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Autore: Emide    17/09/2017    1 recensioni
Connor O'Byron vive una vita che non è più la sua. Assillato da delle voci confuse e pressanti che gli martellano la testa, da una sagoma che lo perseguita perfino durante il sonno, dovrà attraversare un cammino che gli farà scindere la verità dalla più recondita delle bugie. In quella casa, celata dalle fronde della foresta circostante, Connor dovrà affrontare una realtà perfino più dura del destino malsano che lui stesso si è cucito addosso.
Nel quale è stato trascinato.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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The Inside Man


 
 
 
Preludio
 

L’Irlanda, l’Isola Smeralda, il Paese Verde, il lento frusciare di una notte spettatrice. Le sue vaghe illusioni, le vertigini al di là dei promontori agitati. L’Irlanda, le sue eterne distese d’erba, le immense praterie silenziose, le fredde acque dell’oceano, scosse dai primi, distratti venti autunnali. Le sue foreste fitte ed insidiose, dove il riflesso della propria immagine sembra smarrirsi. Dove gli occhi degli inconsapevoli osservatori si perdono tra la calma e il tormento, nel mormorare delle betulle e il sibilare dei loro rami.
Tutto questo era soltanto una grande e invitante menzogna per lo sguardo assente di Connor.  Sbirciava l’alba al di là della tendina scura della sua camera, lasciandosi cullare dalle immagini speculari e statiche che sempre vi scorgeva. Cercava di prendere sonno, ma questo gli appariva così estraneo e distante che si alzò poco dopo per riprendersi dal torpore. Era sempre la stessa storia. Vegliava, dalla mattina alla sera. Era sempre in attesa, ma di cosa? Era esausto, ma allora perché non riusciva a chiudere occhio? Perché la sua esistenza gli appariva così putrida e distante perfino da sé stesso?
Eppure, il suo aspetto decisamente gradevole, i suoi grandi occhi verdi e le fossette che gli scavavano nelle guance pallide, lo rendevano un ragazzo davvero elegante, nella sua semplice bellezza. Era desiderabile, per chiunque venisse rapito da quegli occhi che promettevano la luna ma vagavano nelle tenebre. Nonostante ciò, Connor aveva vent’anni, ma nemmeno un amico, era pieno di capelli, ma nemmeno uno sembrava stare al posto giusto. Il suo letto era costantemente in ordine e mai disfatto.
Non ricordava più l’ultima volta in cui era riuscito a trovare un po’ di pace, nella vacuità dei sogni, nell’assenza di caos.
Il suo mondo, la sua intera vita, era un unico grande incubo, dove la vita e la morte si intrecciavano nello stesso modo in cui la sanità e la follia si tengono per mano.
Ciò che lo distingueva da tutti gli altri era indubbiamente il suo sguardo mai presente: un crescente vociare lo perseguitava giorno e notte, la sua mente non ricordava il silenzio.
La vita gli era divenuta stretta e i suoi lamenti si erano fatti più insistenti. Voleva scavalcare le voci nauseanti che parlavano al suo posto, sovrastandole con le sue stesse urla, se fosse stato necessario. Non ricordava neppure quando quel meccanismo così folle si fosse innescato dentro la sua mente. Non sapeva quando l’inizio della sua fine si era sostituito alla sua vita. Aveva dimenticato il sapore della normalità, senza quelle torture perenni a riempire le sue giornate. Invidiava ogni persona che, circondandolo, era ancora in grado di ridere, di ascoltare, di sorridere perfino.
Il suo cuore era in procinto di esplodere, eppure i suoi occhi continuavano con forza a guardare tra le fitte insenature della foresta, come se le risposte ad ogni sua domanda giacessero lì, in mezzo a un’irta rete di rami, distante un centinaio di metri da casa sua. Ad un palmo dal naso dalla sua vita.
Questa riluttante e spaventosa visione lo terrorizzava alla follia, attirandolo nello stesso istante verso ciò che non era in grado di contrastare. A cui era incapace di far fronte.
La sua famiglia aveva deciso di trasferirsi altrove, nei pressi di Dublino. Lo avevano invitato a seguirli, seppure fossero a conoscenza, con grande riluttanza, dell’attaccamento viscerale e malato che lo incatenava non solo a quella casa, quanto alla foresta che, appena fuori dalla sua finestra, si animava al calar del sole. Erano certi che il loro secondogenito avrebbe rifiutato la loro richiesta e, con quel diniego insindacabile, i trequarti dei loro problemi se ne erano andati via per sempre, assieme a lui.
Eppure Connor O’Byrne non era solo. Ogni notte, ogni pomeriggio, nella penombra della sua stanza, c’era sempre qualcuno che lo osservava con maniacale attenzione, dall’altro lato della finestra. Erano occhi gelidi, inespressivi come solo i suoi potevano esserlo. Possedeva un volto anonimo, vuoto, talmente tanto inespressivo da sembrare privo di organi di senso, se visto da lontano. Il naso, la bocca e perfino le orecchie sembravano assenti, come nascosti dalle fronde di quegli alberi imponenti che li dividevano l’uno dall’altro.
L’unica cosa di cui poteva avere certezza, nella sua vita avulsa da ogni contesto, era che quell’uomo, la sagoma dei suoi incubi fosse sempre lì, immobile, ad aspettarlo. Alle volte si avvicinava un po’di più, altre volte gli appariva un po’ più lontano. Qualche volta abbandonava perfino la foresta da cui sembrava provenire. Si appostava direttamente sotto alla finestra della sua stanza, proprio dinanzi a lui.
Alcune volte entrava perfino in camera da letto, nel cuore della notte.
Non era umano, Connor sembrava esserne certo. Nonostante le sue infiltrazioni improvvise e minacciose, le sue braccia olivastre non avevano mai cercato di ghermirlo, né di fargli del male.
La sagoma si limitava ad osservarlo, mentre Connor, agonizzante e con gli occhi segnati dall’insonnia, si abbandonava a se stesso.
Era sfinito.
Lasciava raramente la sua topaia. Lo faceva soltanto per fare acquisti alimentari, oppure per poter raggiungere la fabbrica nella quale lavorava come operaio ormai da qualche annetto, ogni giorno con sempre più fatica del giorno prima.
Lì tutti lo tolleravano e nessuno osava avvicinarsi a lui.
Brigit Murphy, la centralinista dell’azienda, aveva messo in circolo strane voci sul suo conto. Aveva parlato di una terza, inquietante presenza, nata dal nulla, proprio mentre si trovava nella sola compagnia di Connor. Aveva visto soltanto un’ombra, eppure era lo stesso ben certa che qualcuno fosse passato proprio dietro la sua schiena, sfiorandole i lunghi capelli ricci. Aveva letto l’ansia nell’irrequietezza degli occhi di Connor, mentre le sue parole, sfumate come acquarelli fin troppo gonfi d’acqua e pigmenti, risuonavano mute nella stanza.
Da vicino quell’essere era perfino più spaventoso di come non lo fosse altrimenti, con il suo volto vuoto e inespressivo.
I suoi occhi vitrei sembravano riflettere il malessere di Connor.
L’evento di Brigit lo aveva avvisato di non essere solo; lo aveva avvertito di non essere l’unico a vedere quell’orrore.
Non era pazzo.
Connor O’Byron non si sarebbe arreso, anche se questo avrebbe significato guardare e guardare ancora la sagoma sotto la sua finestra. Avrebbe continuato ad osservare imperterrito, al di là delle mura della sua casa, che celavano l’orrore a cui la sua vita era andata inconsapevolmente incontro.
Cercò di riemergere da sé stesso, provò a prendere in pugno il suo destino.
Sarebbe scivolato.

 
   
 
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