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Autore: StormButterfly    01/09/2017    0 recensioni
L’amore può infrangere ogni regola con la forza di un uragano.
Quando Rain Donovan scappa di casa non sa dove andare, né a chi chiedere aiuto. L’unica cosa che
desidera è lasciarsi alle spalle quel vuoto che la sta soffocando da quando, un anno prima, ha
perso il padre e una parte dei propri ricordi in un incidente.
Da allora ha trovato un solo modo per sopravvivere ai maltrattamenti subiti in silenzio tra le mura
di casa: seguire le regole che si è imposta rinunciando a tutto, anche al fratellastro Duncan di cui è
segretamente innamorata.
Quello che ancora non sa è che quella notte l’incontro con un misterioso ragazzo e il ritorno di
Duncan nella sua vita sconvolgeranno ogni regola, costringendola a fare la scelta più importante di
tutte. Continuare a scappare o lasciare che l’amore la investa come un uragano, restituendole quei
ricordi che potrebbero lasciarla spezzata?
Quando il cuore batte sino a togliere il respiro, c’è una sola regola: non innamorarsi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Percorriamo il tragitto sino a casa di Duncan in un silenzio che pesa come un macigno.

Quando scendiamo dalla moto, lo seguo tenendomi a distanza sino a un appartamento al piano interrato di una palazzina. Scendiamo le scale che dal marciapiede conducono alla porta, e non appena Duncan la apre un Golden Retriever dal pelo castano gli si lancia addosso per fargli le feste. Lui gli fa una carezza energica sulla testa mentre quello ricambia scodinzolando e passandogli il muso sui jeans scoloriti, poi si sposta permettendoci di entrare.

Quando gli passo vicino, l’animale mi guarda con i grandi occhi color cioccolato, in attesa di una carezza, ma sono talmente sopraffatta dalle emozioni da non riuscire a muovere un muscolo. L’ultima volta che l’ho visto era ancora un cucciolo, ed è stato prima che Duncan andasse via da casa dei nostri genitori, la stessa da cui oggi sto fuggendo io.

L’appartamento è un ex scantinato piuttosto piccolo e buio ma pulito e confortevole. Non ero mai stata qui prima e improvvisamente mi sento un’intrusa che sta violando il piccolo mondo privato di Duncan, ma non posso fare a meno di guardarmi attorno, ferma sulla soglia, mentre lui si toglie la giacca e la lancia su un divano a due posti che sta di fronte alla tv, sul lato destro dell’ingresso che è anche soggiorno e camera da letto. Incastrato tra il muro e un piccolo armadio c’è un letto a una piazza e mezzo, con un comodino a dividerli. Di fronte a me c’è una porta che presumo sia quella del bagno. La luce gialla della lampada a muro illumina l’ambiente silenzioso, in cui risuona solo il ticchettio di un orologio da parete.

«Puoi farti una doccia se vuoi, ti presterò dei vestiti asciutti» mi urla dalla cucina. «La porta è quella di fianco al letto. Ci sono degli asciugamani puliti nel mobile sotto il lavandino.»

Capisco che l’offerta è anche un modo per non avermi tra i piedi per qualche minuto, e una doccia è decisamente ciò che mi serve ora, quindi accetto senza pensarci troppo e mi dirigo verso il bagno.

Passo vicino a un cavalletto coperto da un telo, sistemato al centro del salotto. L’odore della pittura è ancora forte e ne deduco che deve aver dipinto sino al momento in cui è passato a prendermi. Sono tentata di sollevare il telo e dare una sbirciatina alla nuova opera di Duncan, ma mi sento abbastanza a disagio e non mi sembra il caso di farmi beccare mentre ficco il naso nella sua vita. Conosco Duncan e so quanto della sua interiorità metta nei suoi dipinti, quindi mi tengo la curiosità e decido di andare dritta in bagno, ma prima che io possa avvicinarmi alla porta questa si apre e vedo uscire una ragazza.

Quando mi vede, si blocca e sgrana gli occhi, poi mi squadra e storce il naso alla vista delle mie scarpe sporche. Non posso darle torto, devo essere un pessimo spettacolo, mentre lei è impeccabile, con gli stivali al ginocchio dal tacco vertiginoso, la mini di pelle nera e una maglia monospalla dello stesso colore. È truccata in modo che l’eyeliner le metta in risalto gli occhi da gatta di un azzurro quasi trasparente, e ha lunghi capelli perfettamente lisci, di un rosso che ricorda molto il colore dei miei, almeno prima che li tingessi.

«Che ci fai ancora qui?»

La voce di Duncan alle mie spalle mi distoglie dalla valutazione di questa specie di modella che ho davanti, e mi toglie dall’imbarazzo di sentirmi sotto esame, un esame che sicuramente non ho passato a pieni voti.

«Che ci fa...» la vedo alzare un sopracciglio perfetto in cerca di un epiteto, probabilmente valutando se lasciarsi andare a una definizione non proprio gentile «…questa ragazza, qui a quest’ora?»

Alla fine ha scelto la strada più sicura, forse pensando che Duncan non avrebbe gradito un’offesa rivolta a una sua ospite, per quanto io abbia tutto l’aspetto di un’accattona.

«È mia sorella, e mi pareva di averti detto di tornare a casa, se non ricordo male.» Il suo tono è gelido. Sembra non esserci più traccia del ragazzo gentile a cui ho dovuto dire addio cinque mesi fa.

Si dirige verso l’armadio dal quale toglie fuori un cappotto e lo porge alla ragazza che lo fissa incredula.

«Che c’è?» le domanda brusco.

«Come sarebbe a dire che c’è? Ti sembra il modo di trattarmi? Mi molli qui mentre sono ancora mezza nuda e poi torni con un’altra ragazza come se niente fosse e mi dici che non mi vuoi tra i piedi. E poi come ci torno a casa secondo te?»

Cerco di non dare peso al fatto che abbia appena detto di essere stata lasciata qui mezza nuda da Duncan, sia perché non voglio immaginarla a letto con lui, sia perché non mi va di pensare che forse parte del malumore del mio fratellastro è dovuta al fatto che ho interrotto qualcosa.

«Non so come altro spiegartelo, Kayla. È mia sorella.» Fa un sospiro stanco, come se pronunciare quella parola lo sfiancasse. «E se non vuoi rientrare a piedi, posso chiamarti un taxi. Ora, per favore, prendi questo dannato cappotto, sono piuttosto stanco.»

«Me ne frego se sei stanco, Donovan! Avevi detto che mi avresti riaccompagnata a casa, e ora mi lasci rientrare da sola?» Alza la voce, rivelando un forte accento del nord che prima riusciva a nascondere.

«Non posso certo lasciare lei qui da sola. Combinerebbe qualche guaio, imbranata com’è.» Lui non si scompone, mantenendo una calma che fa andare la stangona su tutte le furie. Qualcosa mi dice che, oltre a essere una scusa bella e buona, era una frecciatina neanche tanto velata nei miei confronti, giusto per infastidirmi. Forse ho davvero interrotto qualcosa e ora vuole farmela pagare.

«E tu speri che io ci creda? Mi hai presa per una stupida? Sarà anche sporca e sciatta, ma mi sembra più che in grado di badare a se stessa!»

«Ehi!» esclamo irritata. Vorrei vedere miss perfezione dopo essere scappata di casa.

«Come definiresti una che esce in piena notte senza curarsi di prendere nemmeno un cellulare per chiamare aiuto? Credimi, rischierei di trovare il cane morto al mio rientro, o l’appartamento in fiamme.»

La ragazza capisce l’antifona e gli strappa il cappotto di mano, poi se lo infila con rabbia, ma prima di andarsene gli lancia un’occhiata di fuoco.

«Passa una buona notte con questa stracciona, brutto stronzo, e cercati un’altra modella per il tuo stupido quadro!»
Poi si rivolge a me, fulminandomi con gli occhi gelidi.

«Devi essere proprio messa male se sei arrivata al punto di affidarti a questo bastardo. Mi fai pena.»

Ci supera sbattendo i tacchi sul parquet, ma prima di poter aprire la porta viene bloccata dal cane che le ringhia contro sbarrandole la strada.

«Brown!» lo chiamo, ma non si muove e per un attimo spero che le azzanni una gamba.

«Doge, vieni qui!» lo richiama Duncan, e quello gli obbedisce permettendo all’arpia di uscire sbattendo la porta.

«Doge?» domando girandomi verso Duncan. «Non lo avevamo chiamato Brown?»

«Quello era il nome che avevo scelto insieme a te, quando credevo che sarebbe stato il nostro cane. Ora si chiama Doge.» Si abbassa per grattarlo sotto il muso e l’animale abbaia felice in risposta.

«Mi dispiace di averti incasinato la serata, Dun, e se posso fare qualcosa per aiutarti a finire il quadro...»

«Perché sei andata via di casa?» mi interrompe sollevando lo sguardo dal cane e cercando i miei occhi. Non posso rispondere a una domanda del genere perdendomi nel verde dei suoi, quindi fisso il piercing che ha sul sopracciglio destro.

«Le torte di tua madre non sono più buone come una volta» rispondo con un sorrisetto ironico, ma lui non coglie la provocazione e insiste.

«Non fare finta di non avere capito, Rain, lo sai che è una cosa che mi manda in bestia.»

Certo che lo so, lo faccio apposta per vendicarmi delle frecciatine infantili di poco fa.

«Intendo dire... perché non sei venuta via con me, cinque mesi fa? Cosa ti ha costretta a fuggire, stanotte?»

Sapevo che la conversazione ci avrebbe portati su questo punto, ma non posso rispondergli, quindi opto per una mezza verità.

«Cinque mesi fa la situazione era diversa, Dun. E io ero...»

«Stupida e ostinata.»

Fingo di non aver sentito e proseguo. «Ero impegnata con lo studio, e trasferirmi avrebbe incasinato tutto. Ora sono più libera e...»

«Altrettanto stupida e ostinata» conclude lui per me.

 Lo guardo negli occhi con l’espressione più dura di cui sono capace. «Stavo per dire che non sarò costretta a passare le mie giornate insieme a te.»

Lui si alza e mi si avvicina, sovrastandomi con la sua altezza.

«Eppure sei qui con me, ora» sussurra continuando a guardarmi.

Distolgo lo sguardo fissando un punto impreciso nella stanza. È troppo vicino e il suo odore così familiare.

«Allora devo essere proprio messa male come ha detto la tua ragazza.»

«Kayla non è la mia ragazza, è... Qualunque cosa sia, ormai è andata.»

«Cosa hai fatto ai capelli?» domanda, prendendo una mia ciocca. Torno a guardarlo, ha un’espressione malinconica mentre osserva la ciocca nera e se la rigira tra le dita.

«Li ho tinti» rispondo laconica.

Lui punta i suoi occhi nei miei. «Lo vedo. Intendevo... Cristo, Rain, prima ci bastava uno sguardo per capirci. Che cosa ci è successo?»

«Sai benissimo cosa ci è successo. Io ti ho detto che non mi importava nulla di te né del tuo stupido cane e che sarei stata più felice se mio padre non avesse mai sposato tua madre, perché non ti avrei mai conosciuto.»

«Non ho mai creduto a una sola delle stronzate che mi hai propinato quella sera, sei una pessima bugiarda.»

Nei suoi occhi leggo una tristezza che mi spezza il cuore. «Però te ne sei andato lo stesso» sussurro abbassando lo sguardo.

«L’ho fatto perché ho capito che era quello che volevi, e io rispetto le tue scelte, anche quando non le condivido.»

«Beh, qualche volta dovresti rispettarmi un po’ meno.»

Lascia andare la mia ciocca e si allontana. «Mi dispiace Rain, ma questa è l’unica cosa in cui non ti accontenterò mai.»

Lo squillo del suo cellulare ci distrae dalla lotta silenziosa che intercorre tra i nostri sguardi.

Prende il telefono dalla tasca e osserva lo schermo in silenzio, poi inizia a digitare qualcosa.

«Mia madre.»

Ho un sussulto. Non voglio che Riona venga a riprendermi, la sola idea mi fa venire la nausea.

«Le sto scrivendo che resterai da me e che domani passeremo a prendere la tua roba» prosegue, continuando a muovere veloce le dita sullo schermo.

«E se io non fossi d’accordo?»

Lui solleva la testa dal cellulare e mi trafigge con i suoi occhi color quadrifoglio.

«Non hai detto che devo iniziare a fregarmene delle tue scelte?» sorride in un modo odioso che mi ricorda il ragazzo della fermata.

«Sì ma non intendevo... oh, al diavolo!» sbotto, stanca di dover ribattere a ogni cosa, non ho fatto altro per tutta la sera e ora sono davvero sfinita. «Vado a farmi questa maledetta doccia, sempre se non sei contrario anche a questa mia decisione!»

Si sposta e mi indica la strada con un gesto teatrale della mano.

«Prego, sua irascibilità, si accomodi nel mio umile bagno.» Lo guardo per qualche secondo, poi scoppio a ridere, seguita a ruota da lui che sorride sia con la bocca che con gli occhi. Non sono mai riuscita a restare arrabbiata con Duncan troppo a lungo.

«Cretino» bisbiglio, mentre gli passo accanto diretta verso la tanto desiderata doccia. «E comunque domani ci andrò da sola a prendermi la roba, chiaro?»

Mi chiudo la porta alle spalle e mi ci appoggio lasciando andare il fiato.

Questa convivenza sarà tutt’altro che facile. Siamo cresciuti insieme, ma ci sono delle cose che ho dovuto tenergli nascoste e non voglio che le scopra proprio adesso.

Duncan ha sempre messo me prima di tutto, per questo ho dovuto mentirgli su quello che succedeva a casa nostra quando non era presente, ed è lo stesso motivo per cui non posso rivelargli la ragione della mia fuga.

Dovrò stare attenta a non infrangere la regola più importante, e ricordarmi che avere qualcuno a cui si tiene equivale ad avere qualcuno da perdere e per cui soffrire.

Con un sospiro stanco, decido che è arrivato il momento di buttarmi sotto il getto dell’acqua calda e comincio a svestirmi. Sfilando la felpa, ripenso per un attimo allo strano incontro di questa notte. Se quel ragazzo non fosse intervenuto, non so cosa avrei fatto. Non so nemmeno se sarei ancora viva.

Tolgo le scarpe e le calze e le spingo rabbiosamente in un angolo con il piede, vicino al termosifone, nella speranza che asciughino entro domani, poi tolgo il vestito e, quando porto le mani al collo per slacciare la catenina, mi accorgo con sgomento che non c’è più. Non capisco come sia potuto succedere, ricordo di averla avuta a contatto con la pelle per tutto il tempo.

Immediatamente, comincio a frugare tra gli indumenti che ho tolto, controllandoli freneticamente mentre il panico comincia ad assalirmi. Quando ho finito di ispezionare anche l’ultimo centimetro della felpa, mi accascio contro il muro freddo, sconfitta. Non c’è. Potrebbe essersi sganciata mentre ero in moto, ma spero che non sia così perché significherebbe che è andata persa per sempre. Oppure...

Tiro indietro i capelli con una mano, mentre realizzo di essere stata una stupida. Una stupida che ha infranto quasi tutte le regole fidandosi di uno sconosciuto. Forse Sherlock non è dotato solo di una mente brillante e contorta, ma anche di una mano leggera e piuttosto lesta. Sfioro il punto in cui mi ha accarezzata mentre ballavamo, e mi domando se in quel momento sia riuscito a portarmi via il gioiello, che per me ha soprattutto un valore affettivo.

Respiro a fondo per calmarmi. Farmi prendere dall’agitazione e dallo sconforto non servirà a nulla, senza contare che non ho le mie medicine con me, e dubito che Duncan abbia degli ansiolitici in casa. Non può nemmeno immaginare che ho ricominciato a prenderli.

Ammucchio i miei indumenti a terra, a eccezione della biancheria che dovrò indossare di nuovo, e mi infilo sotto la doccia. Sfrego bene la pelle per togliere il fango e la sensazione delle mani che stanotte si sono serrate sul mio polso, costringendomi contro il muro. Il dolore si diffonde lungo il braccio e i graffi che ho sulle gambe e vicino al gomito destro bruciano sotto l’acqua calda. Lavo i capelli energicamente per cancellare ogni traccia di questa serata, ma mentre tengo gli occhi chiusi per risciacquare lo shampoo, la rivivo in continuazione nella mia testa, ogni volta con un finale diverso.

Quando finisco, mi avvolgo in un asciugamano e prendo il fon per asciugarmi i capelli. Sullo specchio appannato dal vapore della doccia traccio due linee verticali e un arco. Osservo la faccia stilizzata svanire lentamente, e quando passo la mano per togliere la condensa mi ritrovo davanti un’altra faccia, più reale e triste della precedente. I miei occhi sono arrossati, le labbra si sono spaccate per il freddo e le lentiggini che mi puntellano il viso sembrano essersi nascoste sotto la pelle.

Dopo aver asciugato svogliatamente i capelli , li lego in una treccia come faccio sempre prima di andare a letto. Almeno questo, stanotte, non cambierà.

Uscendo dal bagno trovo una maglietta e un pantalone della tuta adagiati sul letto, ma non vedo Duncan da nessuna parte. Sento dei rumori provenire dalle scale che conducono al piano rialzato e lo vedo rientrare in casa con una cesta vuota.

«Ho messo la tua roba a lavare mentre eri sotto la doccia e ora è nell’asciugatrice, così domani dovrebbe essere a posto.»

Deve essere entrato in bagno mentre mi lavavo per raccogliere i miei vestiti, ero talmente presa dai miei pensieri da non essermi accorta di nulla. Mi volto per raccogliere gli indumenti puliti dal letto e sgattaiolare di nuovo in bagno.

«Grazie» gli dico velocemente prima di richiudere la porta.

Mi rendo conto che dovrò indossare dei vestiti di Duncan senza avere nulla sotto e l’idea mi fa sentire terribilmente a disagio, mentre realizzo un’altra cosa: questo appartamento ha un solo letto e il divano è troppo piccolo per dormirci. Quasi quasi chiamo Riona per farmi riportare a casa.

Dopo essermi vestita, prendo un bel respiro e torno in camera. Di nuovo, Duncan sembra essersi volatilizzato.

«Dun?» lo chiamo, e sento un mugolio assonnato provenire in risposta dal divano. «Non starai dormendo lì?» chiedo incredula.

Vedo la sua testa bionda emergere dalla spalliera.

«Secondo te?»

Apro la bocca per ribattere ma lui mi blocca. «Non se ne parla, tu dormirai sul letto e io su questo divano.»

A quanto pare abbiamo ricominciato a capirci con uno sguardo.

Obbedisco e mi butto sul letto sfinita.

«Dun?»

«Mh?»

«Spegni la luce.»

Lo sento grugnire, probabilmente trattenendo un’imprecazione.

Una volta calata l’oscurità, mi abbandono alla stanchezza, ma sono ancora talmente scossa che non riesco a prendere sonno. Mi giro nel letto senza trovare riposo, e vorrei chiedere a Duncan di venirmi vicino come faceva quando eravamo piccoli, a tenermi compagnia finché non mi addormento, ma so che non posso permettermi di cedere.

Sento un movimento nella stanza e il materasso alla mia destra affondare. Riconosco immediatamente l’odore di sapone e colori a olio, l’odore dell’unico posto in cui mi sono sempre sentita veramente a casa e che da troppo tempo appartiene solo ai miei ricordi. Duncan mi abbraccia e io mi lascio andare a un pianto silenzioso, mentre con un dito lui asciuga le lacrime che mi bagnano le guance.

A quanto pare riusciamo ancora a capirci senza bisogno di parole.

   
 
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