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Autore: Larrystattoos    04/09/2017    2 recensioni
Sherlock, John e lo Specchio delle Emarb.
Teenlock, Johnlock.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Fanfiction scritta su prompt di Chappy Efp in occasione della Summer Challenge organizzata dal gruppo "Aspettando Sherlock 5 - SPOILERS!" ​https://www.facebook.com/groups/366635016782488/?hc_location=ufi

La prima volta che Sherlock si imbatté nello Specchio delle Emarb aveva undici anni e aveva iniziato Hogwarts da poco più di due lunghi, solitari mesi. Per la sua età, era un bambino molto intelligente e curioso e questo lo aveva portato spesso ad esplorare il castello. Il suo momento preferito per farlo era di notte, quando non c’era nessuno nei corridoi e poteva vagare indisturbato, fatta eccezione per le ronde dei professori e dei fantasmi, che nel giro di una settimana aveva imparato ad evitare. Per questo credeva di conoscere il castello molto meglio della maggior parte dei ragazzi presenti nella scuola ed era in grado di trovare i posti migliori per restare da solo o per sfuggire ad un pestaggio a causa di una sua deduzione scomoda, come era capitato quel giorno. Sherlock correva velocemente lungo il settimo piano cercando di nascondersi da Anderson, del quinto anno, dopo avergli fatto notare davanti a mezza scuola i tradimenti della sua storica fidanzata Sally. Passando davanti l’arazzo di Barnaba il Babbeo, Sherlock ricordò improvvisamente una conversazione tra suo fratello Mycroft e sua madre, in cui parlavano di quella avevano chiamato stanza delle necessità. Aveva capito subito come funzionava, naturalmente, ed aveva sempre voluto vederla ma non ne aveva avuto la possibilità fino a quel giorno. Sperando che Anderson fosse ancora lontano, passò velocemente davanti all’arazzo per tre volte. Ho bisogno di un posto in cui nascondermi. Un posto tranquillo in cui nessuno mi possa disturbare. Nel vedere la porta appena apparsa, Sherlock sorrise e si fiondò dentro. Era una stanza piccola ma accogliente: davanti a sé vi era un caminetto con un bel fuoco acceso e una poltrona, da un lato una piccola scrivania e dall’altro uno specchio dall’aria antica ed un’effige illeggibile sul bordo. Come attratto da esso, si avvicinò lentamente fino a trovarvisi davanti. Non appena i suoi occhi si posarono sullo specchio, però, cacciò un urlo di sorpresa e si girò di scatto. Riflesse affianco a lui c’erano due persone, un ragazzo ed una ragazza, ma di cui non vi era traccia nella stanza. Curioso, si avvicinò ancora di più. Era sicuro di conoscere quelle persone, o perlomeno di averle viste in giro. Il maschio era chiaramente un Grifondoro: portava la cravatta rossa e oro leggermente allentata, aveva i capelli ramati e uno sguardo allegro; mentre la ragazza era minuta, dall’espressione chiusa, e, secondo la divisa, una Tassorosso. Ad un tratto esse abbracciarono l’immagine di Sherlock e lui ebbe un sussulto, sorridendo lievemente a quella visione. Per la prima volta nella sua vita, ammise di avere bisogno di un amico e desiderò con tutto se stesso di poter essere, solo per un po’, normale. Voleva sapere come ci si sentisse ad avere degli amici, delle relazioni, o perlomeno qualcuno che lo capisse, qualcuno che non fosse suo fratello.
 
La prima volta che John scoprì lo Specchio delle Emarb aveva quattordici anni ed era in cerca di un posto in cui studiare tranquillamente. Conosceva la stanza delle necessità, ovviamente, ma non gli era mai venuto in mente di usarla per quel motivo finché un giorno, stanco del solito trambusto nella Sala Comune di Grifondoro, in cui ogni persona che lo vedeva non faceva altro che chiedergli del Quidditch o quale ragazza si sarebbe portato a letto quella settimana. Era stanco di essere continuamente John Tre Continenti Watson, Capitano della squadra di Quidditch di Grifondoro e nient’altro. Voleva soltanto essere John, voleva non avere tutta quella pressione addosso, voleva poter vivere la sua vita senza nessuno che lo giudicasse. Per fortuna, con lui c’era Victor. Lui capiva, molto più di quanto desse a vedere anche a John stesso. Fu per quello, forse, che quel giorno Victor gli svelò che quel suo nuovo amico, il genio di Corvonero del primo anno, utilizzava quella stanza quando aveva bisogno di stare da solo.
Entrando nella stanza, lo Specchio fu la prima cosa che notò. Avvicinandosi, notò che il suo riflesso aveva qualcosa di, in un certo senso, sbagliato. Ed infatti, una volta di fronte ad esso, il suo riflesso era affiancato da un’esile figura di un ragazzo, il cui volto, però, era impossibile da distinguere. Preso a cercare di capire chi fosse quella persona, non si accorse subito che le due immagini si tenevano per mano e che il suo “alter ego” sorrideva spensierato come non gli capitava da tempo. A quel punto si sforzò di distogliere lo sguardo dalle due figure in primo piano per portarlo sullo sfondo: la sua famiglia e la sua squadra gli sorridevano fieri e incuranti del fatto che quello con cui stava uscendo, chiaramente, era un ragazzo.
Sospirò, sedendosi davanti lo specchio. Sapeva che una cosa del genere non sarebbe mai successa: per quanto fossero più avanti su molte cose, l’omofobia era un problema anche nel mondo magico. A lui piacevano le ragazze, non lo negava, ma preferiva senza alcun dubbio la compagnia maschile e, purtroppo per lui, tutti avevano delle aspettative così alte nei suoi confronti che non poteva semplicemente fregarsene come avrebbe voluto. Inoltre, non aveva nessuno per cui valesse la pena rischiare tutto, quindi era bloccato in quella situazione di stallo, nella speranza che le cose sarebbero migliorate, prima o poi.
Non poteva sapere che la sua vita sarebbe cambiata nel giro di poche settimane.
 
Sherlock e John si conobbero a metà Dicembre, quando Victor Trevor, cugino di John del primo anno e Grifondoro anche lui, li presentò. Sherlock, inizialmente, non voleva farsi convincere: aveva visto John volare diverse volte alle partite e, dopo la prima volta in cui era restato ad ammirarlo a bocca aperta, aveva preso ad andare con Victor agli allenamenti. Aveva subito dedotto che John fosse una persona essenzialmente buona e senza dubbio piena di talento, e perciò era sicuro che non avrebbe voluto avere nulla a che fare con un mocciosetto di undici anni che non aveva niente di speciale, ma Victor aveva insistito così tanto (“Hai bisogno di amici, Sherlock. E lui ti adorerà, fidati di me”) che si era convinto.
Nel momento in cui il Grifondoro gli sorrise, il cuore di Sherlock perse un battito. Capì immediatamente che quel ragazzo, nel bene o nel male, avrebbe sconvolto la sua vita. D’altro canto John rimase piacevolmente colpito quando il minore iniziò a dedurre piccole cose di sé senza che lui avesse aperto bocca. Aveva capito che era imbarazzato e fece di tutto per metterlo a suo agio, chiedendogli come facesse a scoprire tutte quelle cose soltanto guardando e se gli venisse naturale o avesse imparato da qualche parte. Nel giro di pochi minuti, si ritrovarono presi l’uno dall’altro. Dopo un’ora, Victor si allontanò sorridendo. Nessuno dei due se ne accorse.
 
La prima volta che Sherlock e John si trovarono insieme nella stanza delle necessità fu circa sei mesi dopo essersi conosciuti. La scuola stava per finire e sapevano che difficilmente si sarebbero visti durante le vacanze. Entrambi non ne erano felici, anche se fecero finta di niente. QQQuel giorno John vide Sherlock che, a malincuore, faceva sparire i suoi esperimenti, di cui non aveva mai osato chiedere dove trovasse tutte quelle pozioni strane e potenzialmente pericolose che si divertiva nel miscelare, migliorare e Dio solo sa cosa. Da quanto un ragazzino del primo anno è in grado di produrre un Incantesimo Evanescente senza problemi?  Si chiese John sbalordito, prima di rispondersi da solo. È Sherlock.
Furtivamente, mentre aspettava che Sherlock finisse il suo lavoro, si avvicinò allo Specchio. Non ne aveva mai fatto parola con il Corvonero e aveva l’impressione che non lo avrebbe mai fatto, almeno non finché l’immagine nello Specchio non fosse cambiata. Dopo aver conosciuto il moro, infatti, l’immagine riflessa era diventata nitida e, al suo fianco, con la sua espressione fiera e lievemente altezzosa, spiccava Sherlock. Non era stupido, sapeva di essere sul punto di innamorarsi di lui, ma non voleva perderlo e rischiare di non parlargli mai più. Era del tutto ignaro che, come lui, Sherlock vedeva riflessi loro due insieme.
 
Il lato negativo dell’essere amico di John Watson e allo stesso tempo uno sfigato era che, spesso e volentieri, John non poteva passare molto tempo con Sherlock. Oltre agli allenamenti di Quidditch e alle partite, spesso che il Grifondoro si ritrovava a dover scegliere tra lui e il suo gruppo di amici e, alcune volte, delle ragazze. Sherlock l’aveva imparato a proprie spese insieme con il fatto che non sempre la risposta era scontata. Pur capendo razionalmente le sue motivazioni, capitava non di rado che restasse incazzato con John per giornate intere, restando in compagnia di Victor e Molly ma pensando sempre al biondino, che magari in quel momento si trovava con una ragazza con cui sarebbe finita nel giro di due settimane. Dopo due anni insieme, John ormai aveva compreso cosa si celava dietro il malumore di Sherlock nei giorni successivi e non poteva fare a meno di sorriderne intenerito. La possessività di Sherlock nei suoi confronti lo lusingava non poco, anche perché episodi del genere non avvenivano né per Victor né per Molly. A volte, John si illudeva che questo suo comportamento potesse significare che aveva qualche speranza e, in quei casi, prendeva seriamente in considerazione l’idea di dirgli che sì, era innamorato di lui, probabilmente dal momento in cui lo aveva conosciuto, prima di tornare con i piedi per terra. È Sherlock. Non potrebbe mai ricambiare. Nonostante quello, con il passare del tempo gli appuntamenti si erano ridotti fino a scomparire. Non era il tipo di ragazzo che prendeva in giro le persone, e sapere che non avrebbe potuto iniziare una storia seria con nessuno, non finché quello che provava per il suo migliore amico fosse restato invariato, lo aveva convinto a desistere. Non aveva notato che, una volta capito cosa stesse succedendo, Sherlock lo aveva guardato con gratitudine.
Ciò che più di tutto faceva stare male John, però, era che nessun altro a parte lui sapeva. Come avrebbe potuto dirlo a qualcuno quando era stato già abbastanza difficile ammetterlo con se stesso? Era stato più volte sul punto di confidarsi con Victor ma, prima di farlo, il coraggio era venuto a mancare. Così si ritrovava a tenersi tutto dentro, sperando di non scoppiare. In quei giorni, visitava lo Specchio delle Emarb non appena possibile, per avere almeno l’idea di come potrebbe essere se lui fosse più coraggioso (ed era un fottuto Grifondoro, non avrebbe dovuto esitare nemmeno un secondo!) e Sherlock meno restio ai sentimenti.
 
Se qualcuno avesse chiesto a Sherlock cosa lo portasse a disprezzare i sentimenti già ad undici anni, si sarebbe sentito rispondere: “Perché sono stupidi”. Ripetendo la domanda a quattordici anni, la risposta sarebbe stata la stessa e nessuno avrebbe dubitato della sua veridicità. Nessuno, tranne Molly. Lei lo aveva capito in un modo in cui nessuno, nemmeno John, aveva mai fatto. Quel pomeriggio di fine giugno, gli si era piazzata davanti e gli aveva detto: -Perché non glielo dici ora? Non vi vedrete per un bel po’, è stupido tenerselo per sé.-
Sherlock, impegnato a tagliuzzare gli ingredienti per una qualche pozione-esperimento, si bloccò per un istante. –Molly, capire la gente non è proprio il tuo campo. Lascia stare.-
La ragazza lo ignorò, affiancandolo. -Ho visto come lo guardi, sai? Come se non esistesse niente di più bello nell’universo.-
Sherlock, con gli occhi ancora puntati sulla pelle di Girilacco, sospirò e posò la bacchetta. –Una debolezza a cui non riesco a rimediare.-
-Amare qualcuno non è una debolezza, Sherlock. Nemmeno se quel qualcuno è un uomo.- Molly sorrise nel vedere l’esitazione dell’amico e gli lasciò un bacio su una guancia, prima di uscire. –Pensaci.-
 
Due giorni dopo, i quattro amici si ritrovarono a King’s Cross, John per l’ultima volta da studente. Victor e Molly furono i primi ad attraversare la barriera del binario  9 e ¾ e John stava per seguirli quando Sherlock lo prese per un braccio, facendolo voltare.
-John, c’è una cosa che vorrei dirti..- cominciò Sherlock, sentendo già il suo cuore accelerare i battiti. John lo guardò con aspettativa ed una punta di, cosa? Paura, speranza? La mente di Sherlock non riusciva a dedurlo in quel momento. Prese un grosso respiro ed aprì la bocca. –Mi.. Mi mancherai- disse alla fine, tornando a guardare John negli occhi. Per un momento, gli sembrò di vedere la delusione sul suo viso, ma quando gli sorrise, attirandolo a sé, fu quasi certo di essersi sbagliato.
-Mi mancherai anche tu, Sherlock. Non sai quanto.- gli mormorò sul collo, cercando di contenere l’emozione e di non pensare a quello che, appena poche ore prima, aveva visto nello Specchio: lui e Sherlock che si baciavano proprio lì, davanti l’Espresso per Hogwarts. Sherlock si staccò lentamente, quasi non volesse farlo, e, senza guardarlo negli occhi, gli fece cenno di andare. Entrambi a disagio, passarono la barriera senza dirsi altro.
 
Sherlock sapeva che abbandonare la scuola a pochi mesi dai suoi M.A.G.O. era da incoscienti, eppure aveva preso quella decisione consapevolmente e non se ne pentiva. Appena sua madre lo aveva saputo, aveva dato di matto come non mai, ma lui si era limitato ad ignorarla chiudendosi nella sua stanza. Aveva già ben chiare le sue idee riguardo al futuro, e non gli serviva concludere la scuola e dare degli esami che erano soltanto la formalità per iniziare a darsi da fare, quindi tanto meglio cominciare subito. John non lo sapeva ancora, preso com’era dallo studiare per l’esame finale da Auror. John… credeva che quasi tre anni in cui si erano sentiti poco e visti ancora meno avrebbe aiutato a fargli passare quello che sentiva per lui, ed invece provava esattamente le stesse sensazioni soltanto al pensiero di lui. Molly e Victor avevano fatto di tutto per non fargli sentire la sua assenza, ma non era servito e l’avevano capito molto presto. Prevedibilmente, anche Victor aveva ben presto intuito cosa provava Sherlock per John ed aveva cercato di convincerlo a farsi avanti, senza successo. Preferiva i gufi e quei pochi incontri l’anno rispetto al silenzio.
 
Che ci fosse qualcosa di diverso nel suo amico, John lo aveva capito da diversi mesi. Eppure mai avrebbe pensato che Sherlock non terminasse gli studi e lasciasse la scuola nel giugno del suo settimo anno.
-Perché, Sherlock? Mancava un mese, solo un mese ed avresti avuto i tuoi M.A.G.O., qual è il motivo per cui te ne sei andato prima?- gli chiese quel giorno, il primo in cui si vedevano da Natale. Si era aspettato un incontro molto diverso, anche se sapeva che con Sherlock non poteva mai avere la certezza su nulla.
-Gli esami sono un sistema incompleto e poco affidabile per verificare le capacità di uno studente. Io so di saper fare quello che mi serve e non ho bisogno che nessuno me lo dica. Il mio lavoro non prevede titoli di studio dato che l’ho inventato io.-
-Sì, ma…- John tentò di trovare una risposta sensata, invano. –Va bene, ci rinuncio. Se ne sei convinto tu…-
-Certo che ne sono convinto. Mi conosci, non farei mai nulla di irragionevole senza…-
-Okay, okay, ho capito!- lo interruppe John prima che iniziasse un altro dei suoi monologhi. –Quindi hai intenzione di darti da fare fin da subito?-
Sherlock lo guardò ghignando. –Ho già trovato il mio primo caso. Sto andando proprio ora.-
 -Perfetto.- John prese la giacca e gli si affiancò. –Vengo con te.-
Il moro lo guardò per la prima volta senza sapere cosa gli passasse per la testa. –Perché mai…?-
John gli sorrise. -È il tuo primo caso, giusto? Voglio essere lì quando lo risolverai.-
Sentendo di non riuscire a parlare a causa del groppo in gola e del calore che sentiva nel petto, Sherlock si limitò a sorridere e ad incamminarsi verso la meta, leggermente più sicuro di sé sapendo John al suo fianco.
 
-È stata la cosa più assurda e fantastica che abbia mai visto, davvero!- John gli sorrise, ancora col fiatone. –Sei nato per queste cose e si vede.-
Sherlock rise, a metà tra il sollevato ed il divertito. Il suo primo caso era stato un successo e l’aveva risolto in poco meno di ventiquattr’ore, grazie anche al suo amico che, come al solito, l’aveva aiutato a pensare lucidamente e gli aveva fatto trovare la pista giusta molto più velocemente di quanto avrebbe fatto da solo.
Guardò John negli occhi mentre la sua risata si spegneva. Per la prima volta, sembrò rendersi conto del bellissimo colore di quelle iridi: blu scuro, con qualche pagliuzza più chiara al centro e il contorno netto. Li conosceva bene, quegli occhi: aveva passato i precedenti sette anni a guardarli, a cercare di capirli senza mai riuscirci del tutto. Eppure quel giorno, senza sapere il vero motivo, Sherlock ne fu colpito. Con la mente che sembrava annebbiata, bloccata nella contemplazione degli occhi di John, aprì la bocca; per dire cosa non lo sapeva nemmeno lui: magari quel ti amo incastrato nella sua gola da quella che sembrava una vita (e, in un certo senso, lo era) o semplicemente assentire. Invece, sorprese anche se stesso quando, sempre guardandolo negli occhi, gli disse: -Vieni a vivere con me.-
L’espressione di John mutò in un secondo. Lo scrutò sorpreso, con la bocca leggermente aperta, per secondi lunghissimi.
Rosso di vergogna e cercando di rimediare, Sherlock iniziò a spiegarsi. –Ecco, ora che hai finito l’Accademia hai bisogno di un posto dove stare, e io ho questa camera in più e siamo al centro di Londra… Poi potresti aiutarmi nei casi ogni tanto, quando non sei impegnato ovviamente…-
-Sì.-
-…visto che sembri divertirti e credo… Aspetta, come?-
John ridacchiò. –Ho detto sì. Va bene. È un’ottima idea, non so perché non ci ho pensato io.-
-Perché tu sei un idiota.- Sherlock sorrise, rilassandosi di nuovo. Aveva paura che quegli anni di lontananza e tutto quello che era successo nel frattempo li avessero allontanati, invece poteva tirare un sospiro di sollievo. Erano sempre loro, e non avrebbe permesso a niente e nessuno di allontanarli.
 
Con il passare del tempo, la fama di Sherlock come consulente investigativo cresceva e, con essa, il numero dei clienti che si presentavano speranzosi alla sua porta: maghi, Babbani, una volta persino un fantasma. John, lavorando al Ministero come Auror, non era in grado di seguire Sherlock ogni volta, ma i casi che risolvevano insieme finivano puntualmente sulla Gazzetta del Profeta. Un anno e mezzo dopo l’inizio della loro convivenza, sembrava tutto andare per il meglio, nonostante alcuni intoppi  che riguardavano la presenza di Mandragore, veleni o oggetti potenzialmente mortali in cucina o, soprattutto, il fatto che erano ancora in una posizione di stallo riguardo i loro sentimenti. John sentiva di stare per scoppiare tanta era la frustrazione accumulata nel corso degli anni. Non riusciva a capire perché non fosse in grado di dire quelle due piccolissime parole nonostante fosse certo della loro veridicità e le occasioni non fossero mancate. Soltanto un mese prima, qualcosa era successo durante un caso particolarmente difficile che riguardava un poltergeist a Baskerville. John si era ritrovato a sussurrare terrorizzato tramite il telefono a Sherlock, il quale, una volta trovato, lo aveva prima stretto forte mentre John gli diceva, interrompendosi spesso, cosa avesse visto e sentito dal suo nascondiglio.
-John, ehi.- aveva mormorato Sherlock prendendogli il viso tra le mani, spingendolo a guardarlo negli occhi. –Va tutto bene, ora. Sono qui.-
Il tono rassicurante e lo sguardo intenso con cui lo aveva detto avevano quasi fatto capitolare John. Senza pensare, si era avvicinato con il viso a quello dell’altro fino a far sfiorare i loro nasi, portando le sue braccia a cingere la vita di Sherlock. Soltanto quando Sherlock aveva sgranato gli occhi e lasciato scivolare le mani via dal suo volto si era bloccato, realizzando che sì, stava per baciare Sherlock Holmes in un momento in cui non riusciva a pensare lucidamente. Si era allontanato di scatto ed era praticamente corso via. Per un attimo, gli sembrò di aver visto Sherlock adombrarsi ma, quando rivolse nuovamente lo sguardo furtivo al ragazzo, gli sembrò normale. Per una volta, gli sarebbe piaciuto saper padroneggiare la Legilimanzia per capire cosa si celasse nella geniale mente di Sherlock Holmes.
A Baker Street, una volta risolto il caso, nessuno dei due aveva accennato a quello che era quasi successo a Baskerville e, con il passare del tempo, John sentiva sempre di più il peso delle cose non dette che si portava dietro. Sapeva, però, che non era il momento di parlarne perché Sherlock aveva tra le mani quello che era il caso più difficile su cui avesse mai lavorato. Uno degli esponenti più illustri della comunità magica mondiale, James Moriarty, stava minando alla credibilità di Sherlock in ogni modo possibile. Era partito con un paio di Imperius sui giornalisti più importanti che avevano iniziato a smentire alcuni casi, poi aveva creato false prove per dimostrare che stesse utilizzando incantesimi e metodi illegali per risolvere delle situazioni preparate a tavolino. John faceva quel che poteva per aiutarlo ma quella volta Sherlock lo aveva costretto a restarne fuori, dicendo che era una cosa tra lui e Moriarty. Sospirò, marciando avanti ed indietro nel piccolo soggiorno del 221B, cercando di trovare un modo per intervenire indirettamente, senza giungere ad una conclusione.
 
Sherlock camminava velocemente per i corridoi di Hogwarts, dritto verso la sua meta. L’ufficio del più giovane professore di Aritmanzia che Hogwarts avesse mai avuto si materializzò davanti ai suoi occhi. Bussò velocemente, e, al sentire l’invito dell’altro ad entrare, aprì la porta.
Victor Trevor lo fissava da dietro la scrivania, l’espressione preoccupata evidente sul suo viso. -Non che non mi faccia piacere vederti, Sherlock, ma alla luce di ciò che si legge sulla Gazzetta del Profeta e dal tono del tuo gufo, deve esserci un motivo piuttosto importante se ti presenti qui, vero?-
Nonostante la tensione, Sherlock sorrise. Quello era il motivo per cui teneva a Victor: era sempre diretto e abbastanza intelligente da capire tutto. –Hai ragione- iniziò, sedendosi di fronte all’amico. –Ho bisogno che tu faccia una cosa per me.-
Victor annuì, incitandolo a continuare.
–Sentirai delle cose, tra qualche giorno. Non posso dirti di cosa si tratta, ma non sarà bello. Devi promettermi che starai accanto a John, che ti prenderai cura di lui quando io… non potrò farlo.- L’ultima frase fu poco più che un sussurro e, nel dirla, Sherlock abbassò il capo.
Il silenzio che seguì fu pesante. Sherlock poteva quasi sentire il cervello di Victor elaborare quell’informazione e capirne i sottintesi.
-Sherlock, cos’è questa storia?- chiese piano l’insegnante.
-Hai sentito quello che sta succedendo. Io… devo risolvere questa cosa e non sono sicuro di uscirne vivo. Quindi, per favore, promettimi che non lascerai che John si prenda delle colpe che non ha.-
Victor sospirò. –Sai che lo farò, Sherlock. Però tu giurami che farai di tutto affinché non sia necessario.-
Con il cuore soltanto un po’ più leggero, Sherlock si alzò. –Sei un buon amico, Vic.- disse, prima di lasciare quello studio.
Victor rimase a fissarlo mentre si allontanava, con le lacrime agli occhi. Il suo amico sapeva benissimo che non c’era bisogno che gli dicesse di stare accanto a John, perché conoscendo i sentimenti di entrambi era consapevole che John ne sarebbe uscito distrutto e Sherlock non lo avrebbe mai perdonato se lo avesse lasciato a piangerlo. Aveva capito che, a modo suo, Sherlock era venuto a dirgli addio.
 
Appena uscito dall’ufficio di Victor, quasi senza che se ne accorgesse, le gambe di Sherlock lo avevano condotto al settimo piano. Erano due anni che non entrava nella stanza delle necessità e, quel giorno più di tutti, sentiva il bisogno di avere John vicino a sé il più possibile per avere il coraggio di fare ciò che era giusto.
Credeva di trovare la stessa immagine di sempre, invece lo Specchio gli mostrò se stesso e John seduti sul divano di Baker Street, intenti a parlare e a guardarsi. Non sembrava diverso dalla maggior parte delle loro serate. Soltanto allora, Sherlock capì che andando via avrebbe perso anche quello e fu proprio quel pensiero a farlo crollare. Sentiva le lacrime premere per uscire ma si trattenne dal piangere. Non poteva, non doveva mollare. Doveva farlo per John, affinché fosse al sicuro. E anche per Victor, e per Molly, che lo avrebbe aiutato. Poggiò una mano sullo Specchio, cercando, per quanto possibile, di trattenere quello spaccato di quotidianità con sé. Si permise un minuto per ricomporsi, poi alzò il bavero del cappotto, lanciò un’ultima occhiata allo Specchio e mormorò: -Tornerò, te lo giuro.- prima di uscire.
 
-Era un trucco. Un semplice trucco.- Non si accorse di aver iniziato a piangere fin quando non dovette prendere un grosso respiro prima di parlare.
Non riusciva a vederlo chiaramente, ma poteva immaginare benissimo il viso di John segnato dal dubbio. Per questo la sua sorpresa fu grande quando sentì l’Auror replicare deciso: -Smettila adesso.- per poi avvicinarsi a grandi passi verso il San Mungo.
-No! Resta esattamente dove sei! Non muoverti!- urlò, preso dal panico. Il panico: un’altra emozione che credeva di non essere più in grado di provare. Soltanto in quel momento si rese davvero di quanto John avesse influito nella sua vita, se era stato in grado di fargli perdere il controllo in quel modo.
Era da tempo sceso a patti con i suoi sentimenti nei confronti dell’ex Grifondoro, eppure la consapevolezza di ciò che l’uomo era stato in grado di provocare nella sua vita fin dal suo primo anno ad Hogwarts, smussando gli angoli del suo carattere man mano che si mostravano, cambiandolo ma non troppo, rendendolo migliore facendolo restare se stesso, lo colpì più forte che mai in quel momento.
Non registrò la risposta di John mentre allungava una mano verso di lui implorandolo, con le lacrime che ormai scorrevano copiose sul suo viso, di tenere gli occhi fissi su di lui. In quel momento l’unica cosa che avrebbe voluto fare era toccare John. Stringergli la mano. Abbracciarlo. Anche solo averlo al suo fianco, con quel sorriso insieme carico di affetto e rassegnazione, gli sarebbe bastato, in quel frangente. Perché era John e tutto il resto faceva meno paura con lui al suo fianco.
Però John lo sorprese ancora una volta.
Stava per lasciare il cellulare quando il suo migliore amico gli sussurrò: -Ti amo, Sherlock. Per favore, per favore… non farmi questo.-
Sherlock sgranò gli occhi. Non poteva dire di non avere avuto il dubbio, qualche volta, che i suoi sentimenti fossero ricambiati, ma il fatto che, ogni volta che qualcosa era sul punto di succedere, era sempre John a tirarsi via lo aveva reso dubbioso. Ed invece… ciò che sognava da otto anni era davanti a sé, non avrebbe dovuto far altro che scendere da quel tetto per renderlo reale. Però… anche se Moriarty giaceva morto a pochi passi da lui, da qualche parte lì vicino c’era qualcuno con una bacchetta puntata su John e Victor e non c’era modo di fermarli se non fingendo di morire.
Era anche peggio di quanto avesse immaginato. Tra le lacrime distinse John, con una mano allungata verso di lui, quasi a prendere quella che lui teneva ancora sollevata a mezz’aria. Questo rendeva tutto più difficile. Per un solo istante, ci pensò davvero, di dirglielo. John avrebbe avuto mesi, se non anni, per passarci sopra. Eppure, capì che doveva aspettare. Non sarebbe stato giusto nei suoi confronti, non gli avrebbe permesso di andare avanti e, soprattutto, non aveva la certezza che sarebbe tornato vivo da quella missione. Per questo, con il cuore che sembrava averlo abbandonato, mormorò. -Perdonami- prima di buttarsi di sotto.
Andò tutto come previsto e lui se ne uscì senza un graffio mentre il corpo del paziente che Molly era riuscita a trovare, che aveva le sembianze di Sherlock grazie alla Polisucco che quest’ultimo aveva perfezionato per l’occasione, prendeva il suo posto sull’asfalto. Invisibile e a pochi passi da lì, non riuscì a distogliere lo sguardo da John e dal suo vederlo crollare alla vista di quello che credeva fosse lui. Soltanto dopo che John fu portato via se ne andò, ma con la sensazione di aver lasciato parte di sé su quel tetto.
 
La vita senza Sherlock era la cosa più brutta che fosse mai capitata a John. Durante i primi giorni dopo l’accaduto, non trovò nemmeno la forza di alzarsi dal divano se non per partecipare al funerale. Ciò che più lo feriva era la consapevolezza che Sherlock, nonostante gli avesse confessato dei suoi sentimenti, non aveva cambiato idea, come se fosse stata una cosa da nulla, come se John non fosse importante. Inoltre, sapere che, nonostante la sua presenza ed il suo esserci sempre per lui, Sherlock avesse trovato dei motivi per suicidarsi, lo lacerava dentro. Non era stato bravo nel capirlo, nel dargli conforto, nel proteggerlo nonostante lui affermasse di non averne bisogno. In parte era anche colpa sua e né Victor, accorso appena sentita la notizia, né Molly sarebbero riusciti a fargli cambiare idea.
Cercando di mantenere la sua promessa, ogni sera, dopo le lezioni, Victor andava da John e gli raccontava la sua giornata. L’Auror, la prima settimana, si limitò a fissare il vuoto davanti a sé, ascoltando a malapena suo cugino e rivivendo nella sua mente il salto di Sherlock. Gli sembrava di avere il cervello in loop, non riusciva a pensare ad altro, ed ogni volta era sempre peggio. Soltanto quando fu troppo anche solo pensarci lo disse ad alta voce, nella speranza che, così facendo, il dolore si alleviasse. –Gliel’ho detto.-
Victor si bloccò a metà frase. –Cosa?- chiese.
-Che l’amavo. A Sherlock. Quando era sul tetto gliel’ho detto. Ma non è servito.- la sua voce era calma, esattamente l’opposto di quello che sentiva dentro di sé.
Victor cercò di nascondere l’espressione sorpresa e allo stesso tempo compassionevole che gli spuntò sul viso. Non sapeva cosa dire per consolarlo, perché non c’era niente che potesse aiutare. Così si limitò a poggiargli una mano sul ginocchio, mormorando: -Credo che, in fondo, lo sapesse.- Per un attimo, valutò di dirgli che Sherlock ricambiava prima di capire che non sarebbe servito. Non spettava a lui dirglielo e, soprattutto in quel frangente, sarebbe stata la cosa peggiore che potesse fargli. –Lui teneva a te più di tutti, sono sicuro che non avrebbe fatto quello che ha fatto se non fosse stato necessario.-
John rimase in silenzio, meditando su quelle parole. Non riuscì a crederci fino in fondo, ma in qualche modo si sentì meglio. –Tu ci credi, a quello che dicono i giornali? Che Sherlock non è altro che un impostore, che ha usato incantesimi illegali per creare reati apparentemente impossibili che avrebbe risolto con deduzioni ancora più impossibili soltanto per mettersi in mostra?-
-Nemmeno ad una parola.- rispose Victor, fermamente. –Lo conosco da quando aveva undici anni, non avrebbe mai potuto mentire già da allora.-
Per la prima volta dopo dieci giorni, John sorrise. Fu un lieve alzarsi di labbra, ma questo bastò a farlo sentire meglio. –Già. Nessuno avrebbe potuto fingere di essere uno stronzo arrogante per tutto questo tempo.-
Ciò che era successo non sarebbe cambiato, ma avrebbe potuto fare in modo che non andasse peggio. Così ricominciò ad uscire con Victor e Molly, ad andare al Ministero e a fare il suo lavoro. Non subito, non all’improvviso, ma pian piano imparò a pensare ai bei momenti trascorsi con Sherlock senza che facesse troppo male.
 
Se Sherlock pensava che a più di cinquemila chilometri di distanza sarebbe stato facile dimenticare i suoi sentimenti per John, capì ben presto che fosse stata la sua osservazione più sbagliata. Nello spartano locale di Kabul in cui viveva, l’unico pensiero che gli impedisse di crollare era lui. John. Il suo faro nella notte più tempestosa, la sua, inspiegabilmente, parte razionale in quell’inferno. Il ti amo detto da John quel giorno era il motivo per cui stava combattendo l’impulso di lanciarsi a capofitto in quella missione per trovare Sebastian Moran e tornare a Londra. Era lì da più di un anno e, anche se aveva eliminato molti pezzi grossi, non aveva ancora trovato il momento giusto per uccidere lui, l’ultimo superstite della rete di Moriarty, senza destare sospetti. Per la prima volta, aveva tutto da perdere ed era essenziale tornare a casa, sperando di trovare John a Baker Street, come sempre. Era buffo pensare che, pur reputando l’amore una cosa da sciocchi, fosse l’unico appiglio alla sua vita di prima. Non importava dove fosse, quanto fosse lontano e cosa facesse, pregava solo di poter tornare a Londra a risolvere casi con John, pregava con tutte le sue forze di riuscire ad amarlo come meritava, pregava che John lo accogliesse nonostante tutto il dolore che gli aveva provocato. Più passavano i giorni, più quei pensieri si facevano insistenti. Ancora qualche mese e tornerò da te, te lo giuro.
 
Essere richiamati da una delle missioni più importanti dell’ultimo decennio da niente di meno che da Mycroft Holmes a John sembrava uno scherzo. L’uomo aveva richiesto la sua presenza il prima possibile e non aveva potuto fare a meno che smaterializzarsi non appena il Patronus di uno dei più alti funzionari del Ministero era sparito.
Il Diogenes Club era esattamente come lo ricordava. John era stato accompagnato nella sala di Mycroft e lo aveva trovato seduto dietro la scrivania con aria seria, senza l’espressione di superiorità ed ironia che lo contraddistingueva e che John aveva odiato dal primo momento che lo aveva conosciuto. Questo lo fece preoccupare non poco.
-Si sieda, ho alcune cose molto importanti da dirle.-
-Ero in missione.- si sentì di puntualizzare John, prima di prendere posto.
Mycroft gli rivolse un sorriso ironico. -Ne sono consapevole, ma sono sicuro che non le dispiacerà venire al corrente di alcune cose riguardo mio fratello che, a causa di alcune… circostanze ora risolte, non era possibile farle sapere prima.-
Sentire parlare di Sherlock proprio da suo fratello e proprio in quel momento fece sussultare John. Nonostante gli anni e nonostante avesse imparato a conviverci, il dolore per la sua perdita non era passato e non lo avrebbe mai fatto. –Sono passati due anni- un anno, otto mesi e ventitré giorni –perché ora dovrei volerlo sapere?-
-Abbia pazienza.- disse Mycroft prima di uscire dalla stanza, lasciando John pieno di dubbi e col cuore in subbuglio. Una piccola parte di lui sperava nell’impossibile, ma la sua mente gli ripeteva che quello era troppo persino per Sherlock.
Passarono pochi minuti, ma a John sembrarono un’eternità. Poi, la porta si aprì con violenza ed un uomo entrò a grandi passi nella stanza. Era sporco, magrissimo al punto da sembrare uno scheletro, con la barba sfatta e l’aria più stravolta che avesse mai visto su una persona sana, ma era indubbiamente lui. Sherlock.
Rimasero entrambi fermi ad osservarsi per secondi lunghissimi. John sembrava aver perso la capacità di pensare. Stava fermo, in piedi davanti la poltrone, ad osservare a bocca aperta quello che rimaneva della persona che amava senza essere in grado di muoversi o parlare. Sherlock non era messo meglio: guardava John e non riusciva a far altro se non ripetere a se stesso ce l’ho fatta, sono tornato a casa.
Poi, una parola sibilata da Sherlock fece scattare l’Auror. –John…-
John si mosse velocemente, annullando cinque metri di distanza in tre falcate. Sherlock fece un solo passo avanti prima di trovarsi John attaccato alle sue labbra e le sue braccia a stringerlo. Chiuse gli occhi, ricambiando con tutta l’enfasi di cui era capace. Finì tutto troppo in fretta e ben presto Sherlock si trovò a fissare gli occhi di John, che, seppur velati di lacrime, non provavano nemmeno a celare l’accusa. –Perché non mi hai detto nulla? Dopo che io ti ho rivelato… perché non me l’hai detto?-
Aveva ancora le braccia intorno a Sherlock e poteva sentire quanto fosse magro. Se avesse stretto un po’ di più le mani intorno al suo busto, non aveva dubbi che avrebbe potuto contare tutte le sue costole. Poteva immaginare quanto fosse stato difficile per lui qualunque cosa avesse dovuto affrontare e sentì salire la rabbia perché avrebbe potuto, dovuto essere con lui e non gli era stato permesso di decidere. –Dammi un solo motivo per cui non dovrei prenderti a pugni qui ed ora per quello che hai fatto- mormorò, attirando Sherlock di nuovo a sé nonostante le sue parole. Le mani del consulente investigativo finirono sulla sua divisa, stringendolo forte.
In quel momento, la porta si aprì e Mycroft rientrò nella stanza seguito da due Guaritori. Sherlock sospirò, allontanandosi a malincuore da John. –Mycroft ti spiegherà tutto mentre mi rimettono in forma.-
E così John venne a sapere tutto: del fatto che Moriarty avesse fatto sparire tutte le prove dei casi risolti da Sherlock per minarne la credibilità, dei due maghi che tenevano a portata di bacchetta lui e Victor e del fatto che avevano dovuto usare un incantesimo Confundus di enorme potenza per ingannare sia lui che i loro cecchini, il tutto per permettere a Sherlock di salvare la vita dei suoi amici. Poi venne a sapere del periodo in Medio Oriente e di quello che aveva dovuto fare per tornare a Londra. John ascoltò con il senso di colpa sempre più pesante. Non ho capito. Non ho mai capito niente e l’ho lasciato solo a combattere anche le mie battaglie.
Quando Mycroft finì il suo resoconto, Sherlock era tornato vicino a John, con l’aria visibilmente più sana ed uno strano sguardo nei suoi occhi. La mano sinistra stringeva piano la spalla di John, come a dimostrargli che ora era lì e che non sarebbe andato via di nuovo.
John si girò, guardando Sherlock negli occhi. –Sarei dovuto venire con te, non avresti dovuto sopportare tutto questo da solo.-
-Non potevo rischiare di perderti.- Sherlock lo disse senza la minima esitazione e quello bastò a far capire a John che la persona di cui era innamorato prima della caduta, l’uomo che negava l’esistenza dei suoi sentimenti ma che in realtà, tra i quattro del loro gruppo, era quello che aveva più amore da donare, non esisteva più. Quell’esperienza lo aveva fatto crescere e lo aveva reso cosciente dei propri desideri e della necessità di mettere tutto se stesso per fare in modo che si avverassero e John, se possibile, se ne innamorò ancora di più. Era una persona completamente diversa ma per lui era sempre lo stesso Sherlock per cui aveva iniziato a provare qualcosa già a quattordici anni, e quello non sarebbe mai cambiato.
-Per te avrei rischiato tutto, lo sai.-
-Era questo quello che mi spaventava di più. Non ti ho detto niente perché era meglio così, perché se qualcosa fosse andato storto non ti avrei arrecato altro dolore, perché così… avevo un motivo per tornare a casa.- Sherlock esitò solo un istante prima di continuare. –Ti ho amato ogni giorno di più quando ero in Afghanistan e ho pregato, ho pregato così tanto di poterti rivedere e di poterti amare, e amare bene, perché tu meriti tutto il meglio che questo mondo ha da offrire, John, e voglio essere io a dartelo.-
John non fu consapevole di essersi alzato ed aver iniziato a baciare Sherlock con un’intensità tale che la sua magia fece schiantare il lampadario di cristallo sulla costosa scrivania di Mycroft finché non ne sentì il tonfo. Si staccò di botto ed arrossì, vedendo ciò che aveva inavvertitamente fatto. Non gli capitavano picchi di magia involontaria da prima che iniziasse Hogwarts e questo perché era sempre stato piuttosto bravo a controllarsi. Ma, quel giorno, era stato tutto troppo persino per lui.
Al suo fianco, sentì Sherlock ridacchiare e quel suono provocò una risatina anche a lui. Si sentiva ebbro di felicità, non credeva che avrebbe potuto sopportarne una goccia in più e niente avrebbe potuto buttarlo giù in quel momento, né lo sguardo di Mycroft, né il pensiero di ciò che avrebbe detto la gente quando avrebbe saputo del ritorno di Sherlock e del fatto che John era, ormai ne era certo, il suo fidanzato. Ci sarebbe stato tempo per parlare con Victor e Molly, ci sarebbe stato tempo di organizzare conferenze con la stampa per spiegare il tutto, in quel momento ciò che importava era continuare a cercarsi e trovarsi negli occhi dell’altro. Sorrise ancora di più e tornò con gli occhi su Sherlock, certo che non sarebbe stato in grado di spostarli per molto tempo da allora in poi. Sherlock, che lo stava già guardando assorto, gli sorrise di rimando, stringendogli la mano.
Se avesse avuto vicino a sé lo Specchio delle Emarb, era certo che il riflesso sarebbe stato esattamente quello: due uomini, due anime gemelle, che nonostante la distanza ed il tempo avevano continuato, inconsciamente, ad aspettarsi e che si erano finalmente ritrovate.

 
  
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