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Autore: Avareil    26/07/2017    3 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Una battaglia feroce.
Le urla profanavano l’etere azzurro mentre il fetore dell’odio riempiva le narici dei combattenti.
Due schieramenti, due fazioni popolavano il campo insanguinato: ai piedi dell’Olimpo stava Crono, signore di ogni cosa, dall’altra, invece, i sei figli, vomitati dopo che l’inganno della pietra aveva conservato in vita l’ultimo di loro, Zeus, scaltro fuggiasco in terra cretese.
Rea, consorte del terribile titano, osservava affranta lo scenario fatto di morte e distruzione, gemendo addolorata ogni qual volta un nuovo colpo martoriava, umiliava e distruggeva la povera prole.
Crono, feroce, non avrebbe permesso a alcuno, dio, titano, ciclope o mostro che fosse, di sottrargli il potere conquistato con l’astuzia e la forza, e quel tranello, subito per mano di Rea, amatissima e odiatissima moglie, lo rendeva ancor più crudele; infieriva con aspra goduria sui corpi dei figli, sfiniti e riversi al suolo.
Nessuna ribellione sarebbe stata pacificata dal sentimento genitoriale: la brama di dominio metteva a tacere ogni amore in quell’essere spietato.
Era, Demetra, Estia, Poseidone giacevano inermi, privi di sensi, mentre la vita immortale, contro ogni ragionevole logica, iniziava a fluire lentamente via dai loro corpi.
 
 
Solamente Zeus e Ade, il minore e il maggiore, tentavano una strenua resistenza.
Zeus, capello biondo e sguardo cristallino, si ergeva possente e sfinito dinnanzi al padre che, con fauci digrignate, attendeva i deboli attacchi, oramai guidati più dalla stanchezza che dalla ragione. E a nulla erano serviti i richiami di Ade, stratega lungimirante e abile nelle arti difensive, a nulla erano valsi i consigli, le urla, gli ordini: quel folle di Zeus, degno figlio di suo padre, accecato dalla rabbia, combatteva animato dalla furia, lasciando più volte il fianco esposto alla crudeltà paterna. Quella follia ferrigna, esacerbata dal pensiero di un’imminente e terribile sconfitta, colorava di rosso sangue la sclera oculare del minore rendendolo bestiale. La disperazione, da ultima, ne ostacolava i movimenti un tempo eleganti e feroci; in quell’accozzaglia scoordinata di passi sconclusionati Zeus mancava Crono che, invece, con lucidità studiata, rimaneva in attesa del momento adatto.  
Contaminato dalla tracotanza, caratteristica innata della sua indole spavalda, Zeus aveva scagliato con fare sragionato folgori elettriche e, quando il dolore del lancio mancato si era fatto insopportabile, tanto da costringerlo ad abbandonare le armi al suolo, Crono aveva colpito.
 
Una strategia letale e subdola, quella del titano, che trovava compimento in quel fianco scoperto.
 
La sola fortuna di Zeus era stata la completa dedizione del fratello: Ade, il maggiore di quella sfortunata banda di esseri divini e tormentati, non aveva atteso un istante e, compresa anzitempo la mossa del padre, in un unico movimento si era posto tra loro, rendendosi bersaglio per il colpo inumano.
 
Non perché le Moire avessero prospettato la vittoria a un'unica condizione, che fosse Zeus la cagione della distruzione di Crono, egli aveva offerto se stesso in sacrifico: Ade, lungi dalla premonizione oracolare recitata sulle ceneri dell’Olimpo dominato dal titano, immolava se stesso per amore. Lui, dio algido e silenzioso, sentiva il peso di quel legame fraterno gravare interamente sulle sue spalle. Già una volta aveva visto i consanguinei costretti in catene, sprofondati in un nuovo ventre buio e mai, mai avrebbe permesso che quel dolore venisse reiterato con ferocia; piuttosto la morte. Avrebbe accettato stoicamente qualsiasi male se questo avesse significato poter vedere nuovamente le splendide sorelle e i virili fratelli sorridere e ergersi vittoriosi sulle spoglie del nemico.  

“Ade, no!” Un urlo disumano, la mano protesa verso quello che ora gli offriva il petto come riparo.

“Taci, stolto”.
 
Il boato aveva ridotto al silenzio gli schieramenti mostruosi.

Gli occhi insanguinati e feroci del titano osservavano lo schianto di Ade al suolo, colpito in piena schiena, distrutto nella propria essenza.
L’impatto, di cui il dio – o quel che ne rimaneva – era vittima e strumento, era stato di una tale violenza da creare una fossa intorno al corpo consunto; nessuno aveva osato avvicinarsi, tutti erano terrorizzato dal pensiero di scorgere i resti sfregiati.
Ed era stato lì, in quel momento di profonda perdita, che Ade aveva ceduto ogni pretesa sulla propria felicità a quell’entità maligna e ambigua il cui nome rimbombava potente nelle orecchie insanguinate.

Stige.

Essenza fumosa incarnata nelle acque del fiume d’Averno, lo Stige aveva esatto la sua essenza in cambio di una nuova vita.
 
“L’occhio che scorgerà le vostre sembianze non sarà estraneo al terrore, mai".

Nel silenzio generale, lordato dalla risata spregevole del nemico, egli aveva ripreso conoscenza. Attimi sembrati epoche, immagini perse nel buio oltre le palpebre chiuse, il ricordo di quella promessa e il potere che da essa era scaturito: parole sacre impregnavano l’essere divino, ora desto e fuori dalla tomba che lo aveva accolto da morto.
Generato dal ventre materno, imprigionato in quello paterno, adesso Ade sorgeva vincolato all’Averno nero che, prima o poi, fatale, tutti accoglie.

 Si era mosso silenziosamente. Il passo leggero diretto dalla mente lucida, il braccio armato sorretto dalla forza del fato, il cuore imperturbabile alle brutture della spregevole battaglia: tutto in lui trovava compimento come in una feroce macchina da guerra.  Con studiata strategia si era posto alle spalle del padre che, troppo occupato nel sadico gioco di infierire su un Zeus più morto che vivo, non si era minimamente reso conto di quello che stava avvenendo dietro di lui.
Nessuno, dio o titano che fosse, avrebbe potuto mai scorgere l’essenza oscura, avvolta nel niente dell’oltre morte; i suoi passi non facevano più rumore, la sua figura non aveva più ombra, il suo respiro non emetteva più un suono.
L’aura nera che lo rivestiva come un mantello aderente, gli dava l’occasione di sorprendere il nemico alle spalle, unico modo possibile di frenarne la furia, per  poi offrirlo inerme al fratello delle folgori. Aveva agito così, mosso dalla rabbia apatica che sentiva ruggire dal fondo del suo essere.
 
Una voce silente aveva riempito la mente del minore come un pugno allo stomaco:

“Zeus! Colpiscilo!”.

E quello, mosso dalla disperazione, non aveva esitato un istante.
 
 
L’aria, sebbene intrisa degli umori della battaglia e del sangue, non avrebbe potuto avere gusto più fresco. Ade respirava lentamente cercando di ossigenare il cervello, riempire i polmoni, colmare il cuore di nuova speranza.
Nessuno, mai, avrebbe più potuto osare una simile violenza nei loro riguardi.

Il nemico era sconfitto, la famiglia riunita, il cosmo salvo.  

Il corpo del nemico giaceva esamine a pochi passi da lui mentre Zeus, abbandonate le armi, si era inginocchiato al suolo sconvolto; il sangue maledetto li macchiava entrambi sul viso, le mani, le vesti.
Un rapido sguardo oltre le spalle del minore aveva strappato Ade alla calma. Armi spezzate, armature logore, arti e sangue ricoprivano per intero il campo di battaglia; cadaveri ne riempivano ogni angolo. Al suolo giacevano alleati e nemici, indistintamente ridotti a massa informe di sostanze organiche.
Quello scenario truculento aveva tramutato la gioia sfinita della vittoria in angoscia, costringendo l’avernale a cercare i poveri fratelli: temeva che, distratto dalla lotta, quella miserevole sorte avesse toccato anche l’amata famiglia.  Immediatamente, dunque, ne aveva cercato i resti con lo sguardo e, solo quando ne aveva scorte le figure al suolo, feriti ma non distrutti, un immenso sorriso gli si era dipinto sul volto.

“Dissolvi la malia, portentoso dio, solleva l’elmo prodigioso e mostra le tue sembianze ai consanguinei.”

La voce, sibilante e sottile, aveva solleticato il cuore desideroso di ricongiungersi ai fratelli e, mosso da essa, aveva guidato le mani sul capo dove, effettivamente, si stagliava possente un elmo dall’immenso cimiero vermiglio.

Non aveva dovuto richiamare la loro attenzione.

Non c’era stato il bisogno di levare la voce serena: in un momento essi avevano percepito l’essenza pungente e mefistofelica e, rigidi, ne scrutavano adesso le sembianze straniere.

“Fratelli”. Benevolo, Ade, allargate le braccia stanche, li salutava con gioia.

Nessuno aveva ricambiato il sorriso sfinito.

“Chi siete, essenza ambigua?” Poseidone, mano insanguinata sul volto, tappava il naso, infastidito da quel pungente odore di morte e zolfo.

“Ade, sono Ade, vostro fratello”, il passo incredulo mosso verso di loro era stato accolto da un urlo disperato emesso dalla sorella Demetra. Ella lo fissava sconcertata, a stento trattenendo le lacrime.

“Mostrate il vostro vero volto, codardo!” Era, tremante e maestosa, affiancava la sorella disperata; solo Estia,
immobile, scrutava l’essere nero al loro cospetto.

Stranito, incapace di rispondere a quella frase che sapeva di minaccia e diffidenza, Ade li aveva osservati per qualche secondo cercando di mettere a fuoco la situazione e, sollevando le mani in segno di resa, aveva parlato, ancora una volta, con fare pacato e sereno.

“Poseidone, Demetra, Era, sono io, vostro fratello, Ade, colui che per primo fu ingerito nel ventre paterno”.

Aveva insistito ancora davanti al silenzio dei fratelli attoniti e quando, angosciato, li aveva pregati di aprire gli occhi ed osservarlo col calore familiare che solitamente li legava, aveva percepito un terribile dolore alla schiena. Puzza di bruciato e sangue annebbiava la sua consapevolezza.
Una folgore, una folgore di Zeus, suo fratello, lo aveva colpito a tradimento proprio lì, dove poco prima il padre aveva scagliato il fendente fatale.
Giaceva inginocchiato al suolo, il capo chino e l’ustione elettrica che gli squarciava la schiena in uno spettacolo spaventoso.
 Ma quel dolore fisico, sommato all’incapacità di trovare una motivazione per quel comportamento riservatogli con odio, sembrava quasi opaco a dispetto dello sgomento di chi per la prima volta si osserva, trovandosi irrimediabilmente cambiato.
Gli occhi stretti si erano soffermati sul colorito cadaverico delle mani sollevate impotenti, bianca, la pelle, come il marmo, si intravedevano vene nere, e i lunghi capelli, un tempo biondi come i raggi del sole, cadevano verso il suolo neri, neri come la pece, più scuri delle ali dei corvi. Una figura funerea che non riconosceva come se stesso e che pure sentiva appartenergli in ogni centimetro.

“L’occhio che scorgerà le vostre sembianze non sarà estraneo al terrore, mai.”

Si era voltato verso Zeus, ancora una volta pronto al perdono, sperando che fosse solo un malinteso, un disgraziato errore, ma questi, invece, avanzando lentamente fino a ritrovarsi con le ginocchia dinnanzi al suo volto, aveva impugnato una nuova folgore che ora brandiva minacciosamente.

Uno sguardo inquietante oscurava il volto stanco del minore.

Un altro boato, un altro urlo, altro sangue colava innocente dal petto di Ade, incredulo e incapace di movimento alcuno. La kunée, a pochi passi da lui, era stata calciata lontano per paura che la malia dell’invisibilità lo salvasse dalla punizione.

“Zeus, tu mi riconosci, lo leggo nell’occhio cristallino. Perché…perché mi fai questo?”

La frase, flebile sospiro tra i denti insanguinati, non toccava il cuore gelido del dio.
Degno figlio di quel titano di suo padre, aveva odorato la possibilità di grandezza e l’avrebbe ottenuta, a ogni costo.  Egli, senza Ade a riscattare il trono del cielo in qualità di maggiore, avrebbe avuto la gloria tutta per sé. Un ghigno feroce ora incurvava le labbra del minore.

“Siete dunque voi l’essenza codarda che, celata alla vista da una qualche losca malia, ha bloccato disonorevolmente il padre?”

Terribile Zeus, insinuava il falso.
E Ade aveva capito, aveva inteso fin troppo bene l’intenzione del fratello, sebbene una stilla di amore, ancora presente nel cuore, urlasse incredula la propria rabbia.

Lo sguardo vacuo rimaneva fisso sui fratelli, stretti in falange alle spalle del tuonante.

Non l’avrebbero mai accettato e così, compiuta la promessa, egli avrebbe vissuto in eterno nella solitudine dell’oltre morte.

"Non ti bastava un potere uguale al nostro, vero Ade? Miravi a una forza che ti rendesse invisibile, invincibile contro il padre e noi. Volevi il dominio del cielo, dio nero?”

Quelle parole, così estranee alla verità, colpivano l’avernale come uno schiaffo in pieno viso.

"Non è la verità fratelli, credetemi”.

Cercava nel loro sguardo un barlume di fiducia ma nessuno sembrava provarne. Solo a quel punto aveva urlato a gran voce:

"Estia! Tu che prima di altri affrontasti al mio fianco il terribile padre! Ti prego, ascoltami!” ma nemmeno quella supplica era servita a nulla, somma

Estia, ora al suo cospetto, lo osservava senza vederlo. 

 "Non vedo Ade, ma ne scorgo l’ombra. Non vi riconosco come fratello.”

Demetra, sempre in lacrime, aveva sputato ai suoi piedi, rifiutando il legame fraterno sobillata dalle parole di Zeus, suo diletto.

"Il tuo posto non è tra noi luminosi, oscuro essere ambiguo. Che i tuoi regni siano quelli dell’oltretomba ai quali hai sacrificato la vita in cambio di malie e stratagemmi funesti. Che tu possa vivere in solitudine come punizione. Che il buio e la morte siano i tuoi soli compagni: non sei più il benvenuto tra i vivi”.  

Lo avevano lasciato solo sul campo di battaglia, agonizzante e sanguinante.

L’ultimo ricordo della sua esistenza in superficie era stato lo sguardo di Estia lanciatogli fugacemente, all’ombra del resto del gruppo.

 Aveva mimato silenziosamente "mi dispiace"
ed era andata via con gli altri.







L'Angolo di Avareil
Procedo, lentamente, ma procedo. Ci vorrà del tempo per ultimare la revisione ma spero che ne valga la pena.
Nella speranza di poter leggere, prima o poi, i pensieri e le riflessioni di voi, anime silenti, vi rivolgo il mio più cordiale saluto, sempre felice di aver allietato qualche ora del vostro tempo.
Un  abbraccio affettuoso a tutti coloro che, già in occasione della prima pubblicazione, avevano manifestato il loro appoggio e la loro stima: vi ho nel cuore.
A presto.


 
  
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