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Autore: nikita82roma    09/08/2017    6 recensioni
Ispirata dalla storia di Unidui, una visione diversa del post 8x22
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Rick Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
- Questa storia fa parte della serie 'Partner in Crime. Partner in Life'
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Kate. Era la prima parola che aveva detto quando si era svegliato. Il suo pensiero fisso. L’unica cosa di cui gli importava.
Kate. Non c’era altro nei suoi ricordi confusi di lei che si avvicinava a lui e gli teneva la mano, della sua paura che lo immobilizzava più di quel proiettile, più del dolore.
Kate. Quel “sempre” sussurrato con un filo di voce, quella mano stretta che diventava sempre più debole, fino a quando non l’aveva lasciata del tutto e fu quello che lo fece reagire.
Kate. Lo aveva gridato con tutte le forze che aveva, che non sapeva dove aveva ritrovato nel momento esatto in cui si era accorto che lei non rispondeva più. Aveva preso il cellulare che teneva in tasca ed aveva fatto il primo numero che aveva trovato in rubrica. Alexis. Era riuscito con le ultime forze rimaste a dirle tutto o quasi poi non ricordava più nulla.

Si era risvegliato in ospedale ed aveva solo chiesto di lei, Kate. Non c’era altro di importante per lui. Nemmeno le parole del medico che gli spiegava come il proiettile non gli aveva lesionato nessun organo interno e si era fermato sul suo pettorale: lo avevano operato e ora era fuori pericolo, doveva solo rimanere  a riposo. Kate. Lo aveva ripetuto a quel dottore ogni volta che provava a parlare, nonostante la gola secca e irritata, lo diceva con tutta la voce che roca che aveva, fino a quando non ottenne una risposta. Stava lottando.

Stava lottando voleva dire che era viva.
Stava lottando voleva dire che non era fuori pericolo.
Stava lottando voleva dire che a lei era andata peggio di lui.

Ed anche lui cominciò a lottare. Contro il dolore, il suo fisico ed i medici. Perché voleva alzarsi andare via da lì, andare da lei, andare da Kate. Poi non ricordava come si era sentito debole, gli occhi pesanti, le voci più lontane e il medico che armeggiava con la sua flebo. Si addormentò.

Si era risvegliato con lo stesso pensiero fisso. Kate. Gli sembrava di stare meglio, provò ad alzarsi e lì capì che stare meglio era solo una sensazione figlia del riposo e degli antidolorifici. Kate, però, era l’unica cosa che aveva in mente, che lo stava spingendo ad alzarsi da lì.
- Signor Castle, ma cosa sta facendo deve stare a letto! - Gli disse una zelante infermiera che era appena entrata provando a rimetterlo giù.
- No! Kate. Devo stare con Kate. - La sua protesta era a metà tra una supplica ed un ringhio. Proprio in quel momento entrò il suo medico.
- Signor Castle non adesso! - Provò a farlo ragionare l’uomo.
- Sì. Ora. - Insistette lui. - O mi portate da lei, o firmo e mi dimetto.
I due uomini si guardarono ed il dottore capì in quel momento che non avrebbe mai potuto fargli cambiare idea. Acconsentì, a patto che si lasciasse portare con una sedia a rotelle e di rimanere pochi minuti. Accettò, già sapendo che non sarebbe stato così, che sarebbe riuscito a far diventare quei pochi minuti in un tempo ragionevolmente lungo, anche se non lo sarebbe mai stato quanto lui avrebbe voluto: sempre.

La stanza di Kate sembrava molto più piccola della sua o forse perché era veramente piena di macchinari di ogni tipo e gli sembrò di impazzire appena entrato per la luce fredda, per il bip bip continuo che gli entrava nel cervello e non se ne andava più. Chiuse gli occhi istintivamente ed l’infermiera gli chiese se volesse tornare in camere sua. Illusa. Ancora non aveva nemmeno visto Kate. Si rifiutava di farlo, perché quel momento doveva essere solo loro, senza nessuna infermiera impicciona in mezzo. Mantenne lo sguardo basso e si fece lasciare vicino al suo letto. Più vicino di quanto lei lo aveva lasciato inizialmente, si era fatto spostare e fatto accostare la sedia a rotelle al letto.
Le toccò la mano e poi alzò lo sguardo su di lei, deglutendo a fatica. Stava lottando. Capiva cosa voleva dire ed era peggio di quanto si fosse immaginato. Dormiva. Quante notti aveva passato a guardarla dormire, aspettando il suo risveglio. Non era diverso, si voleva convincere, doveva solo rimanere lì, aspettando che si risvegliasse, ci avrebbe messo di più, ma sarebbe stato uguale. Lui avrebbe solo dovuto fare quello che faceva sempre, guardarla e immaginare il loro futuro. Non poteva finire così, non potevano aver vinto loro, non potevano portargliela via, non lo avrebbe permesso, mai, avrebbe combattuto insieme a lei, con lei, se avesse potuto si sarebbe preso lui quelle altre due pallottole.
- Kate… sono io… Ti amo Kate… Ti amo… - Le disse accarezzandole la fronte. Si era illuso che le sue parole potessero risvegliarla invece nulla. Nessun effetto.
- Dai Beckett, apri gli occhi. Tu detesti quando ti guardo mentre dormi, non costringermi a farlo per chissà quanto…
Rimase poi in silenzio, accarezzando il dorso della sua mano un tempo che per lui fu troppo breve quando l’infermiera entrò di nuovo per portarlo via e protestò, ma non riuscì a convincerla. Provò ad alzarsi ma era troppo debole e ricadde seduto, sfogandosi con un pugno sui braccioli per la frustrazione, mentre la donna lo guardava severo.
Erano appena usciti dalla stanza quando vide una luce accendersi sopra la porta e un suono intermittente.
- Che succede? - Chiese allarmato e la sua infermiera, insieme ad altre tre si precipitò dentro la stanza di Kate e subito dopo vide arrivare anche due medici. Guardava il via vai senza riuscire a capire nulla, ancora quella paura paralizzante e tutto girava introno a lui, ma si alzò e andò verso la porta con quelle energie che ancora una volta non sapeva dove aveva trovato.
- Chi è lei? Cosa vuole? Se ne vada! - Gli urlò un giovane ragazzo che stava facendo non sapeva cosa sul corpo di Kate.
- Sono suo marito! È mia moglie! - Disse con tutto il fiato e la disperazione che aveva.
L’altro medico gli andò incontro mentre lui si reggeva allo stipite della porta.
- È il marito di Katherine Beckett? - Gli chiese stupito mettendogli una mano sulla spalla.
- Sì, sono Richard Castle.
- Signor Castle, io devo chiederlo a lei, perché qualsiasi decisione spetta a lei. Dobbiamo operare di nuovo sua moglie ed io ho bisogno, adesso, di sapere cosa devo fare: sua moglie o il bambino?
Rick lo guardò e gli mancò il respiro ed anche le parole. Stava quasi ansimando e il medico lo accompagnò di nuovo in corridoio facendolo sedere sulla carrozzina.
- Signor Castle, non possiamo perdere tempo. Ho bisogno di sapere quello che dovevo fare, mi capisce? - Gli chiese guardandolo negli occhi.
- Kate… io… - sospirò prendendosi il viso tra le mani e facendo un respiro profondo che gli fece sentire il dolore di tutte le sue parole - salvi mia moglie, la prego. Salvi mia moglie.
Il medico annuì e in quel momento uscirono dalla stanza con il letto di Kate, trasportando velocemente in direzione opposta rispetto a lui. Era tornata anche la sua infermiera e mentre lui continuava a guardare la fine del corridoio dietro il quale Beckett era già scomparsa.
- Sua moglie è forte, vedrà ce la farà. - Gli disse portandolo di nuovo verso la sua stanza, convinto che non si era mai sentito così male. Annuì abbassando la testa, osservando le linee del pavimento che scomparivano sotto di lui.
Si alzò meccanicamente, senza voler alcun aiuto e si rimise a letto. La donna gli collegò di nuovo la flebo e anche se non voleva, aumentò il dosaggio dei calmanti, non doveva dimenticarsi nemmeno lui che era appena stato operato, Rick le chiese di non dargli alcun sonnifero. Voleva essere sveglio, voleva sapere subito quando l’operazione era finita che Kate stava bene, perché non c’era nessun altra alternativa possibile, per lui.
- Non lo sapeva? - Gli chiese lasciando intendere il soggetto della domanda. Scosse la testa come risposta e chiuse gli occhi. - Gli altri della sua famiglia pensavano di sì.
Annuì e girò la testa verso il muro. Doveva capire quello che era appena successo, quello che aveva appena fatto. Doveva scegliere, aveva scelto. Non aveva nemmeno avuto tempo di capire, di realizzare. Kate aspettava un bambino, il loro bambino. Kate era incinta e lui non ne sapeva nulla. Ma lui aveva appena scelto. Aveva scelto lei, senza pensarci.
Quello che doveva essere il momento più bello della sua vita, quello che aveva sognato così tante volte, quello che aveva sperato segretamente senza mai esporsi troppo, perché pensava che quando sarebbe stato il momento giusto lo avrebbe deciso Kate, senza pressioni, era improvvisamente diventato un incubo dal quale voleva svegliarsi. Aveva scelto lui, per tutti loro. In quel momento la sua mente si riempì di mille domande ed una su tutte: Kate sapeva? E se sapeva perché non gli aveva detto nulla, perché tenerlo all’oscuro di qualcosa del genere? Ma soprattutto, se sapeva, perché accettare di mettersi in quella situazione?
No, non poteva sapere. Si voleva convincere di questo, perché era la risposta più facile da darsi, quella con la quale poteva vivere meglio. Lei non sapeva, per questo non sapeva nulla nemmeno lui, per questo erano lì in quell’ospedale e non a casa a fare progetti per il futuro, lasciando perdere LokSat e tutto il resto che non avrebbe avuto più nessuna importanza davanti a questo. Si lasciò per un attimo sopraffare dall’immagine di Kate con il loro bambino: quante volte nella sua mente l’aveva immaginata così? Non doveva farlo. Quell’idea era durata solo un attimo, perché lui aveva scelto diversamente. Aveva scelto Kate.
Si chiese come avrebbe mai potuto dirle la verità. Quello che era stato, quello che aveva dovuto fare. Non lo avrebbe mai capito, non lo avrebbe mai perdonato. La conosceva troppo bene, sapeva che lei avrebbe sempre fatto l’altra scelta, ne era certo, che non avrebbe mai dato più importanza alla sua vita ed era certa che avrebbe preteso che lui facesse lo stesso, ma lui non poteva farlo. Lui aveva scelto Kate, d’istinto, come se fosse l’unica scelta possibile, di fatto non aveva nemmeno pensato al resto, non il quel momento, non aveva visto altre possibilità. Non aveva pensato alle conseguenze, lui voleva solo la sua Kate. Avrebbe provato a farglielo capire in ogni modo, con tutte le sue forze, inventando parole e concetti che non esistevano perché lo capisse: aveva paura di dirglielo ma in quel momento voleva solo quello, voleva solo prendersi anche tutta la sua rabbia, avrebbe accettato qualsiasi cosa, perché se potevano discutere voleva dire che lei stava bene ed era l’unica cosa che gli importava, perché lui un mondo senza Kate Beckett, non lo contemplava, per questo aveva scelto Kate.
Aveva rifiutato di vedere sua madre e sua figlia, loro avevano certamente saputo e si sentiva un mostro e non voleva che nessuno gli chiedesse nulla o lo giudicasse. Nessuno poteva capire, nessuno avrebbe capito e lui non aveva voglia di spiegare a nessuno. Dopo non sapeva quanto tempo, in cui non aveva fatto altro che ripetersi domande su domande, sentì la porta aprirsi piano ed una figura entrare a passo lento ma sicuro. Lo riconobbe quasi subito, quando fu abbastanza vicino e i suoi occhi si spostarono dalla porta aperta che lasciava entrare la luce troppo forte del corridoio.
- Richard, è andato tutto bene. Katie è fuori pericolo.
- Jim, tu sai… sai perché…
- Non dire niente adesso Richard. Pensa a riposarti anche tu, ne hai bisogno.
- La voglio vedere! - Protestò.
- Domani. Dormirà per un bel po’ e dovresti farlo anche tu.
Era entrata anche l’infermiera, non era la stessa di prima, annuì alle parole di Jim Beckett e andò a modificare la flebo di Castle, lasciando che qualche goccia di sonnifero si mescolasse con il resto dei liquidi. Jim la ringraziò con fare paterno e rimase ancora qualche istante con Castle che non riusciva nemmeno a guardare negli occhi l’uomo.
- Ci sarà tempo per parlare di tutto, ma sappi solo che ogni padre vorrebbe per sua figlia un uomo che la ama come tu ami Katie.
Rick fece cenno di sì con la testa, ma non disse niente e Jim non si aspettava una risposta. Uscì dalla stanza lasciandolo ai suoi pensieri nella speranza che qualunque cosa gli avessero dato, facesse effetto velocemente.

 

 

La camera di Kate era sempre così luminosa, nonostante quella giornata fosse decisamente nuvolosa. Sarebbe venuto a piovere da lì a poco, pensò osservando fuori dalla finestra. Una giornata perfetta per quei suoi pensieri che lo tormentavano da tempo, che non c’era nulla che riuscisse a fargli superare quel senso di biasimo verso se stesso, per quella scelta che aveva fatto, non per il cosa, ma per il modo, senza pensarci, senza nemmeno avere dei dubbi. Si era interrogato tante volte su che uomo fosse uno che decideva così, facilmente della vita di quello che sarebbe stato suo figlio e la risposta che si era dato non riusciva a convincerlo: dirsi che innamorato e disperato era forse solo una giustificazione? Non lo sapeva, ma sapeva che quello che gli aveva detto sua madre non era vero, non lo aveva fatto in quel modo perché era in un momento di confusione, perché in cuor suo sapeva di essere assolutamente lucido in quella scelta, era la cosa più razionale che avesse fatto negli ultimi tempi.
- Castle, si può sapere a cosa stai pensando? - La voce affaticata e dolce di Kate lo riportò al presente. Si voltò a guardarla in quel letto bianco, troppo bianco, come lo era anche lei. Le si avvicinò e si chinò a darle un bacio sulla fronte.
- A quanto ti amo. - Le disse serio e le lo guardò sorridendogli.
- Sì? Oggi me lo hai già detto almeno un migliaio di volte, anche più degli altri giorni. Ma a me non puoi mentire, lo sia anche tu. Allora? Cosa c’è?
- Non credo di meritarmi tutto questo. - Disse abbassando lo sguardo verso quella perfetta creatura che stava tranquilla tra le braccia di Kate.

 

Erano passati poco meno di otto mesi dal giorno che aveva dovuto fare quella scelta che poi si era rivelata inutile, e Lily, la loro splendida bambina, era venuta al mondo da poche ore con qualche giorno d’anticipo sulla data prevista ma quella bambina era stata così fin dall’inizio, testarda e capace di rivoltare ogni previsione e lo aveva fatto anche quel giorno, prendendoli in contropiede nel bel mezzo della notte dopo essere andati a dormire del tutto sereni e tranquilli. Invece lei aveva deciso che sarebbe nata quel giorno e la corsa in ospedale era stata immediata e lei era nata serenamente poche ore dopo, per la gioia di tutti loro, soprattutto di Kate che aveva il terrore di quel momento. Castle la prendeva spesso in giro, ricordandole tutto quello che di peggio aveva sopportato, ma lei non ci stava e gli rispondeva sempre che lui non aveva mai partorito quindi non poteva fare paragoni.
Quando aveva visto Kate dopo la sua operazione gli avevano detto che il bambino, miracolosamente, aveva resistito a tutto quello. Kate era fuori pericolo ma lui no. Non sapeva se sentirsi sollevato o no mentre guardava uno dei monitor vicino al letto di Kate che ora sapeva cosa era, quello che controllava le funzioni vitali di suo figlio. Fu invaso da una sensazione di disagio ed inadeguatezza che non era più riuscito a scrollarsi via, nemmeno nei mesi successivi.
Avrebbe potuto non dire nulla a Kate e invece decise di dirle tutto. Beckett aveva saputo di essere incinta in modo brutale, da un medico appena risvegliata in uno dei rari momenti in cui Castle non c’era. Non le avevano detto molto, solo che aspettava un bambino ma non sapevano quanto avrebbe resistito. Abbastanza, però, per farla essere piena di gioia e disperazione e per farla essere certa di quello che voleva: fate di tutto per lui. Glielo chiesero due volte, non sicuri che fosse abbastanza lucida, che avesse realmente capito, ma tutta la sua determinazione venne fuori nel ribadirlo ancora.
Si preoccupò quando vide arrivare Rick spingendosi con la sedia a rotelle. Le avevano detto che stava bene. Non rientrava nella sua idea di stare bene quello.
- Dicono che sono troppo debole ancora per camminare. - Le disse Castle spezzando quel silenzio tra loro, portandosi proprio vicino a lei, vedendo il suo viso distendersi in qualcosa che sembrava un sorriso. Kate cercò la sua mano e Rick si allungò per fargliela prendere. Lasciò che lei la muovesse fino a portarla sul suo ventre e non ebbe il coraggio di guardarla.
- Lo sai? - Chiese con un filo di voce e lui mosse annuì vigorosamente.
- Sei felice? - Gli domandò ancora Kate ricevendo per risposta solo un grosso sospiro, prima di un “sì” appena sussurrato.
- Ce la farà. - Gli disse lei stringendo la sua mano.
- Ho scelto te. - La guardò con gli occhi pieni di lacrime di gioia, di paura, di amore e Kate non capì subito le sue parole. - Io… mi hanno detto di scegliere ed ho scelto te.
Fu Kate ora ad abbassare lo sguardo, ma allo stesso tempo intrecciò le loro dita, accarezzando la sua mano con il pollice.
- Lo so.
- Lo sai? - Le chiese stupito.
- Sì. Me lo hanno detto. Non dovrai più scegliere nulla adesso Rick. Ho dato disposizioni io su quello che dovranno fare in caso di necessità.
Quelle parole avrebbero dovuto rassicurarlo, sollevarlo ed invece servirono solo ad impaurirlo. Non si era arrabbiata come aveva pensato, era lucida, forse più di lui, e lui sapeva benissimo cosa volevano dire le sue parole.
- Ti amo. - Le disse come se fosse una giustificazione alle sue scelte e a tutto.
- Ti amo anche io. - Sembrò che lo volesse rassicurare mentre faticavano a guardarsi, perché avevano paura di farsi leggere dentro uno dall’altro ed erano ancora troppo fragili per farlo mentre i bip bip dei monitor accompagnava i loro silenzi.



Rick accarezzò la mano di sua figlia appoggiata vicino la spalla di Kate. Più la guardava e più poteva pensare solo una cosa: era perfetta, così uguale a sua madre, o almeno a lui pareva di rivedere lei in tutto: il colore dei capelli, la bocca, gli occhi, la forma del viso. Se le figlie dicevano che dovevano essere la copia dei padri, beh, lui era decisamente l’eccezione che confermava la regola con le sue figlie.
Non riusciva a guardarla senza evitare di sentirsi colpevole, inadeguato e non meritevole di lei. Non era stato facile per lui parlarne in quei mesi, nemmeno con Kate, il peso di quella scelta che poi si era rivelata inutile, non lo lasciava mai. Non quando gli dissero che era fuori pericolo, non quando Kate potè tornare a casa, non ogni volta che Kate prendeva le sue mani e se le portava sul ventre che settimana dopo settimana cresceva. Non erano servite le parole di sua moglie ad alleviare il suo tormento, né la felicità di vedere le prime ecografie né sentire i suoi primi movimenti. “Sono fortunata perché io non potrò mai essere nei tuoi panni, costretta a fare una scelta del genere”, gli aveva detto in una delle tante volte che ne avevano parlato e mentre glielo diceva con una mano accarezzava lui e con l’altra il suo ventre, immaginando solo che lacerazione si potesse provare a dover scegliere tra quale parte del tuo cuore dover privilegiare: lei non se sarebbe stata capace, non ne avrebbe mai avuto la forza, per questo non riusciva a colpevolizzare Castle di nulla: cosa avrebbe dovuto rimproverargli, di amarla? Di amarla troppo? C’era forse una misura all’amore per stabilire quando fosse eccessivo? Si poteva dare un limite? No, non si poteva.
Castle era felice, era molto felice, soprattutto nel vedere quanto lo era Kate, ma non bastava, perché lui sentiva di non meritarsi quella felicità ed anche in quel momento mentre la guardava totalmente innamorato di lei che sonnecchiava tra le braccia di sua madre, pensava che non avrebbe mai fatto abbastanza per lei.
- Castle, vuoi per favore smetterla di torturarti e prendere in braccio tua figlia?
Ubbidì, perché in quei mesi aveva capito una cosa: Kate Beckett incinta era decisamente più pericolosa che con una pistola in mano, ed ora che tecnicamente non lo era più, temeva che Kate Beckett mamma lo fosse ancora di più. Prese Lily e la appoggiò al suo petto: profumava di neonato e di Kate, un profumo così inebriante che per un po’ lo calmò, godendosi solo il calore della sua piccola e lo sguardo di sua moglie che li osservava pensando che insieme erano la cosa più bella che avesse mai visto. Aveva lottato per tutto quello, per avere quella famiglia e quella normalità che le sembrava impossibile da raggiungere. Non era stato solo lui a convivere con i sensi di colpa, lo aveva fatto anche lei, chiedendosi come aveva fatto a non rendersene conto, a non capirlo, a non sentirlo, ad averla messa così in pericolo a causa le sue scelte. Capiva in quel momento quanto aveva messo in gioco in quella lotta a testa bassa contro qualcosa che era stato tanto più grande di lei, dal quale si era salvata per pura fortuna. Aveva rischiato di perdere tutto: la sua vita, Castle, il loro futuro e la loro famiglia, quella che aveva sempre voluto e che era già dentro di lei senza saperlo.
- Mi stupisco che tua madre ed Alexis non siano già qui. - Gli disse Kate mentre lui cullava dolcemente Lily.
- Le ho chiamate ed ho detto loro che eri stanca e di venire più tardi. - Si giustificò
- Mi usi biecamente Castle? - Gli sorrise.
- Volevo stare solo con voi per un po'. Ti dispiace? - chiese preoccupato.
- Hai fatto benissimo. Ti direi di dire a tutti di venire domani, ma non voglio essere troppo egoista.
- Dovresti esserlo, ne hai tutti i diritti. - le sorrise più rilassato mettendole di nuovo Lily tra le braccia. - È bellissima Kate, proprio come te.
- Non montarti la testa scrittore, ma se è bellissima, qualche merito è anche tuo.
Si sorrisero e Rick baciò dolcemente sua moglie, interrotto poi dal bussare alla porta della sua stanza. Entrò un infermiera che disse loro che doveva prendere la bambina per farle dei controlli. Kate se ne separò a malincuore, dandole un bacio prima che la donna la prendesse e lo stesso fece anche Rick quando era già tra le braccia dell’infermiera, sistemandole la manica della tutina, in un gesto di estrema premura verso la sua bimba che rubò un sorriso anche alla donna avvezza a vederne tanti di neo genitori.
Rimasti soli Kate fece spazio sul letto, lasciandone abbastanza perché Rick si sedesse vicino a lei. Le accarezzò il viso e lei fermò la sua mano proprio lì, chiudendo gli occhi abbandonando alle carezze del marito per qualche istante.
- Sei ancora più bella oggi. - Le disse senza toglierle gli occhi di dosso.
- Puoi smettere di adularmi, Castle. - Rispose sorridendo.
- Dico solo la verità.
- Sei felice? - Glielo chiese ancora, come il giorno che aveva scoperto di essere incinta in quel modo così brutale, quando tutto era sospeso.
- Lo sono. Infinitamente. - Glielo disse senza il minimo dubbio.
- Anche io. E sai qual è una delle cose che mi rende più felice? Sapere che nostra figlia avrà il miglior padre che potrei desiderare per lei, l’unico che potrei volere.
- Kate…
- Zitto Castle. Non intendo discutere ancora su questo né sentire ancora i tuoi stupidi discorsi. Basta con i sensi di colpa per cose assurde, non continuare a torturarti così. Siamo qui, siamo tutti insieme. Ti amo, Castle ed ora vuoi fare una cosa per me?
- Tutto quello che vuoi.
- Baciami. - Gli chiese sorridendo e Rick non se lo fece ripetere due volte. La baciò con tutto l’amore che aveva per lei, quel giorno ancora di più degli altri. La baciò con la certezza che se tornasse indietro, lui nonostante tutto, rifarebbe sempre la stessa scelta, sceglierebbe sempre lei e per questo non riusciva ad essere sereno. Non glielo disse quel giorno, forse non glielo avrebbe detto mai, ma credeva che in fondo lei lo sapesse e che lo amasse nonostante quello.

   
 
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