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Autore: Pareidolia    17/09/2017    1 recensioni
Hakkou, rinomato investigastore, si ritrova a dover scoprire cosa si nasconde dietro a una misteriosa serie di omicidi dedicati dagli assassini a un certo Mugen. Fra la follia dei killer e le intricate strade di una gigantesca metropoli, si ritroverà a superare la linea che separa la realtà dai sogni.
Genere: Dark, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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What say you, Lord

Now that they're breeding all our animals insane

And the remedy is growing harder to obtain

There's a white horse running wild through the switch-cane

I can hear him now

And I fear him

 

The Veils - Nux Vomica

 

 

La città era sorda e cieca quando la testa di un uomo venne fracassata in onore di Mugen. Accadde di notte, in un freddo vicolo in cui s'era addensata una fitta coltre di smog rosato. L'arma era un grosso cacciavite elettrico utilizzato, poco prima, per riparare i cardini d'una vecchia finestra. Poi, d'improvviso, qualcosa era cambiato e il tecnico che lo stava usando cambiò idea per impiegarne la punta a rotazione automatica in un omicidio efferato e a prima vista senza senso.

Mugen, sogno. Mai prima d'allora si era sentito quel nome. Mai nessun orecchio aveva sentito parlare di un uomo chiamato in maniera così strana. Eppure in molti capirono, dal mattino seguente, che presto si sarebbe sentito nominare ancora.

Mentre, quella stessa notte, l'uomo veniva portato via dal vicolo da alcuni agenti della Karma Police, lo si sentì continuare a mormorare quel nome. In preda a una follia disumana, forse, oppure il suo sangue era talmente pieno di droghe che le vene stavano per esplodergli e il cervello per sciogliersi. No, nulla di tutto ciò. Né droghe né follia. Il suo cervello era normale, il sangue pure. E allora qual era il problema? Dove si nascondeva la verità?

Tutta la metropoli, poco a poco, iniziò a chiederselo. I giornali ci riempirono le prime pagine e vendettero più copie del solito con quella domanda. La polizia, come nei noir di tempi passati, brancolava nel buio. Io, invece, quella verità ero intenzionato a cercarla. Un po' per curiosità, un po' per una silenziosa sfida a questo misterioso uomo.

Mugen, sogno. Che la risposta a quel quesito fosse proprio nei sogni?

 

Un sogno. Forse ciò che quotidianamente si vive è nella sua interezza un sogno.

Davanti a me vedo nella sua vastità un deserto di neve pura e soffice pesante dietro di me una vita di errori sprechi fallimenti davanti solo la neve nulla bianco mi muovo e tutto ciò che è stato pare non esistere più non esiste solo che la neve sono un punto nel nulla inutile assoluto cosa fare non importa i pensieri svaniscono rimane la mente rimango io. Io? Chi sono io solo un indefinito essere in questo universo del mondo nulla esatto nella compagnia nella solitudine nell'amore nella vita nella morte non importa cosa sono chi sono palazzi enormi grattacieli grigi la sfida a Dio la putrescenza il sangue la violenza l'uomo torno indietro. L'anima viene immessa e tutto inizia.

 

Dall'avvenimento era passata appena una settimana e di Mugen non si era più sentito nulla. Per un paio di giorni o forse un poco di più tutti gli abitanti della metropoli avevano continuato a seguire le notizie, le scoperte sulla mente di quel tecnico capace di compiere un gesto di così grave violenza ma tutto ciò non aveva portato a nulla e la curiosità era svanita così com'era nata. Finita nel nulla.

Quella sera al Magnolia c'era parecchia gente. Suonava una band hard rock i cui membri erano particolarmente bravi. Non c'era elettronica nella loro sonorità, solo strumenti spinti al massimo e una voce che raschiava gli animi degli spettatori.

Li ascoltavo dal mio tavolino, solo in un angolo. Mi godevo lo spettacolo mentre fumavo una sigaretta ridotta ormai quasi al filtro e sorseggiavo un bicchiere d'un forte liquore esotico. Probabilmente si trattava solo di roba sintetica spacciata per un costosissimo liquore di mango ma poco importava, il sapore era buono e abbastanza forte perciò mi andava più che bene comunque. Svogliatamente il mio sguardo viaggiava dalla band agli spettatori, per poi tornare sui musicisti. Tutto pareva stranamente tranquillo, viste le tipiche serate al Magnolia. Ancora non c'era stata nessuna rissa, nessun litigio improvviso che facesse scoppiare una lite furiosa quanto violenta che si sarebbe aggravata ben presto al punto da far intervenire qualche poliziotto. Come una piccola fiamma isolata sarebbe diventata poi un incendio di dimensioni enormi prontamente spento da un gruppo di pompieri.

Non accadde nulla di tutto ciò, però. La band continuò a suonare e terminò la canzone tra un fortissimo assolo di chitarra incredibilmente fluente, accompagnato dall'euforia degli altri strumenti. Davanti al palco numerosi ragazzi si scatenavano in gesti casuali, dettati solo dall'ebbrezza del momento. Di Mugen si vociferava soltanto, qualche volta, a bassa voce fra i tavoli ma non si trattava di nulla in particolare. Niente più che voci di corridoio poco fondate.

Quella notte un'innaturale calma pareva regnare sull'intera metropoli.

Erano ormai le due di notte quando la band smise di suonare e, ringraziando, si ritirò dietro al palco, nelle ombre dei camerini. L'atmosfera nell'intero Magnolia cambiò completamente. I neon divennero più soffusi, variando confusamente tra sfumature blu e rosse mentre la musica, sparata da casse ad altissimo volume, infiammava nuovamente gli animi dei presenti. Ogni notte a quell'ora il Magnolia si trasformava da music bar a vera e propria discoteca, ingoiando tutti coloro che stavano dentro, consumandone il cervello e il corpo con le droghe biochimiche vendute da oscuri personaggi nascosti nei bagni o in determinati punti della sala da ballo, impossibili da trovare e da arrestare.

Era a quell'orario che quel luogo iniziava a non far più per me. Fu proprio per quel caos che decisi di andarmene e tornare a casa camminando. Volevo evitare quanto più possibile la fredda e buia metropolitana.

 

Sotto un cielo nero come il petrolio si dilungava lo stretto vicolo che collegava esattamente alla metà il settore A e il B della zona di Dazai. Una sottile folata di smog rosa si addensò sulla strada, districandosi piano fra i muri dei palazzi e svanendo dietro un grosso cassonetto della spazzatura di metallo arrugginito. Il suono dei miei passi risuonava nell'aria e, nell'aria, uno strano suono continuava a echeggiare.

Sentii uno strano grugnito, distorto e sempre più vicino. Prontamente sfoderai la pistola e avanzando trovai davanti a me un uomo dal viso sfigurato dalla cieca rabbia, gli stempiati capelli biondicci inzuppati di sudore come la sua pelle e spettinati. Nei suoi occhi c'era il vuoto. Un vuoto rosso e furioso. Ai suoi piedi, rannicchiato contro un muro, giaceva il freddo cadavere di un uomo ben vestito e del tutto estraneo a quell'ambiente. Il folle si gettò su di me digrignando i denti, alzando per aria un grosso martello. Il grido che scaturì dalla sua bocca sveglio entrambi i palazzi che si estendevano lungo il vicolo.

Lo scansai prontamente, colpendolo alla base del collo col calcio della pistola e mi spostai alle sue spalle, puntandogli contro l'arma e afferrando dal cappotto il distintivo con la mano sinistra.

-Fermati, sono un agente della Karma Police!- Esclamai invano. Mi sentii stupido, poiché già sapevo come sarebbe andata a finire.

Come pensavo non mi diede minimamente ascolto. Le parole parvero non avvicinarsi nemmeno a lui e si lanciò una seconda volta su di me. Sembrava non controllare affatto i propri movimenti, seguiva solo la rabbia che gli riempiva il corpo senza badare affatto a cosa stesse facendo di preciso. Il martello fece per calare sulla mia testa con forza, il tempo parve fermarsi di colpo. Le prime gocce di pioggia toccarono l'asfalto dei marciapiedi luridi, dalla sua bocca, attraverso i minuscoli spazi liberi fra i denti digrignati, schizzò un lungo rivolo di saliva grigiastra, il martello gli scivolò dalle mani e lui cadde a terra, quasi a rallentatore. Un grosso foro in gola lasciava intravedere il colore freddo del pavimento.

Ero sicuro che, prima di sparare, avesse pronunciato la frase “Lo dedico a Mugen”. In un istante fui consapevole che quel nome, già dall'indomani, avrebbe nuovamente riempito le bocche della città così come il caldo cibo delle mense per i poveri riempie le bocche dei senzatetto.

 

Il mio presentimento si rivelò corretto e già il mattino dopo sui giornali e ai notiziari in televisione si parlava ancora di Mugen.

Era risaputo ormai da anni che numerosi giornalisti avevano a che fare con i cosiddetti spioni, uomini e donne che tenevano sotto controllo attraverso telecamere e informatori l'intera metropoli e vendevano poi le informazioni a chi offriva loro la somma più alta.

-E' assolutamente vero. Questa notte, verso le due per la precisione, un uomo della zona di Abe è stato aggredito e ucciso. L'assalitore, apparentemente, ha sussurrato la frase “Lo dedico a Mugen” ma niente è ancora sicuro. Presto, ve lo assicuriamo, ci saranno degli aggiornamenti.- L'intervento di Teshigahara fu rapido e conciso. Quanto, ovviamente, vago. In quell'espressione aveva detto tutto e nulla, senza fornire alcuna conferma, alcuna certezza riguardo l'accaduto. Come sempre si preferiva tentare di incuriosire gli abitanti della metropoli con la cronaca nera piuttosto che avviare delle serie misure di protezione per i cittadini.

Quasi subito dopo il termine della sua intervista al notiziario sentii squillare l'OLOGRAM. Il viso di Suzuki si materializzò dall'apparecchio in una brillante luce rossastra. Fissava un punto davanti a sé con sguardo parecchio irritato.

-Tutto bene?- Gli domandai.

-Che cazzo di domande fai? Ti pare vada tutto bene? Non mi sembra proprio. Lo hai visto al notiziario, vero?- Serio, scontroso e tremendamente incazzato. Il solito Suzuki.

-L'ho appena visto.-

-Quella testa di cazzo. Gli avevo detto di non dire niente. Non doveva nemmeno comparirci, in quel notiziario. Maledetto lui e chi lo ha messo al mondo.-

-Da quando la gente in polizia fa quello che gli pare, Suzuki?-

-Da quando stronzi come lui esistono. Scherzi a parte, Hakkou, la faccenda come sai è seria. L'aggressione di ieri è la conferma che questo Mugen esiste veramente, qualunque cosa esso sia. Un drone, un cyborg di qualche tipo, un'A.I. o quant'altro. E sappiamo tutti benissimo che sei la persona più adatta a scoprire una cosa simile.-

-D'accordo. Ci sono elementi da cui partire o devo arrangiarmi?-

-Ci sono i cadaveri delle vittime precedenti, del tuo aggressore e si può interrogare quello degli altri casi. Ti sembrano abbastanza elementi?-

-Direi di sì, anche se le vittime mi servono a ben poco. Vengo subito a controllare il cadavere dell'aggressore di stanotte.-

 

Ai cittadini della metropoli erano stati nascosti due casi prima che le notizie sull'omicidio della settimana precedente trapelassero. Fortunatamente per la polizia e, forse, un po' meno per i cittadini, i giornalisti di quei due casi ancora non sapevano assolutamente nulla.

Si presumeva, comunque, che l'aggressore fosse lo stesso che una settimana prima era stato arrestato e chiuso in cella da allora. Il cadavere dell'altro, invece, non mostrava nulla di anomalo. Il cervello non aveva innesti di alcun tipo mentre il corpo aveva subito un intervento biochimico soltanto a un polmone, distrutto precocemente da un eccessivo vizio del fumo. Durante l'autopsia era stato registrato solo un alto livello di stress prima della morte ma niente di più. Era un uomo comunissimo che in passato aveva avuto una famiglia dalla quale si era però separato ormai da dieci anni e, a causa di decisioni legali, era finito sul lastrico. Viveva in un minuscolo appartamento più simile a uno sgabuzzino che altro nella zona di Dazai, settore C.

Decisi, almeno per il momento, di iniziare da lì le indagini.

L'appartamento era in effetti minuscolo. Una sola stanza in cui l'uomo, Tarou Mizoguchi, aveva inserito malamente un materasso alto pochi centimetri, un gabinetto e un fornello per cucinare. Non c'era nient'altro. Mi chiusi la porta alle spalle e accesi la luce, un debole neon vacillante che rendeva quell'angusto ambiente ancora più tetro. Premetti un pulsante del telecomando nascosto nel cappotto e osservai meglio ciò che avevo attorno. I muri erano tappezzati di scritte tanto fitte da sembrare incomprensibili, lasciate con un particolare pennarello elettronico il cui inchiostro consisteva in pura traccia di codice informatico, invisibile ad occhio nudo. Anche i pochi oggetti erano interamente ricoperti da quelle scritte, oltre che colmi di incrostazioni e macchie di dubbia provenienza. Provai a leggere ma fu del tutto inutile, non si riusciva a comprendere una sola parola e chiedere l'intervento di un esperto sarebbe costato troppo tempo e denaro, nessuno dei quali mi era stato messo a disposizione.

Infilai entrambe le mani nei sottili guanti bianchi di lattice e provai a spostare quei pochi oggetti presenti. Il fornello non presentava niente di strano ma, non appena sollevai il materasso, sul pavimento trovai scritte ancora più fitte. Mugen, ripetuto più volte, come fosse qualcosa di tremendamente importante.

Mentre riflettevo su ciò qualcuno bussò alla porta.

-Mi scusi...ho sentito che c'è un agente, qui. Ha bisogno di una mano con qualcosa?-

-No. Chi è lei?- Domandai, senza aprire la porta di ferro.

-Il custode.- Rispose la voce vecchia e stanca dall'altro lato. -E' sicuro di non avere bisogno di nulla? Una mano può sempre essere utile quando ci si trova in difficoltà. O se ci si trova a metà strada fra la realtà e il sogno.-

Come?

Di getto spalancai la porta, trovandomi davanti non più il buio corridoio del ventitreesimo piano, bensì una parata di forme surreali sovrastate da un cielo azzurro puntellato da strane nuvole violacee e un sole verde fin troppo vicino. La musica di quella parata quasi mi assordò di colpo e fui costretto a chiudere all'istante la porta. Il rumore finì, il silenzio calò nuovamente come tenebra assoluta. Cosa avevo appena visto? Di chi era quella voce misteriosa e vecchia, in un mondo in cui la vecchiaia era quasi del tutto estinta?

Quando riaprii la porta non vidi altro che il corridoio e le sue deboli luci al neon macchiate di muffa. Non c'era nessuno al punto che l'intero edificio pareva completamente abbandonato. Strofinai con forza le palpebre, nel tentativo di scacciare dagli occhi quell'immagine tanto terribile quanto irreale. Il collegamento fra tutto ciò e Mugen era evidente, quasi ovvio ma non riuscivo a comprendere a cosa si legasse con esattezza.

Diedi un'ultima occhiata alla stanza ma non trovai nient'altro, la pista da seguire per quanto riguardava l'assalitore della notte precedente terminava lì. Restava, però, la possibilità che l'altro aggressore sapesse qualcosa di Mugen, a patto che riuscissi a farlo parlare.

 

Ken Sasaki, un uomo sui cinquant'anni, un po' grassottello ma nell'insieme un uomo dall'aspetto comunissimo. Capelli radi sulla nuca ed esageratamente gonfi sui lati, occhiali spessi dalla montatura marroncina, rughe profonde e lucide a causa della sua pelle grassa e porosa, un grosso neo sulla base della mascella destra. Mi guardava con occhi stretti, un'espressione vuota che sembrava quella di un morto, gli angoli della bocca tesi verso il basso. Era ovvio già guardandolo che quegli occhi avevano visto molto e avevano resistito con molta difficoltà. Mi tolsi il cappotto scuro, appoggiandolo alla sedia e lo osservai. Spostai una ciocca di capelli neri che mi solleticava il naso.

-Dunque, signor Sasaki, sappiamo entrambi benissimo cosa ha fatto qualche notte fa e, forse, anche prima.-

-Io non ho fatto nulla prima di quella notte.- Disse alzando un poco la mano sinistra ammanettata al tavolo. Il suo tono di voce era vuoto come lo sguardo.

-D'accordo, allora solo quella notte. Me ne può parlare?-

-Io ho ucciso.- Disse, come se stesse appena iniziando un discorso e dovesse cercare le parole adatte, perciò attesi ma non disse più altro.

-Sì, è vero. Mi saprebbe dire perché lo ha fatto?- Non rispose, limitandosi a fissarmi col suo sguardo vacuo in cui iniziai a scorgere delle flebili onde. Qualcosa si stava avvicinando.

-Proviamo allora con un altra domanda. Gli agenti l'hanno sentita pronunciare una frase, quella notte, si ricorda per caso qual è?-

-Se lo scordi. Voi non lo avrete mai.-

-Come, scusi?-

-Non si farà prendere da voi.- Sospirai, cercando di accedere alla purtroppo scarsa riserva di pazienza nel mio animo e trattenermi dal saltargli addosso. Non ero mai stato il tipo adatto agli interrogatori e, probabilmente, mai lo sarei stato.

-Sta parlando di Mugen, vero, signor Sasaki?- Non rispose ma il suo viso diceva apertamente di sì. Era ovvio che stesse parlando di lui.

Osservandolo con attenzione notai che, nonostante a un primo sguardo sembrasse chiaramente senziente, in realtà si poteva notare in lui qualcosa di strano. Una parte della sua mente era annebbiata, forse addirittura dormiente. Che qualcuno lo stia controllando?

-Il cielo si capovolgerà. I pianeti si allineeranno. Il giorno in cui l'impiegato timbrerà per la quinta volta il tesserino la centrale sotterranea avrà un fremito e si sveglierà. La fine della realtà. L'inizio del sogno. Una cosa sola.- Mentre pronunciava queste parole il suo volto si deformò gradualmente, poco a poco. Gli occhi parvero curvarsi disumanamente, la bocca si restrinse in larghezza, allungandosi verso il mento e il naso parve moltiplicarsi innumerevoli volte, comparendo e svanendo confusamente. I capelli si mossero, danzando in un vento che nella stanza non era presente.

.Mugen. Mugen. Mugen. Mugen.- Non smise un attimo di ripetere quel nome come fosse un mantra oscuro e pericoloso. Senza farmi spaventare sfoderai dalla fondina la pistola e, tenendogliela puntata contro, mi avvicinai all'allarme e lo premetti con forza.

Furono in tutto quattro gli agenti che accorsero sul posto all'istante, spalancando la porta della cella e puntando a loro volta le armi contro l'uomo.

-Qualunque cosa stia tentando di fare si fermi, Sasaki. Si potrebbe trovare pieno di ferro senza che lo voglia, è l'ultimo avvertimento.- Gli dissi, tentando di mantenere il più possibile la calma.

-La morte non è che l'inizio, Hakkou.- Disse con una voce differente dalla sua. Le manette si staccarono dai suoi polsi con un suono secco e una raffica di colpi lo investì, tramortendolo. Nonostante fosse morto, il suo volto rimase deformato, a metà fra il suo normale e quello mostruoso di qualche attimo prima, in una variazione tra i due stati che non voleva fermarsi.

Che sta succedendo? Che sia l'influenza di quell'uomo? Che sia davvero capace di tutto ciò o c'è dietro un qualche tipo di trucco?

Per quante domande potessi pormi non riuscivo a trovare nemmeno una tesi campata un po' per aria che potesse fornire una sorta di spiegazione.

 

L'abitazione di Sasaki era assolutamente migliore di quella di Mizoguchi. Si trattava di un largo appartamento formato da quattro stanze in tutto, al decimo piano della zona di medio borgo, Abe.

Abe era una zona grande quanto le altre, formato da quattro distretti tra A e D ma la differenza per quanto riguarda le strutture era assolutamente evidente. Erano più alti e brillanti, puliti e soltanto i vicoli si portavano dietro il disgusto delle zone più povere ma soltanto perché erano poco trafficati e i piani alti della metropoli non erano interessati affatto a volerli sistemare. Del resto la vita andava comunque avanti per tutti e nessuno si lamentava molto.

C'erano molti più negozi e ristoranti, là, oltre che persone di nazionalità diverse. Vi si potevano trovare italiani, francesi o anche americani o nord-europei. Gli occhi avevano molte più cose da vedere ma il caos era maggiore. Il silenzio era del tutto soffocato dall'eccessiva presenza di automobili che si lasciavano dietro lunghe scie di fumo rosato che, trasportato dal vento, arrivava a Dazai e Akutagawa. Forse, però, quella sensazione di caos era data soltanto dalla mia abitudine di stare sempre nelle silenziose aree più povere, dove se si sentiva un rumore significava un qualche tipo di pericolo incombente.

Immerso nelle luci e nell'atmosfera spensierata del settore B di Abe, mi avvicinai all'ingresso e suonai al citofono. Mi rispose la moglie di Sasaki, Mari. Una voce squillante, che sembrava ignara dell'arresto del marito. Impossibile, pensai, starà fingendo.

-Salve signora Sasaki, sono Hakkou, un investigatore della Karma Police. Avrei delle domande da farle.- Sentendomi dire ciò, il suo tono cambiò all'istante. La felicità che lo permeava fino a qualche secondo prima scomparve del tutto, lasciando spazio a un tono freddo e spento.

-D'accordo, entri pure.- In sottofondo sentii la voce di un bambino.

Superai l'ingresso, raggiungendo la larga e ben illuminata hall del palazzo, dove un grosso computer inserito nel muro alla mia sinistra faceva da portinaio.

-Attivazione ascensore. Prego, entrare e selezionare ad alta voce il piano.-

Seguendo il prototipo di I.A. entrai nell'ascensore e indicai il decimo piano. Non ero affatto abituato ai ritmi e all'atmosfera di Abe. Per anni avevo vissuto tra Akutagawa e Dazai, passando per quella zona e l'ancora più ricca area di Taniguchi, situata esattamente al centro della metropoli. Per questo provai una sensazione strana a stare in quell'ascensore cromato e talmente pulito che potevo specchiarmi sulle pareti o a camminare per le vie dei quattro settori. Non era il mio posto e, ne ero certo, mai lo sarebbe stato.

Quando raggiunsi il decimo piano trovai alla mia destra la porta dell'appartamento di Sasaki aperta, una donna aspettava appena oltre l'ingresso.

-Salve, chiedo scusa per il disturbo.-

-Non si preoccupi, prima o poi qualcuno doveva venire. Prego, entri.-

L'appartamento era arredato con mobili a metà fra l'antico e il moderno. Probabilmente erano stati ereditati da dei parenti anziani e modificati per essere riutilizzati nella maniera più comoda possibile, poiché erano visibilmente estranei alla tecnologia dei mobili moderni.

In alcuni punti del pavimento in finto legno giacevano giocattoli colorati e un bambino sui cinque anni li prendeva uno ad uno, utilizzandoli per un po' e poi rigettandoli a terra per concentrarsi su altri. La moglie di Sasaki era più giovane di almeno dieci anni rispetto a lui. Bella, ordinata. Il viso leggermente truccato per nascondere le profonde occhiaie e le rughe di preoccupazione apparse sul suo volto da almeno un mese a quella sera, gli occhi sfuggevoli, mai fissi davanti a sé. A una prima occhiata pareva una donna intelligente.

-Dunque, da quanto tempo lei e il signor Sasaki siete sposati?-

-Da sei anni, un anno prima della nascita di Jun.- Indicò distrattamente il bambino con un dito sottile. -Vuole sapere se ho notato qualcosa di strano nel comportamento di mio marito, immagino.-

-Esatto.-

-Be', diciamo che da tre mesi a questa parte passava più tempo fuori casa. Questioni di lavoro, diceva. Lo dicono tutti, vero?- Comunque c'è, in effetti, una cosa che dovrebbe vedere.- Si alzò e mi fece segno di seguirla. Mi indicò una porta che era stata sfondata con molta difficoltà, dopo innumerevoli tentativi. Oltre ad essa si trovava una piccola stanza senza luce, solo con un piccolo altare circondato da candele sciolte la cui cera aveva creato una struttura surreale. Al centro stava un piccolo oggetto fatto a mano, di vero e proprio legno. Un legno nero e nodoso, con ancora addosso l'odore della resina dell'albero da cui era stato ricavato. Prendendolo nella mano destra pensai che quel caso aveva a che fare con fin troppe cose estinte, prima l'anzianità e ora gli alberi. Tutte cose che con l'avanzare della tecnologia nella metropoli erano svanite del tutto. Da dove veniva, allora?

-Lei ne sa qualcosa?-

-Assolutamente no. Lui chiudeva sempre questa porta con il tastierino che c'è accanto, dicendo che era per i documenti del lavoro. Cose top secret. Quando ho saputo che era stato arrestato per omicidio, però, ho deciso di aprirla. Da tempo sentivo che qualcosa in tutto questo non andava, quindi ho pensato che questa stanza avesse a che fare col suo comportamento.-

-E non si era mai accorta di tutto ciò?-

-A quanto pare non sono stata una moglie molto attenta o interessata agli affari di mio marito. Forse ho volutamente ignorato il suo comportamento.-

-Capisco. C'è altro?- Fece segno di no con la testa e il silenzio calò nella stanza.

Una donna e un marito il cui rapporto si era affievolito, le cui parole erano venute sempre meno, lasciandosi invadere da quello stesso silenzio. Non era affatto una storia nuova, non c'era alcuna sorpresa in tutto ciò. Una storia universale, che accadeva tanto a Dazai, quanto ad Akutagawa e anche lì, verso il centro della metropoli, dove tutto si faceva più spensierato e felice.

Presi il piccolo oggetto di legno dalla strana forma contorta e, dopo averlo inserito in una sottile busta di plastica, me ne andai.

Sull'uscio, prima di svanire oltre il corridoio, lanciai un'occhiata di compassione al bambino, ancora impegnato coi suoi giocattoli e ignaro di aver perso probabilmente per sempre il padre.

   
 
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