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Autore: nuvolenere_dna    09/09/2017    6 recensioni
[POV multipli di Freezer, Vegeta e Nappa]
Mi trattengo con tutte le mie forze per non ridere.
Lotti con tutte le tue forze per non gridare.
Lo so, mio dolce bambino... l’oscurità non ha mai fine.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Freezer, Nappa, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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pretty capitolo 4 Ehm, ciao.
Non ho grossi commenti da fare su questo capitolo, se non che sono insoddisfatta fino al midollo. Questo è il capitolo core della storia, come vedete dalla lunghezza praticamente raddoppiata rispetto agli altri, spero di essere in grado di trasmettervi almeno una piccola parte (la trasposizione esatta di quello che avevo in mente mi risulta essere impossibile, evidentemente...) dei miei sentimenti riguardo alla situazione che viene descritta.
Nella speranza che vi piaccia almeno un po’, un abbraccio a tutti.
Nu :*
 
PS: Il capitolo è dedicato alla canzone degli Evanescence intitolata “Sweet Sacrifice” che potete ascoltare qui.

 
| You poor, sweet, innocent thing; dry your eyes and testify
You know you love to hate me; don't you, honey? I'm your sacrifice |
 
Pretty When You Cry
 
Capitolo IV
[Vegeta’s POV]

 
 
Respiro l’oscurità, totale, immensa, di un nero talmente intenso da annichilire le mie palpebre ancora anelanti di luce. I miei occhi si aprono e si chiudono, infinite volte, patetici nel tentativo di scorgere un fantasma, un barlume, nient’altro che miraggi privi della minima consistenza.
Questa è una stanza degli specchi, corrosa dalle tenebre, un caleidoscopio perverso in cui la mia figura viene annientata infinite volte, sempre più debole, sempre più insignificante.
Sono ovunque e da nessuna parte, i contorni del mio corpo sono malleabili, liquidi, mi sono fuso con le tenebre che mi hanno sbranato, inglobandomi senza neppure sputare le mie ossa.
Tutto ruota, nauseante, coinvolto in una giostra silenziosa che mi fa vibrare le viscere, mentre risate malevole mi trapassano come coltellate. Il divertimento di questo palco trafigge di brividi gelidi la mia schiena madida di sudore.
«È così che finisce il leggendario Principe dei Saiyan?»
Le voci stridule aumentano d’intensità, pulsano nelle mie orecchie distorcendosi in una macabra cantilena. In falsetto gridano, raccapriccianti, impiccando la mia gola in una morsa dolorosa.
Il principe dei Saiyan.
Vegeta.
Il mio nome.
Il nome di mio padre.
Il nome del pianeta che ero nato per governare.
Lo pronuncio a voce alta, tempestato dagli echi che ritornano a infilarsi nei miei timpani.
Un nome sbocciato nella morte e per la morte.
Ricordo che Nappa mi disse che Vegeta non era il nome di nascita di mio padre, ma fu il nome nobiliare che decise di assumere una volta completato lo stermino degli Tsufuru. Vegeta era il nome di un fiore molto raro, incantevole, dai petali morbidi come seta, seducente e malizioso, talmente sibillino che alcuni sostenevano di averlo sentito ridacchiare solitario, sferzato dal vento della notte e illuminato sinistramente dalle lune. Ovunque sbucasse questo fiore, la vegetazione intorno moriva, corrosa dal veleno che trasudava dalle sue radici, taglienti come filo spinato. Uno di questi fiori cresceva di fronte alla casa di mio padre e continuava a sorridere, sempre più enigmatico, mentre le sue mani si riempivano del sangue degli Tsufuriani, impotenti di fronte alla forza dei Saiyan, il cui fuoco distruttore non aveva avuto la minima pietà. La terra di Plant era divenuta arida, crepata dall’interno come una muta abbandonata, mentre mio padre si adagiava sul trono con un sorriso sghembo a tagliargli la faccia.
Sono passati nove anni dall’ultima volta che l’ho visto.
Il suo volto è divenuto bianco, pallido come quello di un fantasma, appassito nella mia memoria. I suoi occhi neri tentano ancora di fissarmi, accusatori e sprezzanti, nel tentativo di sottolineare come la mia forza non sia mai sufficiente, mai abbastanza per realizzare i suoi personali sogni di vendetta.
«Tutti moriranno, soltanto perché sei un moccioso pigro.» mi sussurrava, le iridi cupe che rilucevano, sinistre, nell’ombra della mia camera da letto. Di nascosto da mia madre, mi trascinava nella stanza degli allenamenti, battendomi fino a ridurmi sull’orlo della morte. E quando, alla fine cedevo al pianto, spaventato e prostrato dal dolore, mi afferrava la nuca e strisciava il mio volto a terra, sporcandolo della polvere e della sporcizia che annerivano le mie lacrime.
Il marchio delle nullità, lo chiamava, indifferente ai miei singhiozzi e all’umiliazione cocente che mi tagliava come una voragine.
È assurdo pensare che avrei potuto ucciderlo senza nessuna fatica, semplicemente rispondendo ai suoi colpi. Non nascondo di averlo desiderato, inscenato in un anfratto tetro e rinnegato della mia fantasia infantile. Volevo soltanto essere stimato da lui, non me ne importava nulla di Freezer, della popolazione, della politica, volevo soltanto combattere e dimostrare a mio padre e a me stesso di essere il migliore.
E se non potevo ottenerlo, allora che morisse, ucciso sul campo di battaglia o in un qualche colpo di stato dai molti Saiyan che disapprovavano la sua politica di governo. Il fato ha capricciosamente ascoltato i miei sogni di bambino quando il volto di mio padre non era altro che un ricordo amaro dalle tinte contraddittorie. Mi dimeno cercando disperatamente di respingere un embrione di senso di colpa che strilla, un latrato fastidioso, inutile, che vorrei fare a pezzi.
Non ricordo da quanto tempo sono qui.
Non esiste nulla al di fuori di questo spazio nero, vischioso, ritmato dal battito convulso del mio cuore, sempre più vicino al collasso.  
Sono vivo, io?
Sono vivo? O questo non è altro che l’inferno?
Grido con le poche forze che sferzano le mie membra, grido fino a farmi bruciare la gola, un suono acuto e stridente nasce dalle mie profondità, moltiplicandosi all’infinito.
Un tonfo secco si ripete ancora una volta. Un cassetto si apre, invisibile nell’oscurità tetra, ed io infilo maldestramente una mano al suo interno, incontrando il solito piatto di carta floscio, contenente una pappetta di riso in bianco. Mangio voracemente, portandomi le mani sporche alla bocca come un animale. Poco tempo dopo le mie dita sono di nuovo pulite. Non distinguo più il sonno dalla veglia, con il passare del tempo anche i miei sogni sono divenuti vuoti, neri, privi di immagini. Mi contorco sul pavimento, gemendo, dilaniato dal dolore delle ferite, la testa che grida, compressa in un dolore insopportabile.
 
Due bagliori sbocciano nell’oscurità, talmente accecanti da provocarmi una fitta di dolore alle iridi.
Due lampi di porpora, scarlatti come braci di fuoco.
Conosco... quello sguardo. Il battito nel mio petto accelera all’improvviso, frenetico, come se questo non fosse un miraggio uguale agli altri.
Mi avvicino, strisciando, attratto da un magnetismo che anima le mie membra.
Sento il suo respiro.
Il mio cuore si paralizza, atri e ventricoli talmente compressi da divenire un unico punto di massa infinita, come il nucleo decadente di una stella sul punto di deflagrare nell’immensità dello spazio, disperdendosi nel vuoto. Un buco nero che si annida nella mia gola impiccata dalla paura, trattengo il fiato, indietreggiando istintivamente fino a sbattere le spalle contro una superficie solida.
Le luci metalliche si dissolvono a intermittenza, scivolando leggermente a destra e a sinistra, per poi ricomparire di fronte al mio volto, immense, accecanti. Intorno a esse si dirama una superficie bianca, chiara, in cui si riflette un volto terrorizzato che riconosco infine come mio. Non sembro neppure io, i miei lineamenti spigolosi sono disciolti nel terrore, gli occhi segnati da occhiaie violacee, profondissime.
«Ti sono mancato?»
La sua voce sospira sarcastica.
Deglutisco ripetutamente, il volto infiammato dall’angoscia che si diffonde come un virus contraendo i miei tratti. Il mio corpo si muove autonomamente, sollevato da una potenza immateriale, mentre i suoi occhi mi trapassano, letali, in attesa di una risposta che dalla mia gola non sorgerà mai.
«Non avrei mai detto che sarebbe accaduto, ma mi mancava la tua faccia da schiaffi.»
Da qualche parte nell’oscurità nasce una sfera luminosa.
È la sua mano che la trattiene fra le dita, lisce e rigide come cilindri di marmo.
Lo vedo, il suo sorriso, perverso come il sangue, stagliarsi accecante nel buio più nero.
China il capo da una parte, trattenendo fra i denti la lingua lasciva, e mi guarda, famelico, mentre contrae i muscoli delle braccia, rapidi nel guizzare sotto la pelle viscida, per serrare i pugni sulle mie spalle fragili.
La sua mano si chiude su di me, affondando le unghie in una delle mie clavicole, soffocando la luce ancora una volta.
Immobilizzato dal terrore, non riesco neppure a muovermi, teso fino allo spasimo, ossessionato dai centimetri in cui i suoi artigli mi hanno trafitto, causando l’ennesimo dolore.
Il suo respiro è vicino, sento il suo alito freddo solleticarmi il viso e la gola, pungente come la brezza invernale. Mi annusa, ingurgitando stizzito il mio odore, mentre l’altra mano si allunga sul mio volto, chiudendomi gli occhi, estendendo ovunque le sue dita possessive.
Il mio respiro caldo si condensa contro la sua cute algida, affannoso e ansimante.
Mi dimeno, spaventato, respinto dal muro alle mie spalle, ma il mio corpo è divenuto liquido, incerto, incatenato al suo, indistruttibile, solido come metallo, la cui presa affonda nelle mie carni come se non avessero consistenza.
«Volevi davvero tradirmi, Vegeta?»
I suoi occhi divampano silenti, immobili come soli al tramonto.
Annuisco appena, con un cenno del mento appena percepibile, troppo paralizzato dalla paura anche solo per considerare la possibilità di fingere.
«Non posso crederci... Preferisci ancora quell’uomo a me?»
La sua voce si tinge di gelosia, algida come una coltellata, le unghie affondano taglienti nel mio volto, stringendosi in una morsa.
«Quando ti arrenderai al fatto che quel verme non ti voleva? Ti ha gettato via, come se fossi un rifiuto. Un insetto. L’ultimo delle terze classi.»
Falso. Vero. Falso.
Cerco disperatamente di sottrarmi a quelle parole, incisive come ferite che mi strappano la pelle, scoprendo le ossa impotenti. Mi rinchiudo nella mia fortezza, stringendo i denti, arroccandomi nella consapevolezza che le sue parole non hanno la minima importanza, menzogne, castelli di deliri e camaleonti che strisciano nella sua mente, rettili che sibilano impotenti alle mie orecchie.
Eppure qualcosa mi raggiunge, affondando nelle profondità di me e moltiplicandosi in un’eco, ossidandosi, infettando le mie carni.
«Non ha mai combattuto per te.»
La luce risorge. Vuole guardarmi negli occhi, vuole godere della contrazione dei miei lineamenti, appena percettibile sotto il tocco delle sue dita di ferro.
L’espressione sul volto di Freezer si tinge di un’ipocrita tristezza, gli occhi che scintillano nel piacere di sottolineare quanto io fossi indesiderato, le labbra che vibrano nel tentativo di trattenere un ghigno, stravolte dal piacere di distruggere quel poco che fornisce significato al mio esistere.
La bile mi corrode acida la gola, inducendomi a deglutire ripetutamente, tormentato dalle pupille severe di mio padre, sedotto dalla sua voce suadente, le poche energie rimaste che si diradano nelle profondità di me. Qualcosa dentro di me si è rotto, l’oscurità si è insinuata tanto in profondità dentro di me da germogliare, rispecchiando la sua malvagità cinica.
«Tu, invece, combatteresti per me?» esalo arrogante contro il palmo della sua mano, tremando.
«L’ho già fatto, Vegeta.» ringhia, gli occhi che per un attimo divampano nel candore disciplinato del suo viso.
Vengo scaraventato a terra, la testa che sbatte in un colpo secco sul pavimento, deflagrando infinite vertigini, la schiena perforata da brividi che mi ricoprono di sudore gelido.
Sento le viscere contrarsi, sminuzzate, triturate in un milione di piccoli pezzi.
Spalanco gli occhi, dove lampi luminosi si muovono nelle periferie del mio sguardo. La nausea trema nel mio ventre, contratto al punto da farmi digrignare i denti e gemere come una bestia.
Voglio soltanto che tutto finisca, che tutto torni alla cenere dove nulla esiste, dove non esiste più questo corpo a pezzi, dove il dolore è sostituito da un sonno imperituro.
«È così che ricambi l’unica persona al mondo che attribuisce importanza alla tua sopravvivenza? Con il tradimento?»
La rabbia ora divampa incontrastata sul suo volto, mimata dalla coda che sbatte libera sul pavimento, scavando solchi di calcinacci e polvere. Cerco di sostenere il suo sguardo, ma tutto si confonde, disciolto in una nebbia oscura in cui anche il suo viso si disperde.
Ricordo solo le sue spalle esili, il profilo del suo volto che si girava appena verso di me, continuando a fissare lo spazio.
«Non preoccuparti, piccolo... Mi prenderò cura io di te.» mi disse, mentre le labbra vermiglie si piegavano in un sorriso dolce come una frustata.
No. Non voglio. Non posso permettermi di mostrarmi così debole di fronte a lui.
Cerco di aggrapparmi all’orgoglio, all’arroganza che mi mantiene in vita, e inizio a contrarre le gambe per alzarmi, i palmi delle mani che sudano strisciando nella polvere.
Mi sento mancare e tossisco, immobile, abbandonato dal mio stesso corpo. Un sussulto mi scuote come una scossa elettrica, facendomi sfracellare su un fianco. Sento le viscere impazzire, ustionate da un incendio pungente che non riesco a respingere. Vomito un bolo rovente di sangue e di succhi gastrici, le unghie talmente affondate nel palmo della mano da aggiungere le ennesime incisioni a quello che è divenuto un cimitero di croci.
Non guardarmi. Non guardarmi...
Il peso delle sue iridi scarlatte è insopportabile, i suoi occhi sono onnipresenti, assilli di porpora che mi osservano, moltiplicati per un milione, un caleidoscopio luminoso che muore e rinasce a ogni battito di ciglia.
Il mio volto avvampa, rovente per l’imbarazzo e la paura. Non guardarmi, non voglio che tu mi veda così debole, così impotente, sfracellato sotto le tue ginocchia, rigide come sculture di marmo. Sbatto le palpebre, allontanandole dal suo sguardo, notando che la sua compostezza tradita dalla tensione che traspare dalle dita contratte del suo piede serpentino. Sento la sua risata rimbombare all’infinito, rimbalzata dalle mura vuote della cella fino a ferirmi i timpani, sovrastando il suono dei miei stessi ansiti.
«F-Freezer...» biascico, il respiro fischiante, ogni lettera trascinata nello spazio e nel tempo come se volessi evocarlo. Una voce roca e consumata scaturisce dalle mie viscere, vincente fra i cori di urla e di gemiti che lottano per emergere dalle profondità.
Non so perché lo sto chiamando, quasi supplicando, stringendo la sua caviglia con la mano, tirandolo flebilmente e finendo per sporcare la sua pelle nivea e fredda del mio sangue.
Forse io...
«Cosa vuoi da me, Vegeta?»
Mi scaccia con sdegno, colpendomi disgustato la mano, mentre le sue pupille vermiglie rifulgono nella notte, funeste, accompagnate dalla sua voce calma, ammorbata da una delusione pungente, quasi rabbiosa.
«Io ti ho sempre trattato come sangue del mio sangue. Ma tu insisti per voltarmi continuamente le spalle. Me lo merito, forse?»
Parla sottovoce, impastandosi di una sinistra oscurità. Il sudore inizia imperlarmi anche il volto, sento la gola arida e pungente, non rispondo, paralizzato dal terrore, mentre la sua coda continua a frustare il pavimento, pesante come una trave, sempre più a fondo, il suono delle piastrelle che si polverizzano, schizzate dalla sua furia.
«Rispondimi Vegeta, me lo merito?»
La sua voce è pericolosa come un serpente, deformata insieme ai suoi occhi in due fessure. Vedo le sue labbra tremare, il rossetto vagamente sbavato, la forza spirituale che cresce, accumulandosi traslucida come una nebbia intorno al suo corpo.
Incontro nuovamente i suoi occhi roventi e velenosi, affondando, disperdendomi in essi, non riuscendo più a trattenere la mia angoscia.  
Ma Freezer, inaspettatamente, distoglie lo sguardo.
Qualcosa esplode, sento le sue mani circondarmi il collo e spingermi contro il muro con talmente tanta forza da farmi gridare, incrinando la parete di roccia che si frantuma al contatto col mio corpo. Le sue mani sono gelide sulla mia pelle cocente, la stringono, le mie mani si mescolano alle sue, cercando disperatamente di liberarmi.
Annego fra le sue mani, i polmoni alla disperata ricerca d’ossigeno, le gambe che scalpitano contro i suoi fianchi coriacei, nella speranza vana di allontanarlo.
Sento gli occhi bruciare, madidi di lacrime.
La speranza è stata assassinata, stuprata come un fiore sorpreso da una nevicata primaverile.
Mi aspetterei di vederlo godere, ridere divertito, ma il suo volto è serio, totalmente distorto dalla rabbia, una maschera di collera pura, le narici dilatate, le labbra morse fra i denti acuminati, gli occhi quasi fuori dalle orbite. È l’espressione di un folle, ben lontana dalla sua abituale compostezza, feroce e brutale, una mescolanza di sentimenti che raramente ho scorto sul suo volto.
È furioso, lo sento ansimare, i suoi occhi sono cupi come l’autunno, popolati dai fantasmi di sentimenti rifiutati e controllati, frustati e ridotti in schiavitù dal suo controllo inossidabile.
«Ammettilo, Vegeta!» grida, alzandomi e gettandomi nuovamente a terra con rabbia, allentando per un attimo la presa affinché io possa respirare, carpendo tutto l’ossigeno di cui sono capace. Tossisco, divorando aria, ansimando, ma le mie mani tremanti non lasciano quelle di Freezer, ancora ben salde intorno al mio collo, dure come propaggini metalliche. Il suo volto furente mi fissa, in attesa, ma dalla mia bocca non fiorisce nulla, un campo devastato dal sangue e dalla violenza.
Silenzio. Il tempo si ferma, cristallizzato in un istante corteggiato dalla morte.
«Padre»
È un sussurro quello che fiorisce sulla mia bocca, freddo sul sangue rovente che mi cola lungo il mento. Il peso di quella parola, che io stesso ho pronunciato, è come un terremoto che distrugge quel poco che resta di me. Sento il cuore rivoltarsi, corroso e vibrante, accompagnato dallo stomaco che si contorce, svuotato.
So che questo è quello che desidera sentire. Non delle scuse, non delle spiegazioni, ma una conferma, un’ammissione di quanto io sia sempre, incontrovertibilmente, suo figlio.
Padre.
Le sue mani si rilassano leggermente senza allontanarsi, sempre possessive nel circondare il mio collo. Non oso neppure guardare le braci scarlatte dei suoi occhi, adombrate da spettri brillanti come fiamme nell’oscurità, devastato dalla consapevolezza che tutto sta andando ancora una volta in frantumi, l’ennesima roccaforte travolta dalla sua potenza, calpestata come se non fosse altro che una formica.
Sorride appena, scoprendo i denti candidi, un sorriso dolce che impreziosisce i suoi lineamenti fini, dolci come una carezza che accoltella le viscere.
Mi ha piegato.
Ancora una volta.
«Padre... perdonami.»
Mormoro, rivolto contemporaneamente a due figure diverse.
Una si trova di fronte a me, il demone di ghiaccio il cui volto è turbato, eccitato, allucinato dalle mie parole.
L’altra si trova nella mia memoria, l’uomo profanato, disonorato dalla lealtà e dalla sottomissione che trasudano dalle mie parole.  
La verità è che...
Un singhiozzo si fa strada nel mio petto, riemergendo vile sul mio volto, piegato in una fitta dolorosa, bagnato dalle lacrime che iniziano a colare dai miei occhi gonfi.
Soffoco nel mio stesso pianto, tossendo, le lacrime copiose che mi bagnano le labbra, che si infilano nelle mie orecchie, sordo a qualunque altro suono che non sia il battito impazzito del mio cuore o quello del dolore inarrestabile che mi inumidisce il volto.
È il suono della vergogna, dell’umiliazione che trucida il nome che porto, che insozza la mia famiglia, la mia stirpe, il suolo su cui sono nato, il mio ridicolo orgoglio, ancora una volta inerme di fronte alla sua personale capacità di distruggermi come se fossi il suo giocattolo.
Il suono della consapevolezza agghiacciante, perversa, rinnegata, che ho tentato di seppellire con tutte le mie forze, mi scuoia vivo, annegandomi nel senso di colpa.
Assomiglio più a lui che al Re dei Saiyan.
Provo più rispetto per Freezer che per il Re dei Saiyan.
«Sei così carino quando piangi... Vegeta.»
La sua mano mi accarezza lieve il volto, insistendo sugli zigomi, i polpastrelli delicati nel tormentare le mie ciglia umide, lentissimi sugli occhi doloranti, gonfi al punto di scoppiare, suadenti nel dischiudere leggermente le mie labbra ansimanti per i singhiozzi che mi scuotono.
Gli è sempre piaciuto sentirmi piangere, ne è come ipnotizzato, affamato, di nuovo calmo mi guarda silenzioso, le pupille come porpora liquida, rubini incastonati nell’oscurità.
Lo odio, talmente profondamente da sentirmi mancare il fiato, fitte di dolore e di disperazione mi tagliano ovunque, facendomi gemere anche dalla frustrazione di non riuscire a salvarmi, di non riuscire a fare niente per ribellarmi.
Lo odio, lo odio con tutto me stesso, e ardente dalla vergogna abbasso lo sguardo sulle mie gambe tremanti.
«Perché... perché?» ringhio, furente, la voce distorta dal pianto e dai singhiozzi.
Le sue dita, lente, mi alzano il mento, facendomi sussultare. Non voglio incontrare il suo sguardo, immaginando il ghigno bastardo, straripante della soddisfazione cocente distorcergli i lineamenti demoniaci. Ma nei suoi occhi non c’è niente, le sue iridi sono vuote, inespressive, il carminio scuro e consumato di una foglia d’autunno che viene sfiorata dalla neve per la prima volta. Mi fissa a lungo, imperturbabile, come annoiato.
«Ti voglio pronto entro un’ora.»
Dichiara, freddo, smettendo di accarezzarmi e lasciando scivolare la mano lungo il mio petto. Un flash di luce, solido e violento, si espande in uno schiocco secco dentro di me, facendomi quasi deflagrare il cuore. Elettricità pura invade le mie vene, le tende e le fa vibrare, sento come i muscoli riprendere il loro vigore, i polmoni riempirsi di nuova linfa.
La sua energia vitale mi travolge, inarrestabile, e deglutisco ripetutamente, cercando di placare il battito convulso, delirante, del mio petto.
Mi alzo a sedere e successivamente in piedi, ritrovandomi di fronte a lui, alla sua stessa altezza. Il suo dito indice si appoggia sarcastico sulla mia clavicola ancora fasciata dai brandelli della battle suit sporca di terra e di sangue.
«Vai a farti una doccia, Vegeta, hai un odore tremendo.»
La sua voce è di nuovo dura, affilata come una lama, i suoi occhi gelidi come il ghiaccio.  Le sue labbra si arricciano, mimando il disgusto del suo corpo immacolato nello sfiorare il mio. Sento uno schiocco sordo e la luce bluastra dei neon invade la stanza, mentre osservo le sue spalle esili allontanarsi, accompagnate dal suono robotico dei suoi passi.
Dentro di me esiste solo l’oscurità, vischiosa intorno alla mia anima annientata.
Non potrò mai liberarmi di lui, anche se morisse, anche se lo uccidessi con le mie stesse mani. Io lo odio, lo odio così tanto che quando osservo il suo volto mi sento contorcere le viscere, così tanto da sentire fame del suo sangue di serpente, desiderio di dilaniare le sue carni con i denti e le unghie, eppure quella parola, quella parola che ho pronunciato prima continua a tormentarmi.
Scompare, disciolto nel bianco del corridoio fosforescente, senza voltarsi indietro.
Odio mio padre.
 
 
Continua...
 
 
 
 
 
 
  
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