso di afferrarti il viso tra le mani e dirti che mi
ero innamorato.
Mi hai tradito, ci hai traditi entrambi.
Sei diventato il lampo e sei scappato via, ed io non me ne sono accorto fino a
che non è stato troppo tardi.
Perché questa era la verità: improvvisamente Dazai si era
trasformato nel lampo ed era volato via, rubandosi tutta la luce e lasciandolo
ad annaspare, solo con se stesso. In quella metafora e in quell’occasione era
Dazai quello veloce, quello che superava il mondo ingranando la marcia più
alta. E Chuuya? Chuuya era il tuono, ritardatario e solo nelle sue tenebre,
Chuuya era quello rimasto indietro, quello che aveva perso il treno e la quella
partita a dadi. Chuuya era sempre il secondo, qualunque cosa facesse, era
sempre il più debole e miserabile, in ogni metafora.
Perché mai le cose avrebbero avuto bisogno di cambiare?
Era crollato a terra, strisciando indietro, il volto
inondato di lacrime –lacrime che gli erano entrate in bocca e scese in gola,
lacrime che lo avevano soffocato-, aveva sbattuto la testa contro lo spigolo
del tavolo e tutto s’era fatto ancora più nero ed offuscato.
Delle braccia lo avevano afferrato e steso sul divano.
Dei polpastrelli gli avevano accarezzato la fronte madida di sudore.
Delle labbra avevano sfiorato le sue, e poi la mente di Chuuya s’era spenta, il
“mi dispiace” rimasto sospeso nell’aria tra la veglia delirante ed il sonno
profondo.
La mattina dopo, di quello, di loro, era rimasta solo una chiazza di vino a
bagnare l’angolo del tappeto nero.
Piccola nota autrice
Ringrazio gli Imagine Dragons per aver scritto Thunder perché, senza di loro,
sarei rimasta bloccata dopo il primo paragrafo. Grazie di esistere c:
Bene, detto questo ringrazio anche tutti coloro che hanno letto, spero di avervi
fatto deprimere almeno un po’, altrimenti tutto questo angst sarà andato
sprecato.
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