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Autore: PandorasBox    28/09/2017    2 recensioni
[...] con meno di otto ore di volo, era atterrato in Europa.
Nessuno aveva saputo di preciso dove per un lungo, lungo, lunghissimo tempo.
La prima notte se la ricorda bene perché faceva freddo, molto più freddo di quello mai provato in Virginia, pioveva a dirotto e lui si era ridotto a dormire sulle panchine della stazione dei bus di Cardiff (ché ormai era troppo tardi per poter andare in qualsiasi ostello) insieme ad un clochard di nome Connor, bene attento che nessuno li scoprisse.
Il giorno dopo aveva comprato, strappando quell’assegno con un paio di riserve, un piccolo appartamento poco fuori dal centro città (ché soldi ne ha e ne aveva, ma era iniziato il periodo in cui si impara che non ha senso sprecarli), un letto, una coperta, ed aveva iniziato a darsi da fare.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Adam Parrish, Blue Sargent, Richard Campbell Gansey III, Ronan Lynch, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NOTE: Incredibile ma vero, arriva anche il momento in cui io scrivo delle note sensate ma, non preoccupatevi, succederà solo questa volta!

Inizio col dire che, come facilmente intuibile, è un AU (e quando mai le mie cose non lo sono…), che i nostri baldi giovini hanno trent’anni, che Noah non è morto e qui la cosa più magica che c’è è il riuscire a piazzarsi sulla banchina del treno proprio davanti alle porte che si aprono.

La storia, come al solito, non è betata, qualsiasi imperfezione/imprecisione/mancanza segnalata sarà un punto simpatia nei vostri confronti ♥                           
Detto questo devo solo aggiungere che:

  1. Tutto verrà fuori dalla storia (sarà spiegato benino, giuro!)

  2. Io sarò lentissima ad aggiornare (anche se il secondo capitolo è già scritto a metà)

  3. La storia inizierà presto ad avere un mezzo senso

  4. Non sarà qualcosa di divertente ma, piuttosto, un pippone introspettivo

  5. Ci saranno tutti e dico proprio tutti.

 

(Magari vi interessa: il titolo della storia viene dalla canzone “Diamanti” di Michele Bravi e, la citazione all’inizio del capitolo da “Magellano” di Gabbani. Come vedete ho una (1) ossessione e voglio mostrarla a voi tutti.)







 

Partenze e mille ritorni

per la paura che fa

prendere il largo

baciare ad un tratto in bocca la felicità

piegare il vento come la volontà





 

Il telefono vibra ─ una, due, tre volte, una quarta poco dopo- ed è con non poca fatica che Gansey apre gli occhi su  una giornata uggiosa come tante altre giornate uggiose vissute negli ultimi dieci anni.

Le notifiche di facebook messenger brillano, con poca empatia, sullo schermo del suo telefono e lui si dice ancora troppo stanco e troppo assonnato per voler mettere a fuoco quel che c’è scritto, per voler inforcare gli occhialetti tondi che riposano (proprio come prima riposava lui, al caldo, beato) sul comodino alla sua sinistra.

Non che debba sforzarsi troppo ad immaginare i testi di quei messaggi: è il suo compleanno e si aspetta tante felicitazioni, tanti auguri, troppi “passa una buona giornata” ed un paio di messaggi in cui sua madre, con quell’abile dialettica data dal suo periodo in politica, gli chiede se quest’anno conta di tornare a casa prima di aggiungere un “Buon compleanno da me e papà”.

L’ultimo, che fa vibrare il telefono nelle sue mani, è di sua sorella ma non ha voglia di leggere neanche quello, non dopo aver adocchiato un “Richard” all’inizio.

Lui non è proprio il Richard di nessuno, è quel che si ripete, borbottando in un attimo di infantile capriccio, o, se lo è stato, non lo è più da parecchio.

Richard è suo padre, padrone di mezza Virginia e di troppe macchine: lui al massimo è padrone di un piccolo appartamento a Cardiff, di una brutta macchina e di quattro valigie di cui una un po’ rotta.

Lui è, ma non è, Richard Campbell Gansey III.

Se apre il suo passaporto è scritto lì, a chiare lettere, così com’è scritto su ogni documento firmato, su ogni sua pubblicazione, tutto.

A quindici anni, però, ha deciso che quel nome, che è lungo e suona così dannatamente aristocratico, se lo sarebbe lasciato alle spalle ─ ché sì ha delle belle spalle larghe e potrebbe portarselo anche dietro tutta la vita ma è anche troppo pesante e forse non ne ha davvero voglia.

Dopo anni di viaggi su e giù per l’Europa ha imparato quanto è bello viaggiare leggeri, uno zainetto da massimo dieci chili sulle spalle e via all’avventura, non c’è bisogno di molto e, la vita da solo,gli ha insegnato che si possono anche indossare vestiti sgualciti di tanto in tanto.

Ora che ci pensa deve ancora preparare quello per il prossimo viaggio

Affonda la faccia nel cuscino e si dice che ci penserà più tardi.

 

Se n’è andato dagli Stati Uniti, dalla Virginia, a diciannove anni e venti giorni.

Di punto in bianco ha mollato gli studi di legge, ha fatto i bagagli, è tornato dai suoi genitori per un saluto veloce ed ha detto loro che, prendere o lasciare, Richard non sarà qualsiasi cosa loro vogliono che sia ma sarà uno storico.

Sua madre si era accigliata, suo padre non si era mostrato tanto sorpreso, sua sorella era scoppiata a ridere chiedendosi come aveva potuto sfuggirle una cosa del genere, ché di solito le sue decisioni sono nell’aria per parecchio prima di essere definitivamente prese.

La mattina dopo era partito su un taxi, aveva preso un aereo su cui aveva imbarcato le poche cose che gli servivano (le altre, s’era detto, se le sarebbe fatte spedire) e, con meno di otto ore di volo, era atterrato in Europa.

Nessuno aveva saputo di preciso dove per un lungo, lungo, lunghissimo tempo.

La prima notte se la ricorda bene perché faceva freddo, molto più freddo di quello mai provato in Virginia, pioveva a dirotto e lui si era ridotto a dormire sulle panchine della stazione dei bus di Cardiff (ché ormai era troppo tardi per poter andare in qualsiasi ostello) insieme ad un clochard di nome Connor, bene attento che nessuno li scoprisse.                                                

Il giorno dopo aveva comprato, strappando quell’assegno con un paio di riserve, un piccolo appartamento poco fuori dal centro città (ché soldi ne ha e ne aveva, ma era iniziato il periodo in cui si impara che non ha senso sprecarli), un letto, una coperta, ed aveva iniziato a darsi da fare.

Da lì in poi il tempo era volato.

Università, un lavoretto in biblioteca, pochi amici, la laurea, due ragazze, un pesce rosso, viaggi per tutto il Regno Unito, vecchi archivi polverosi, una prima pubblicazione.

Inizia a farsi un nome, è uno dei più promettenti giovani studiosi di Owain Glyndŵr.

Per natale torna sempre in Virginia ma mai più di cinque giorni, al sesto è già in volo verso casa.

Verso la normalità, i caffè che si raffreddano subito, i vestiti non stirati e la scrivania in disordine le sue piantine di menta che l’aspettano sul davanzale.

E poi ancora vecchi archivi polverosi, vecchi castelli, musei, codici, non ha più una ragazza, il pesce rosso è morto, una libreria nuova, un nuovo pc, altri viaggi per il Regno Unito.

Una seconda pubblicazione.

Incontri universitari, un paio di interviste per riviste specializzate, mail a cui rispondere, qualche presentazione di libri di persone che conosce superficialmente ma con cui finge chissà quale amicizia.

In qualche modo, tra tutte quelle cose, inizia a costruire un modellino di Henrietta con le scatole di quei cereali che mangia in quantità industriali, alla faccia della salute e di tutto il resto.

Una casetta ogni notte per riempire ore insonni, occhi spalancati per colpa di quell’ansia di avere poco tempo ─ poco tempo per cosa, poi? Non riesce a spiegarselo.

Una casetta ogni notte e non capisce come quella cittadina, quel posto così magico che a lui è diventato stretto molto preso, possa essere talmente impressa nella sua testa da non aver alcun problema a riprodurre persino i dettagli più insignificanti, una pennellata alla volta, l’alba che lo coglie con le mani sporche di colla e colore e con una lunghissima lista di cose da fare nella giornata che inizia.

Sono quasi vent’anni che non riesce ad avere un’intera notte di sonno senza che qualcosa - cosa?- lo svegli, senza che il respiro si spezzi all’improvviso e lui sia costretto a camminare su e giù per la stanza per riuscire a calmarsi, riuscire a respirare.

E lui se la ricorda, quella notte, ricorda come si stava annoiando a quella festa e ricorda di aver accettato di giocare a nascondino, ricorda il dolore e ricorda di aver detto a sua madre che «Morire fa male.».

Da allora anche dormire fa male.

E lui non l’ha fatto neanche la notte scorsa.

Il telefono vibra ancora lui, di nuovo, l’ignora: risponderà la sera come fa sempre, scusandosi poi con il suo solito “ho avuto una giornata molto impegnata” a cui tutti credono, nonostante sappiamo fin troppo bene che, il giorno del suo compleanno, lo passa da solo e, di solito, chiuso in casa.

Non ha bisogno di regali, di compagnia, di qualcuno che gli ricordi che ha sempre meno tempo ─ ma meno tempo per cosa?

Non ha bisogno di regali ma ha deciso di farsene uno, nel petto lo stesso fuoco che lo spinse a scappare dall’America appena iniziata l’università, le dita che battono velocemente sui tasti del computer alla ricerca di quel che gli serve e che avrà, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione, purché possa stringerlo subito tra le mani.

È con il rumore delle prime gocce di pioggia sul vetro che inizia a preparare l’ennesima valigia, il suo piccolo trolley arancione ormai ricoperto di adesivi, i panni piegati metodicamente e la testa leggera anche se piena di pensieri.

Sono poche le cose che porterà con sé, in caso dovesse servirgli altro lo comprerà, non sa neanche quanto starà via, non sa neanche se tornerà, la routine inizia già a stargli stretta e forse è davvero ora di cambiare e lui non se n’è ancora reso conto.

La stampante sulla sua scrivania sta stampando il suo biglietto, i suoi occhi indugiano sulle sue piantine con un leggero senso di colpa, stacca qualche fogliolina e se la infila in tasca, come al suo solito, il suo personalissimo portafortuna, la sua speciale coperta di Linus. Tre giri di chiave ed è fuori da casa sua, in piedi sul pianerottolo con la consapevolezza che non tornerà tanto presto, nota come la famiglia dell’appartamento accanto abbia finalmente riparato la luce sopra la sua porta, poi prende il suo trolley ed inizia a scendere le scale perché l’ascensore lo ripareranno domani.

Ma lui, domani, sarà abbastanza lontano.

È con il cappuccio alzato sulla testa e gli occhiali pinticchiati di pioggia che si dirige, a piedi, verso la stazione, l’acqua che gli inzuppa le scarpe ed una strana, piacevolissima euforia che gli fa dimenticare la cosa.

Mentre il paesaggio fuori dal finestrino del treno inizia a cambiare, mentre Cardiff sparisce dalla sua vista ed inizia la campagna, si concede di sbloccare finalmente il telefono, gettare un’occhiata distratta a tutti quei nomi che intasano il suo schermo: amici, parenti, persone che aveva anche dimenticato di conoscere.

Si dice che risponderà, che il viaggio è ancora lungo, che ha tempo.

Con questa consapevolezza si addormenta mentre, nella tasca destra dei suoi jeans, il telefono torna a vibrare una, due, tre volte.

 
   
 
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