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Autore: Blablia87    22/07/2017    5 recensioni
Sherlock apre gli occhi, piano, in una fresca sera di inizio estate.
John sta dormendo, raggomitolato in una posizione scomoda, sul divanetto di fianco al suo letto.
Ha il viso magro, e gli occhi infossati. I capelli e la barba lunga, somiglia solo in parte all’uomo che ha accompagnato i sogni del detective fino a quel momento.
[Johnlock][“What if?” 03x03]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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«Sherlock.
We’re losing you.
Sherlock?»
 
“For God's sake! This could kill you!”
 


 
“I’m laughing, I’m crying…
…Sherlock is dying.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sul monitor, la linea del battito si accartoccia, raggruppandosi in brevi picchi ravvicinati.
John la fissa per una frazione di secondo, bloccato con la schiena contro il portellone dell’ambulanza. Ha visto troppi elettrocardiogrammi, negli anni, per non sapere cosa stia per avvenire. Cosa segua, a distanza di poche contrazioni discontinue, una fibrillazione ventricolare di quella gravità.
Il suono continuo del battito assente esplode nella sua testa ancor prima di vederlo comparire sullo schermo.
Cancella ogni apice, ogni piccola onda verde di attività – seppur irregolare – cardiaca.
Si porta via, poco a poco, i respiri dell’uomo steso davanti a lui e – assieme a loro – i suoi. John li sente incastrarsi nello sterno, ammassarsi nella gola.
Mentre i medici iniziano le prime manovre di rianimazione, lui si lascia andare con tutto il peso all’indietro, serrando gli occhi.
Ha pregato anni per un miracolo, e ora sente di non essere stato capace di proteggerlo come avrebbe dovuto.
 
 
 
Lestrade si siede, in silenzio, su una delle piccole sedie in plastica chiara della sala d’attesa.
John, di fronte a lui, è piegato in avanti, curvo su se stesso. Ha la testa china – nascosta dalle braccia – e non la solleva neanche quando l’altro lo chiama per nome.
«Ho i risultati degli esami autoptici» comincia l’ispettore, prendendo un respiro profondo. «Non so se può esserti di conforto, in qualche modo, ma… non era incinta.»
Il medico solleva appena il capo, aggrottando le sopracciglia. Deglutisce un paio di volte, prima di riuscire a tirarsi su a sufficienza per poter guardare negli occhi l’altro.
Un’altra bugia, quindi.
Lestrade cerca di sorridere, ma i segni sul volto di John gli fanno tremare i polsi.
«Non hai ucciso tuo figlio, John...» sottolinea, quasi fosse necessario dare una forma concreta, reale, a quella paura indicibile che per due giorni ha lacerato l’anima del medico. «Hai solo fatto quanto era necessario per salvare la vita di Sherlock.»
«Quale vita» sibila John, e vorrebbe lavare il dolore dalla pelle togliendosela pezzo per pezzo, fino a morire a sua volta. «Il coma non è vita.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’indagine nei confronti di John – “un atto dovuto, per quanto sgradevole” lo definisce Lestrade il pomeriggio nel quale, mortificato, consegna al medico l’invito a comparire per rilasciare una dichiarazione - viene chiusa tre mesi dopo, non appena viene messa agli atti la testimonianza di Magnussen su quanto accaduto nel suo studio.
Il medico lo scopre solo due sere più tardi, quando Janine compare con un quotidiano nella stanza di Sherlock.
«Sei stato prosciolto da ogni accusa» lo informa con un sorriso morbido, andandosi a sedere accanto a lui. John, la barba incolta e gli occhi stanchi, annuisce appena.
«Perché non vai a casa? Solo qualche ora. Rimango io con lui» si propone lei, sfiorandogli un braccio. Il medico si ritrae, di scatto.
«Non posso» le risponde dopo qualche secondo, spostando gli occhi sul viso disteso del detective. «Sto scontando la mia condanna.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sherlock apre gli occhi, piano, in una fresca sera di inizio estate.
John sta dormendo, raggomitolato in una posizione scomoda, sul divanetto di fianco al suo letto.
Ha il viso magro, e gli occhi infossati. I capelli e la barba lunga, somiglia solo in parte all’uomo che ha accompagnato i sogni del detective fino a quel momento. Sino a quell’atterraggio compiuto per aiutare una sorella mai esistita che, invece, ha ricondotto lui alla terra della coscienza.
Il detective prova a muovere un dito in direzione dell’altro, ma i muscoli – indeboliti – non rispondono ai comandi.
Dopo qualche tentativo, si arrende. Rimane immobile, lo sguardo sul sonno agitato di John.
 
Riesce a chiamarlo - con voce bassa, arrochita e spezzata – solo quando, con un movimento più brusco degli altri, il medico si porta la mano sinistra al volto in un gesto di protezione.
In ogni singolo frammento di vita trascorso in quel mondo creato per non perdere le ultime tracce di sé, John gli è rimasto accanto. Alle volte con affetto, altre con rabbia.
Ma una cosa, una sola, non è mai mutata: la presenza costante di una piccola catena dorata ben stretta al suo anulare sinistro.
 
La stessa che, adesso, non riesce più a scorgere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sherlock è a casa da una settimana, dopo un’estenuante scontro con la clinica per essere dimesso nonostante il parere contrario dei dottori.
La signora Hudson continua a portare the e biscotti, e Molly si presenta a intervalli regolari per ricevere da John tutti i parametri vitali del detective.
Il medico ha ancora la barba lunga, ma il viso è meno segnato. Ha spostato il proprio letto in un angolo della stanza del detective appena tornati, in modo da poterlo aiutare - in caso di necessità - anche la notte.
 
Sherlock si accorge il secondo giorno di non essere in grado di dormire fino a quando l’altro non scivola a sua volta sotto le coperte.
Solo allora, cullato dal suo respiro regolare, riesce a riposare.
 
 
 
Ci vogliono due mesi, prima che Sherlock riesca a muoversi di nuovo sulle proprie gambe, senza l’aiuto del deambulatore. John si è tagliato la barba e accorciato i capelli, ma trascorre ancora nel salotto di Baker Street la maggior parte della giornata, senza mai perdere di vista l’altro se non per qualche minuto. Il tempo di una doccia, o di controllare le mail che ancora riceve dalla clinica, nonostante abbia chiesto un’aspettativa fino a data da destinarsi.
Alle volte il detective lo trova con lo sguardo perso nel vuoto, un dolore sordo a indurirgli i lineamenti del viso.
Ha pensato a lungo a cosa possa attraversare la mente del medico in quei momenti, e si è convinto che sia il rimorso di aver dovuto uccidere, per proteggerlo, la donna che amava.
Ma non osa chiedere, mai, se le sue conclusioni siano esatte.
Quando accade si limita a distogliere lo sguardo, fingendo indifferenza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’ultima notte prima che John riporti il letto in camera sua, Sherlock lo sveglia appoggiando una mano, incerto, sulla sua spalla. Il medico – istintivamente - si solleva di scatto portandosi le braccia a protezione del viso. Nella penombra della stanza, il profilo caotico dei capelli dell’altro si staglia contro il quadrato fiocamente illuminato della porta.
«Mi dispiace che Mary sia morta» sussurra il detective, terrorizzato di essere ancora perso in un sonno indotto dove il medico lo odia per esserle sopravvissuto. «Mi dispiace non aver previsto che sarebbe stata lì.»
John sbatte le palpebre un paio di volte, confuso.
«Sherlock…» boccheggia, cercando di orientarsi correttamente nello spazio, in modo da capire dove finiscano le ombre e inizi il corpo dell’altro. Lentamente abbassa le braccia, allungando una mano fino a riuscire a sfiorare con un dito la gamba destra del detective.
«Ci sono momenti nei quali sembri profondamente infelice» continua lui, e sembra all'improvviso fragile. Sul punto di andare in pezzi.
«Da quando sei diventato un esperto di sentimenti umani?» chiede il medico, cercando di nascondere dietro ad un tono scherzoso il tremore che sente agitare la sua voce.
«Ho avuto molto tempo per allenarmi a comprendere i tuoi…» confessa Sherlock, in un sussurro. «Anni.»
«Durante il coma?»
Il detective annuisce, in silenzio.
«Beh, nella realtà non sei ancora particolarmente bravo» bisbiglia John, con un sorriso incerto.
«Non sei infelice?» lo interroga Sherlock, e gli sembra che qualcosa si sia appena sciolto all’altezza del petto. 
«No.» John scuote la testa. «No, non sono infelice. Sono… arrabbiato.»
«Mi dispiace…» ripete il detective, con voce bassa.
«Non hai nulla di cui dispiacerti. Sono arrabbiato con me. Non con te, o con quanto è successo.»
Sherlock aggrotta la fronte, e il medico più immaginare – nonostante il buio - la confusione farsi largo nei suoi lineamenti. Arriccia il naso, per aiutarsi a contenere la commozione che – improvvisamente - sente premere agli angoli degli occhi.
«Delle volte mi ricordo che stavo per perderti di nuovo, e la cosa mi fa infuriare» confessa, quasi vergognandosi. «Ogni tanto penso che dovrei dirtelo. Dirti tutto quello che provo, le mie riflessioni, per non correre di nuovo il rischio di…» si ferma e chiude gli occhi, inspirando profondamente. «Ma non trovo mai il coraggio, e questo mi fa arrabbiare ancora di più.»
Sherlock socchiude le labbra, sorpreso.
Restano in silenzio per qualche secondo, i respiri come unico contatto.
«Non ricordo molto di quel giorno, sai?» ride il medico, una risata stanca, vuota. «Ma Magnussen ha testimoniato che non una sola volta mi sono voltato per capire se Mary fosse viva.» Scuote la testa, incredulo. «Davvero un pessimo medico…»
«Non puoi fartene una colpa» cerca di rincuorarlo il detective, ma non è sicuro che sia il modo corretto. Ha ragione John: non è mai diventato un esperto, nel campo dei sentimenti. E non importa cosa abbia sognato di fare, o dire. Nella realtà, i segnali lo confondono ancora.
«Mi faccio una colpa di non aver capito prima…» riprende John. «Di non aver voluto capire quali fossero le priorità. Lo dicesti tu, a casa della Adler, ricordi? Il fuoco mette in mostra le priorità.» Si ferma, scuotendo la testa. «Quel giorno al Bart’s, per me, è stato un incendio. Mi ha strappato via tutto e…»
Il medico sente il respiro dell’altro farsi irregolare. Si interrompe, spaventato, cercando di alzarsi per poter raggiungere l’interruttore e controllare cosa stia succedendo. Sherlock lo frena a metà del movimento, bloccandogli un polso e facendolo ricadere sul materasso con un tonfo sordo.
«Cosa…» esala il medico, le parole strette in gola, arrestate dal premere disperato della testa del detective contro il proprio petto.
«Sherlock?» lo chiama, cercando di sollevargli il viso. «Va tutto bene?» insiste, preoccupato, riuscendo dopo un paio di tentativi a portare il volto dell’altro all’altezza del proprio. «Che succede…?»
Sherlock non risponde ma si lascia cadere in avanti, quel tanto da far sfiorare le loro labbra. Ha paura che l’altro si sposti. Che lo allontani, sconvolto. Di non aver capito nulla. Quindi resta ad una distanza che permetta a John, in caso, di sottrarsi a quel bacio.
Ci vuole qualche secondo prima che – nel medico - la sorpresa riesca a lasciare spazio all’emozione. Solo allora si sporge a sua volta, ricambiando il contatto.
«Cosa… cos’era, quello?» riesce a malapena a chiedere il medico, con voce tremante, quando – affannati, disorientati e sorpresi – si staccano.
«È quello che è» risponde Sherlock, tremante, l’eco di un abbraccio immaginato che si specchia in quello reale che adesso lo avvolge.
«È quello che è...» ripete John dopo qualche secondo, pensieroso.
 
«Mi sembra perfetto» decide alla fine, stringendo con più forza le braccia attorno al corpo dell’altro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“I sogni sono risposte a domande che non siamo ancora in grado di formulare.”
(Mulder - X-Files - 02x12)
 
 




Angolo dell’autrice:
 
confesso che l’ “EMP (Extended Mind Palace) Theory” - ovvero la teoria secondo la quale, a partire da un preciso punto della storia, tutto si sarebbe svolto nella mente di Sherlock (in una sorta di TAB dilatato oltre i confini di quel singolo episodio) - mi ha sempre affascinata.
 
Questa piccola OS racchiude praticamente ogni mia idea in merito e sono davvero felice di averla scritta, nonostante ultimamente abbia l’opprimente sensazione di non riuscire più a raccontare di loro come e quanto vorrei (aiutata per la discesa - come è abitudine dire nel mio “lessico familiare” - da un mal di testa feroce che non mi abbandona da giorni. ^_^’’).
 
Ad ogni modo grazie, come sempre e di cuore, a chiunque abbia letto fin qui.
 
A presto,
B.
 

P.S.: sì, quel "It is what it is" non mi è mai piaciuto molto. Adesso sono in pace anche con lui, finalmente. XD




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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