Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: _Pulse_    01/10/2017    3 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Buonasera a tutti :)
Con questo capitolo si chiude il caso del "diamante azzurro" e si verrà a scoprire anche qualcosina di più sui piani di Lupin, il quale fa una visita a... a chi? Vi lascio la sorpresa!
Grazie a chi sta leggendo questa storia, commentando e apprezzando tanto da metterla tra le preferite e le seguite. Siete la mia gioiaaaaa!
Vi auguro una buona lettura! :)
Alla prossima.

Vostra,

_Pulse_


____________________________________________________________________



9. Texts


Geneviève scese le scale in punta di piedi e trovò la porta del salotto chiusa, così entrò da quella accostata che dava sulla cucina e sbirciò all'interno, non trovando nessuno. Il detective doveva essere andato a dormire, finalmente.
Col cuore che le galoppava nel petto si guardò intorno e decise di iniziare a curiosare, partendo dal pc portatile sulla scrivania, su cui Sherlock aveva lavorato per quasi tutta la notte. Non era protetto da password e questo la stupì, ma non tanto quanto la cartella che vide al centro del desktop, intitolata "Donna Bionda". Vi portò sopra il cursore, ma quando fu sul punto di aprirla ci ripensò.
Le aveva dato la sua parola, le aveva permesso di dormire nella stanza del suo migliore amico...

Geneviève abbassò lo schermo del laptop ed uscì in fretta dall'appartamento. Il senso di colpa era talmente grande, così pesante sulle sue spalle, che dovette respirare a pieni polmoni quando fu sul marciapiede, sotto il cielo violaceo. Mancava ancora un'ora all'alba e Geneviève decise di camminare verso il Savoy, così che l'aria fredda le schiarisse le idee.

«Ciao papà», lo salutò, facendo del suo meglio per non risultare triste.
La voce di suo padre invece le giunse chiara e squillante, felice. «Ciao tesoro! Volevo solo dirti che sono rientrato adesso. È un vero peccato che tu non ci fossi, è stata una serata memorabile!».
Geneviève mantenne il piccolo sorriso che aveva sulle labbra ed accarezzò con un dito uno dei tanti becher che ingombravano il tavolo della cucina di Sherlock. Più che una cucina, sembrava un laboratorio di metanfetamina.
«Sono contenta che tu ti sia divertito. La prossima volta non mancherò, promesso».
«Ci conto, tesoro! Ora ti lascio, sono molto stanco».
«Va bene, allora buonanotte».
Era già pronta a chiudere, ma la sua risposta tardava ad arrivare. I suoi silenzi non promettevano mai nulla di buono e quando finalmente parlò, Geneviève si ritrovò ad occhi sgranati, scioccata.
«Salutami Sherlock, mi raccomando».
«Ma che dici?», ridacchiò, nervosa. «Perché dovrei salutarti Sherlock?».
Arsène l'avrebbe perforata con uno dei suoi sguardi intimidatori, uno di quelli che le facevano accapponare la pelle solo all'idea. Invece, trattandosi solo della sua voce al telefono, sibilò adirato: «Non ti azzardare a fare la finta tonta con me. Ci siamo capiti?».
«S-Sì».
«Domani mattina mi aspetto delle spiegazioni», aggiunse. «Ora rimani pure lì, vedi di sfruttare l'occasione per scoprire qualcosa di utile».
«Okay. Buonanotte anche a te», lo salutò, senza venir ricambiata.

Geneviève non si sarebbe mai pentita di quello che aveva fatto per sua madre, ma era davvero dispiaciuta di aver deluso suo padre. Incredibilmente però, lo era ancora di più per aver mentito a Sherlock, fingendo che Arsène l'avesse allontanata solo per l'arrabbiatura e non perché potesse sfruttare il buon cuore del detective per frugare in casa sua.
Era quello che intendeva sua madre, quando le aveva detto di fare solo ciò che riteneva giusto e di non fare cose di cui si sarebbe pentita?
Tutti quei sentimenti che si facevano lotta tra di loro - l'amore per sua madre, l'orgoglio che voleva suo padre provasse nei suoi confronti, la simpatia che stava iniziando a provare per Sherlock Holmes - la stavano portando ad un'esaurimento nervoso.
Passò di fronte alla stazione di Regent's Park e decise di salire sulla metro per arrivare prima al Savoy, dove avrebbe affrontato suo padre. Non poteva più aspettare.

***

Molly si svegliò e nel buio della sua stanza pensò che fosse stato tutto un sogno.
Era già pronta a sprofondare con la faccia nel cuscino per godere di altri cinque minuti di sonno prima che suonasse la seconda sveglia, quando sul comodino vide un bigliettino con un numero di telefono e un nome: Jean.
Lo prese tra le dita, quasi col timore che si sbriciolasse, e portandoselo tra gli occhi chiusi ripensò alla serata trascorsa al pub.
Quando, dopo cena, era uscita per bere qualche bicchiere tra la gente - un metodo come un altro per sentirsi meno sola, - non aveva la minima idea che avrebbe fatto colpo su un ragazzo affascinante e carismatico come Jean. E a dire il vero aveva pensato che la stesse prendendo in giro per almeno un quarto d'ora, sospettosa e ormai fin troppo abituata al modo in cui finiva sempre per attirare i sociopatici. Tanto valeva evitare di rischiare, no?
Come se tutto quello non fosse bastato a metterle il morale sotto le suole delle scarpe, il suo ultimo incontro con Sherlock le aveva dato il colpo di grazia definitivo. Non aveva la minima intenzione di socializzare, ma Jean... I suoi occhi color smeraldo e pieni di vita, il suo sorriso gioioso in grado di farla rilassare, la sua voce calda e i suoi modi da vero gentiluomo l'avevano fatta cedere.
Davanti a due pinte di birra, il biondo si era scusato per l'accento e le aveva confessato di essere francese, cosa che Molly aveva già notato e trovato alquanto strana, considerando che anche la ragazzina che aveva visto con Sherlock aveva origini d'oltremanica. Si era detta che era solo una coincidenza, doveva esserlo.
Jean si trovava a Londra per motivi di famiglia, ma ne stava anche approfittando per fare un po' il turista. Molly aveva risposto che lei non era mai stata in Francia e che avrebbe adorato visitare Parigi, così lui l'aveva buttata lì: «Se mi farai da guida, prometto che ricambierò il favore se mai verrai a Parigi».
L'aveva proposto con così tanta tranquillità, nemmeno un cenno di malizia, che l'anatomopatologa era stata sul punto di considerare l'offerta. Avrebbe di certo accettato se l'espressione triste di Sherlock non le fosse balenata davanti agli occhi come un rimprovero.
«Mi dispiace, non credo di essere la persona adatta», aveva risposto, e il ragazzo non aveva insistito. Si era semplicemente stretto nelle spalle, con un sorriso rammaricato. Questo a dimostrazione di quanto fosse stata priva di secondi fini la sua proposta.
Molly si era guardata - il maglione a righe, i pantaloni color cachi, le scarpe economiche - e si era chiesta cosa mai potesse aver spinto quel ragazzo tanto bello a sedersi al suo fianco, ad offrirle una pinta di birra e ad intavolare una conversazione. Alla fine non era più riuscita a trattenersi e grazie all'audacia che si ha solo con gli estrani gliel'aveva chiesto chiaramente.
Lui l'aveva fissata negli occhi, tanto stupito da rimanere persino con le labbra socchiuse. «Nessuna ragazza dovrebbe bere da sola, specialmente una come te».
«Una come me? Che significa?».
Jean aveva scrollato ancora le spalle, sorridendo. «Non posso dirlo, se non mi dai l'opportunità di conoscerti. Il fatto che tu me l'abbia chiesto, però, denota una scarsa autostima. Me ne domando il motivo...».
Anche Molly se l'era chiesto, molte e molte volte.
Tutte le persone che incontrava la sottovalutavano o non la reputavano importante, una donna da nì, e l'avevano sempre trattata tale, tanto che alla fine aveva finito per crederci. L'unico che l'aveva vista davvero, nella solutidine del laboratorio o dell'obitorio, era stato Sherlock. Come poteva non innamorarsene, dunque? Peccato che lui non fosse capace di amare, o meglio non volesse farlo.
Jean aveva capito più di lei in cinque minuti che molti suoi conoscenti in anni, per questo aveva alzato le barriere ed era scesa dallo sgabello, lasciando sul bancone una banconota di taglio sufficiente a coprire le loro ordinazioni. Lui aveva protestato, ma Molly era stata irremovibile e qualcosa nei suoi occhi doveva averlo convinto a lasciar perdere. Allora aveva infilato una mano nella tasca interna della giacca, aveva tirato fuori un cartoncino bianco e vi aveva scritto sopra il proprio numero di cellulare.
«Chiamami, se cambi idea sulla visita guidata».
Molly aveva preso il bigliettino, incredula. Di solito era lei a dare il suo numero, nella speranza che la richiamassero. Ore ed ore spese accanto al cellulare, in attesa di una telefonata. (E poi ne era bastata una, una di pochi minuti, per sbriciolare anche l'ultimo pezzo del suo cuore).
Jean aveva dato a lei la scelta: le aveva consegnato le proprie speranze e le aveva dato il potere di deciderne il destino. Avrebbe dovuto esserne felice, lusingata, eppure quel bigliettino le era pesato una tonnellata nella tasca del cappotto.
La seconda sveglia suonò e Molly riaprì gli occhi, si tolse il bigliettino dalla fronte e lo portò con sé in cucina. Col cestino aperto davanti a sè, la mano stesa verso l'oblio del sacco, si chiese quante volte fosse successo al suo numero. Tuttavia non poteva chiamarlo, non poteva fingere un'altra volta, illudersi di poter dimenticare l'unico amore della sua vita.
Gettò il bigliettino nella spazzatura e mise su l'acqua per il té.

***

Sherlock sbadigliò infilandosi nella vestaglia e scuotendo il capo maledisse quella stupida necessità fisiologica. Ogni traccia di sonno svanì quando le scoperte della notte appena trascorsa si ripresentarono, talmente chiare e semplici che Geneviève si sarebbe messa a ridere quando gliele avrebbe raccontate.
Forse ridere no, considerato che sua madre aveva pur sempre ucciso un uomo, ma sperava di poter alleviare almeno un po' il dolore che doveva patire nel chiedersi se fosse la figlia di un'assassina.
«Signora Hudson!», gridò, cadendo nella propria poltrona.
La padrona di casa si presentò poco dopo, dandogli il buongiorno con il solito di tè e dei biscotti allo zenzero.
«Sembri di buon umore questa mattina».
Il detective sorrise, mordendone uno. «Ho risolto un caso».
«Oh, mi fa piacere caro».
Gli versò una tazza di té e dopo averci soffiato sopra, Sherlock le chiese: «Potrebbe andare nella stanza di John a svegliare la nostra ospite?».
«Quale ospite?».
«Geneviève».
La donna aprì la bocca, poi la richiuse, guardandolo apprensiva. Era dura per il detective capire il motivo di certe espressioni, specie di prima mattina.
«Che c'è?», borbottò.
«Sherlock... Geneviève è una cara ragazza e so che non c'è alcuna malizia nel vostro rapporto, ma devo ricordarti che ha solo quindici anni? Che dorma qui, da sola, è sconveniente. Per non pensare a quello che scriverebbero i giornali, se si venisse a sapere!».
Il grande detective non ci aveva pensato, ovviamente. Aveva visto una ragazza triste e abbandonata dal padre, aveva visto l'opportunità di rendersela amica e conquistarsi la sua fiducia per impedirle di seguirne le orme, e le aveva offerto ospitalità. I giornali, il decoro... noiosi.
«Non lo farò più», mentì.
La signora Hudson annuì e salì al piano di sopra, nonostante l'anca dolorante. Sherlock sentì i suoi passi, come se girasse in tondo, e poi la sua voce confusa: «Ma qui non c'è nessuno!».
Il detective si precipitò su per le scale e trovò il vecchio letto di John sfatto, ma di Geneviève nessuna traccia.
«Devo smettere di dormire, devo smettere!», gridò con un diavolo per capello, tornando rumorosamente in salotto.

***

Geneviève raggiunse la propria suite per darsi una rinfrescata prima dell'incontro con suo padre, ma la tessera elettronica non funzionò. Scassinare quella porta era impossibile, a meno di manomettere i circuiti elettrici, perciò fece ciò che avrebbero fatto tutti in una situazione del genere: andò alla reception.
«Buongiorno», mormorò allungando sul bancone di mogano la key-card col logo del Savoy. «Non riesco ad entrare nella mia stanza. Deve essersi smagnetizzata».
Il receptionist le sorrise cordialmente, rispondendo: «No, signorina. Suo padre, ieri sera, ha dato istruzioni perché la disattivassimo».
Geneviève sentì il cuore sprofondarle nel petto. Suo padre era davvero arrabbiato, se aveva preso una decisione così estrema. Se quella notte non fosse rimasta da Sherlock, come le aveva ordinato, sarebbe tornata in hotel e avrebbe scoperto di non avere più un posto dove dormire. Cosa avrebbe fatto, allora?
«Si sente bene, signorina?».
«Sì», rispose, allontanando la mano dalla tessera elettronica. «Sa per caso dove posso trovarlo?».
Il receptionist controllò qualcosa sugli schermi che aveva di fronte, poi sorrise nuovamente. «Ha ordinato due colazioni in camera giusto qualche minuto fa».
La ragazzina lo ringraziò con un cenno del capo e si diresse verso l'ascensore dalle pareti dorate. Il viaggio sembrò durare ore, tant'era l'ansia che le stava mordendo lo stomaco brontolante. La sera prima non aveva mangiato granché, al ristorante di Angelo, e dubitava che avrebbe avuto la forza di fare colazione sotto gli occhi inquisitori di Arsène Lupin.
Finalmente le porte si aprirono davanti al corridoio dell'ultimo piano e Geneviève fu subito accolta da due guardie, le quali la scortarono davanti alla porta della Royal Suite. Uno dei due bussò e la passò in cosegna - proprio come un pacco - all'uomo di guardia all'ingresso, e via così, fino a quando non si trovò nella camera padronale. Baffoni la lasciò entrare e rivolgendo un piccolo inchino verso il suo capo si ritirò, lasciandoli soli.
Suo padre era ancora sdraiato a letto, con indosso una vestaglia di velluto verde chiaro e i capelli un po' spettinati che gli ricadevano sul volto. Il suo sguardo era fisso sul tablet che aveva tra le mani e Geneviève rimase ferma davanti alla porta fino a quando non si decise a guardarla, con un misto di indifferenza e delusione sul viso.
«Dormito bene?», le domandò atono.
Geneviève si tolse lo zainetto dalle spalle e lo lasciò cadere a terra. Provava l'irrefrenabile impulso di scoppiare a piangere, di lanciarsi su quel letto a baldacchino per stringerlo forte ed implorarlo di perdonarla, ma il suo atteggiamento freddo, quasi disprezzante, la costringeva a reprimere tutto quanto. Non poteva mostrarsi debole di fronte a lui, non dopo ciò che aveva fatto. Quale padre avrebbe negato un letto alla propria figlia?
«Abbastanza», rispose con voce ferma, i pungi stretti dietro la schiena.
«Io per niente». Arsène sollevò di nuovo gli occhi dal tablet. «Non ho chiuso occhio, ad essere onesti».
Geneviève voltò il capo, pronta ad incassare la ramanzina, ma la voce di suo padre si sciolse, trasformandosi in una carezza colma di dispiacere.
«Ieri ho esagerato. Mi sono lasciato travolgere dalle emozioni, devi perdonarmi».
Rilassò i pugni e guardò il Ladro Gentiluomo, il quale aveva le labbra strette in una smorfia e gli occhi velati di lacrime.
«Non ho idea di cosa dovrebbe fare un buon padre, Geneviève. Ma sto iniziando a capire ciò che si prova quando la propria figlia si allontana di nascosto, o fa qualcosa di incomprensibile. L'ansia, il timore... Non ho mai provato nulla di così forte in vita mia. E io sono sempre circondato da pericoli, lo sai».
A quel punto le era davvero difficile trattenersi: quel discorso a cuore aperto la stava facendo cedere. Ciò nonostante fece un ultimo sforzo mentre suo padre concludeva: «Adesso, a mente fredda, sono sicuro che tu abbia avuto le tue ragioni per liberare Sherlock Holmes e aiutarlo a fuggire. Ma ieri non ho potuto evitare di pensare che preferissi la sua compagnia alla mia, o che...».
«Tu sei mio padre», lo interruppe con ardore. «Ammetto che Sherlock Holmes ha una certa influenza su di me, ma tu... tu sei l'uomo che ho sempre voluto conoscere, l'uomo a cui voglio assomigliare».
Geneviève avvertì una nota stonata in quella frase, ma la ignorò e così dovette fare Arsène, commosso. Infatti si alzò dal letto e la raggiunse con poche falcate per stringerla in un abbraccio, sollevandola anche un poco da terra in una giravolta.
La ragazzina respirò profondamente, con le braccia avvolte intorno al suo collo. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai, tanto si sentiva protetta e amata, ma venne infranto da dei colpi alla porta.
Arsène la rimise coi piedi per terra e guardandola con tenerezza esclamò: «Avanti!».
Baffoni entrò con un carrello imbandito di prelibatezze: le due colazioni che aveva ordinato.
Geneviève, ora che tutto sembrava risolto, avvertì i morsi della fame. Qualcosa però gliela tolse di nuovo: il tablet che suo padre aveva lasciato sulla panca ai piedi del letto, su cui c'erano quattro diverse inquadrature della sua stanza. Si rifiutò di crederci, dicendosi che c'erano altre suite uguali alla sua. Ma perché Arsène avrebbe dovuto sorvegliarle? Ogni dubbio venne spazzato via quando vide se stessa mentre si toglieva l'accappatoio, indossava i vestiti per la fuga e poi, zainetto in spalla, usciva sul balcone per non rientrare più.
Ecco come aveva fatto suo padre a scoprirla così in fretta.
Si voltò verso di lui, sentendosi confusa e tradita, e quando anche lui si girò dopo aver richiuso la porta, ogni traccia del buon umore ritrovato sparì dal suo viso. Il suo sguardo seguì il dito che Geneviève puntava verso il tablet, poi si concentrò sulle lacrime che le avevano riempito gli occhi.
«Che cosa significa?», gli chiese, la voce tremante.
Arsène aprì la bocca, colto in fallo, ma impiegò solo un paio di secondi per sorridere con dolcezza. «Significa che hai un padre iperprotettivo, tesoro. Le ho fatte installare per la tua sicurezza personale».
La ragazzina deglutì e lo guardò a lungo, cercando di capire se stesse mentendo o meno. Ma come poteva farlo? Per quanto lei fosse brava a propinare bugie, era da lui che aveva ereditato quel gene; lui sarebbe sempre stato il maestro delle truffe e degli inganni, il più fedele seguace di Loki.
«Mi dispiace tesoro, ma era necessario», aggiunse, passandole accanto col carrello.
Forse era vero. D'altronde Sherlock stesso le aveva rivelato che Ganimard, l'ispettore che da anni cercava di arrestare suo padre - lo stesso a cui si erano rivolti per sapere di più in merito al caso del diamante azzurro - avrebbe fatto qualsiasi cosa, persino usare lei come esca, per mettere nella rete il pesce più grosso della sua vita.
O forse no. Forse suo padre, nonostante affermasse il contrario, non si fidava ancora completamente di lei e il suo intento era quello di sorvegliarla per evitare che potesse tradirlo.
Non c'era modo di scoprirlo e Geneviève, d'ora in avanti, avrebbe dovuto combattere su due fronti: aiutare suo padre a portare a termine il compito assegnatogli da Irene Adler, conquistandosi la fiducia di Sherlock Holmes, e poi agire contro di lui, alleandosi col detective, per scoprire chi fosse veramente e se, a quel punto, poteva fidarsi di lui.
Non sarebbe stata un'impresa facile, passare tra quei due fuochi senza mai scottarsi, ed era probabile che alla fine avrebbe dovuto prendere una posizione, tradendo inevitabilmente uno dei due, ma non poteva fare altrimenti.
«Allora», esclamò Arsène, svaccato di nuovo sul letto con una tazza di cioccolata calda in una mano e un muffin nell'altra. «Raccontami tutto, dall'inizio».
Geneviève sbatté gli occhi per spazzare via le lacrime e respirò profondamente, sedendosi ai piedi del letto. Era giunto il momento a cui si era preparata tanto, insonne nella vecchia camera del dottor Watson.
«Ieri, all'ospedale, mamma mi ha fatto venire una terribile nostalgia di casa», esordì, guardandosi le unghie mangiucchiate delle mani. «Era lì che volevo andare e non volevo che la scorta si facesse gli affari miei, perciò ho scelto di uscire ancora dalla finestra. Sono stata interrotta però, dai rumori provenienti dalla tua suite».
Arsène sorrise, muovendo una mano e riassumendo: «Sei venuta qui, hai trovato Sherlock Holmes legato e imbavagliato e hai chiesto di rimanere sola con lui. Qui non ho installato alcuna telecamera di sicurezza, non lo ritenevo necessario, perciò voglio sapere di cosa avete parlato».
«Di niente. Gli ho solo offerto il mio aiuto».
«Pro bono?».
«Beh, non proprio. Quello che volevo in cambio era la sua fiducia, ma non potevo chiedergliela direttamente. Così l'ho liberato, fingendo di essere dalla sua parte, e abbiamo inscenato quel sequestro perché potesse fuggire».
Arsène la fissò, soppesando le sue parole, e la ragazzina dovette concentrarsi al massimo per non far trasparire la verità, ovvero che in cambio aveva voluto il suo aiuto per scoprire la vera storia del diamante azzurro.
Alla fine suo padre sorrise entusiasta, gli occhi brillanti di eccitazione.
«Sono impressionato, tesoro. Hai fatto credere a Sherlock di non fidarti di me per avvicinarti a lui? Magnifica pensata! Ora lui pensa di averti dalla sua parte e si lascerà scappare qualcosa di più, si confiderà addirittura, non vedendo in te alcuna minaccia, quando invece... Oh, che spettacolo!», gridò, sfregandosi le mani.
Geneviève si sforzò di sorridere, spaventata dalla rete che stava tentendo.
«È bravissimo a tenere in piedi tutte le sue false identità e ad elaborare piani intricatissimi, ma a volte smette di vedere ciò che ha sotto il naso», aveva detto sua madre. Lei avrebbe fatto la stessa fine? Sarebbe finita nella sua stessa rete, troppo complessa ed intricata per una ragazzina di soli quindici anni?
«Vai avanti», la invitò, prendendo degli acini d'uva per lanciarseli in bocca.
«Ci siamo dati appuntamento al Waterloo Bridge e dopo le dovute spiegazioni, con le quali sono riuscita a convincerlo della mia sincerità, mi ha portata al ristorante di un suo amico. Lì ha incontrato Justin Ganimard».
Arsène rischiò di strozzarsi con un chicco d'uva. Geneviève fece per avvicinarsi, ma il padre tossì con violenza e tornò a respirare regolarmente. Quindi, con gli occhi fuori dalle orbite, strepitò: «È pazzo?! Se l'ispettore avesse un solo sospetto, uno solo, saresti nei guai fino al collo!».
«Me l'ha detto, ma ho insistito per rimanere ad ascoltare. Hanno parlato di te, ovviamente. Di vecchi casi mai risolti, in particolare di quello del diamante azzurro...».
Lupin si irrigidì e Geneviève si chiese se non avesse osato troppo. Tuttavia il suo interesse era troppo forte e doveva rischiare, se voleva ottenere qualcosa da lui.
«Si tratta dell'anello che hai dato alla mamma, non è così?».
Lui annuì con un impercettibile cenno del capo e lasciò la tazza sul carrello, per poi alzarsi e dirigersi verso la finestra, lo sguardo cupo rivolto verso il London Eye.
«Hanno detto che quel caso è stato diverso, che c'è stato un... un omicidio».
«Fandonie!», gridò, pestando un piede a terra.
«Ma loro hanno detto...».
Arsène si girò di scatto e la guardò in cagnesco, il labbro superiore arricciato sui denti in un ringhio. «Fai silenzio! Non voglio più sentirne parlare, ci siamo capiti?».
Quei repentini cambiamenti d'umore la turbavano sempre, tanto che si alzò e prendendo una mela dal carrello si diresse verso la porta, decisa a lasciarlo sbollire.
«Scusami», le disse piano, quando fu sulla soglia.
Geneviève lo guardò con la coda dell'occhio, trovandolo stanco e depresso come non l'aveva mai visto. Lo seguì mentre si lasciava cadere seduto sul bordo del letto, le mani a coprirsi il volto e poi a tirarsi indietro i capelli.
«Quel caso fa parte del passato. Il passato è morto per sempre; il passato non esiste», aggiunse, pronunciando quelle parole come una specie di filastrocca con lo scopo di tranquillizzare lui, piuttosto che la figlia. Le ripeté per un po', sempre più piano, fino a quando le sue spalle non si rilassarono nuovamente e sul suo volto tornò a splendere il sorriso. Quella volta palesemente finto.
«Vai pure, tesoro. Darò disposizioni perché la tua tessera venga riattivata», la congedò e la ragazzina non se lo fece ripetere due volte.
Chiuse piano la porta e si ritrovò davanti Baffoni, il quale le rivolse un'occhiata guardinga dicendo: «La tengo d'occhio, signorina».
Geneviève gli mostrò la lingua e poi lo superò, dando un morso alla sua mela.

***

Molly aprì il proprio armadietto per indossare il camice da laboratorio e nel tirarlo fuori una busta bianca cadde a terra. Se la rigirò tra le dita e il cuore le finì in gola leggendo il nome di Sherlock sul retro, scritto da una calligrafia femminile. Incuriosita, aprì la busta e al suo interno trovò due biglietti per lo spettacolo del Don Giovanni alla Royal Opera House e quello che sembrava proprio il pezzo di calendario mancante. Sherlock l'aveva strappato per scriverci sopra poche parole: "Un regalo da parte di Geneviève. Vacci con qualcuno che ti meriti e che non ti faccia soffrire. SH".
Molly si sedette sulla panchina alle sue spalle e si coprì il volto con le mani, sentendo le lacrime affluire agli occhi.
Allora lo sapeva, lo sapeva che la stava facendo soffrire. Quel bastardo.
Diceva anche di non meritarla, e forse era vero visto il modo in cui la trattava, ma Molly non poteva lasciarlo andare, non poteva nemmeno volendo.
Avrebbe voluto stracciare quei biglietti - di vedere un uomo che se ne andava in giro a conquistare donne non ne aveva granché voglia - ma invece si ripromise di restituirli alla stessa Geneviève, la quale aveva voluto fare da Cupido e aveva fallito miseramente.
Si alzò, si infilò il camice e fingendo che andasse tutto bene chiuse l'armadietto per iniziare a lavorare.

***

John salutò la figlia e poi la babysitter, quindi uscì di casa e saliti i gradini che lo portarono sul marciapiede rimase di stucco: la Porsche argentata di Arsène Lupin era parcheggiata lì davanti, scintillante come uno specchio e bellissima, e il suo proprietario era seduto sul cofano, che leggeva il Sun con aria assorta.
Quando si accorse della sua presenza gli rivolse un ampio sorriso e gettò il giornale in un cestino vicino, non prima però di averne strappato un articolo particolarmente interessante, che finì nella tasca interna del suo cappotto grigio.
«Buongiorno dottore», lo salutò avvicinandosi.
John si guardò intorno, circospetto, aspettandosi di notare gli uomini della sua scorta.
Lupin si mise a ridere, esclamando: «Sono solo io, dottore. Hai la mia parola».
«Come fai a sapere dove abito?».
«Questo non è rilevante», rispose con lo stesso tono annoiato di Sherlock, ma senza perdere il sorriso. «Chiedimi perché sono venuto».
John, abituato, non la fece troppo lunga e chiese: «Perché sei venuto?».
«Perché volevo farmi perdonare!». Lo affiancò e gli mise una mano sulla schiena, invitandolo ad avanzare senza paura verso l'auto sportiva. «Ultimamente ti sto rubando Sherlock e...».
«Non sono affatto geloso».
Arsène gli rivolse un'occhiata impietosita, come se la sua bugia fosse talmente ovvia da risultare imbarazzante.
«Quello che voglio dire è che volevo farmi perdonare, offrendoti quel passaggio che ti ho rifiutato l'altra mattina. Anzi, farò di più!». Tirò fuori dalla tasca del cappotto le chiavi e le fece dondolare davanti ai suoi occhi, con un sorriso eccitato sulle labbra. «Vuoi guidare tu?».
John ne fu tentato, molto tentato, ma all'ultimo momento rifiutò, scuotendo il capo. «No, grazie. Non devi farti perdonare, quello che fa Sherlock è affar suo, non mio. Prenderò l'autobus».
«Rifiuti il mio passaggio?», ripeté Arsène, sbalordito da come si stavano svolgendo gli eventi. Doveva essersi fatto un'idea diversa di lui.
John sorrise compiaciuto. «Esatto. Ma ti ringrazio per essere passato, mi hai evitato un viaggio fino al Savoy». Dalla tasca posteriore dei jeans tirò fuori il portafoglio, dove aveva conservato le banconote che Arsène gli aveva infilato nella giacca, come un prestigiatore, quando li aveva invitati a colazione.
«Questi sono tuoi», disse, porgendogli i soldi.
«La vincita della mia scommessa?», chiese il Ladro Gentiluomo. «Puoi - devi tenerli. Sono un regalo».
«Non li voglio».
L'uomo biondo lo fissò a lungo, facendolo sentire ancora una volta piccolo e insignificante. Poi la sua espressione cambiò, rivelando un profondo rammarico.
«Capisco», mormorò. «Dato che sospetti che io sia chi io sia - Arsène Lupin, il famoso ladro francese - non vuoi accettare nulla da me. Ecco che vuol dire avere una cattiva reputazione».
Arsène si infilò le banconote in tasca e poi saltò dentro l'abitacolo, girò le chiavi nel quadro d'accensione e il motore ruggì. Lo salutò portandosi due dita sopra il sopracciglio destro e con un piccolo sorriso, poi diede gas e partì con una sgommata.
John guardò le linee scure lasciate dalle gomme sull'asfalto e sospirò, ma non si pentì della sua decisione. Se Sherlock era convinto che quell'uomo fosse Arsène Lupin doveva fidarsi di lui. Che razza di migliore amico sarebbe stato, altrimenti?
Tirò fuori il cellulare ed iniziò a scrivergli un sms:

Ciao, volevo solo avv|

Cancellò tutto, consapevole che così scritto sarebbe finito direttamente nel cestino. (O almeno così diceva Sherlock. In realtà, era impossibile saperlo).

Arsène mi ha appena offerto un passaggio al lavoro.
Ho rifiutato.

Inviò e dopo un respiro profondo si avviò verso la fermata dell'autobus.

***

Arsène strinse forte il volante della Porsche, il viso contratto in un'espressione corrucciata.
Molly Hooper non l'aveva ancora richiamato.
John Watson non voleva avere nulla a che fare con lui.
Avrebbe potuto andare dalla signora Hudson, ma aveva come il presentimento che sotto le vesti dell'anziana padrona di casa ci fosse molto di più: se avesse provato a farle qualche domanda su Sherlock o su ciò che era successo al 221B un mese prima, probabilmente avrebbe fiutato puzza di guai e anche lei si sarebbe allontanata.
Tra gli amici più intimi del detective c'era l'ispettore Greg Lestrade e l'idea di entrare a Scotland Yard, nel cuore della polizia britannica, stuzzicava il suo lato più irriverente. I rischi però erano troppi e le percentuali di riuscita troppo basse. Avrebbe continuato a tenerlo d'occhio mantenendo le dovute distanze.
Tutti così leali... Sherlock se li era scelti bene. E lui che pensava che la solitudine fosse la miglior difesa!
«Dannazione!», berciò, picchiando una mano guantata di bianco sul volante.
La fortuna non era decisamente dalla sua parte e se non avesse avuto Geneviève, la quale stava facendo un ottimo lavoro nel diventare amica del consulente investigativo, non avrebbe avuto nulla in mano. Sperava solo che, al contrario di lui e nonostante la giovane età, riuscisse a tenere separati lavoro e sentimenti. Sarebbe stato un duro colpo se alla fine avesse davvero preferito Sherlock a lui, tanto duro che probabilmente non avrebbe più risposto delle proprie azioni.
Guardò l'ora sul proprio Rolex e, dato che era ancora presto per andare in ospedale, decise di fare visita al maggiore degli Holmes. Sarebbe stato scortese non salutarlo, dopotutto.

«Mon Dieu, Myc! Sei davvero in forma smagliante!».
Mycroft lo guardò con la coda dell'occhio, senza scomporsi, e pigiò qualche tasto sul tapis roulant, poi vi saltò giù e raggiunse il tavolino dove aveva lasciato un asciugamano e un integratore.
«Non ti chiedo nemmeno come tu sia riuscito ad entrare, Arsène».
Il biondo sorrise furbescamente, portandosi alle labbra il bicchiere di aranciata che si era versato da solo in cucina.
«Comunque grazie», aggiunse il maggiore degli Holmes.
«Ma figurati. Se vuoi, uno di questi giorni, possiamo fare qualche esercizio insieme. Al Savoy hanno una palestra davvero attrezzata».
«Sai perfettamente che preferisco la solitudine».
«Già... Ma ultimamente stai frequentando una donna, mi sbaglio?».
Mycroft lo fissò, cercando inutilmente di celare la sorpresa. Come poteva saperlo? Era stato attentissimo, tanto che nemmeno Sherlock era riuscito a dedurlo.
Arsène si fece più vicino, guardandolo maliziosamente. Sollevò una mano e fece correre due dita dalla spalla destra a quella sinistra, sussurrando: «Certe cose non ho bisogno di vederle... le percepisco».
«Questo è impossibile».
Il Ladro Gentiluomo incrociò i loro sguardi e si mostrò terribilmente offeso, fino a quando non riuscì più a reprimere una risata.
«E va bene, hai ragione. Ho solo visto che il tuo frigo era pieno e ho tirato ad indovinare. La tua espressione mi ha dato la conferma definitiva».
«Come puoi...?».
«Sull'anta ci sono appesi diversi volantini di ristoranti, segno che fino a qualche tempo fa rientravi a casa a tarda notte, da solo, e ordinavi cibo d'asporto. Ora però c'è una donna, perciò ti preoccupi che ci sia da mangiare nel caso in cui rimanga qui la notte e voglia fare colazione prima di andare al lavoro. Le uova, il bacon e i formaggi sono in scadenza, perciò presuppongo che non sia accora accaduto, ma è molto tenero da parte tua, Myc...».
Il fratello di Sherlock si ostinò a mantenere un atteggiamento superiore, per non dargli la soddisfazione di averci preso in pieno, e disse: «A che cosa devo l'onore della tua visita, Arsène? Tua figlia? Mi stupisce che tu ti sia fatto incastrare in questo modo...».
«Nessuno mi ha incastrato», rispose a denti stretti.
«Sicuro? Lo sai come sono i figli... Possono essere una rovina».
«Parli a nome dei tuoi poveri genitori?», ribatté, con un sorriso beffardo sul volto. «Lei è diversa, l'avrai notato anche tu. È il mio tesoro più prezioso».
Quindi si sedette con grazia sulla poltrona, le gambe accavallate, e si portò una mano sul mento perfettamente rasato, meditabondo.
«Comunque la mia è una semplice visita di cortesia, devi credermi. Dopotutto era da quando mi hai chiesto aiuto per prendere per la prima volta Moriarty che non facevamo due chiacchiere, vero?».
Mycroft socchiuse gli occhi al ricordo dello sforzo compiuto per abbassarsi a chiedere aiuto ad un ladro. E se pensava che a quel primo arresto erano succeduti i colloqui, le rivelazioni su Sherlock, il regalo di Natale a sua sorella Eurus...
Represse un brivido, ammettendo: «Ultimamente rimpiango spesso quella decisione».
«Anche io, in parte. Quell'uomo era ripugnante, Myc. Tutti i suoi giochi contorti,  le morti e il piacere che ne traeva... Ah, l'ho odiato dal primo momento! Ma c'è da dire che aveva un certo gusto nel vestire».
«Perché l'hai fatto, allora?».
Arsène corrugò la fronte. «Che domanda è? Noi siamo amici, Myc».
«Il mio nome è Mycroft», lo corresse, esasperato. «E no, non siamo nulla del genere: a te interessa solo Sherlock».
«Sei geloso, per caso? Devo ricordarti che sei stato tu a metterlo sulla mia strada? E non dirmi che è un altro dei tuoi rimpianti».
«Questo non posso farlo», ammise Mycroft, tamponandosi nuovamente il viso sudato con l'asciugamano che aveva intorno al collo. «Per quanto mi costi ammetterlo, è anche merito tuo se Sherlock è diventato ciò che è oggi».
Arsène sorrise, gongolante, e guardò il soffitto. «Ah, eravamo così giovani...».
Mycroft, spinto dalla curiosità, tornò sull'argomento Moriarty: «Sul serio, perché accettasti di aiutarmi ad arrestarlo? Dimmi la verità, prometto che rimarrà tra di noi».
Il ladro perse ogni traccia di sorriso, si alzò dalla poltrona e sistemandosi il nodo della cravatta si schiarì la gola. «E va bene», esclamò con tono pacato. «Posso dire che ho sfruttato alcuni dei suoi affari per mettere le mani su certe cosucce».
«I suoi facevano il lavoro sporco e tu derubavi le vittime senza lasciare il tuo bigliettino da visita».
«Non potevo di certo farmi una simile pubblicità! Ho una reputazione da difendere!».
Mycroft scosse il capo, quasi con delusione, e gli diede le spalle per guardare fuori dalle ampie vetrate. «Dici a te stesso di essere diverso, ma in realtà sei come tutti gli altri: un criminale».
Arsène strinse forte i pugni lungo i fianchi, rosso di rabbia.
«Non capisco che cosa abbia visto in te il mio fratellino, o per quale motivo si sia così interstardito sul volerti redimere. Tutto tempo sprecato».
Al silenzio del ladro, l'Holmes più grande si voltò a guardarlo e lo trovò a capo chino, come un bambino che è appena stato scoperto a rubare caramelle e ne è profondamente dispiaciuto.
«Sai, Mycroft», sussurrò dolcemente. «Avevi ragione, prima, quando hai detto che noi due non siamo amici. Non mi sei mai piaciuto, ma anche io, proprio come Sherlock, ho la testa dura. Ogni volta penso di poter scorgere qualcosa di buono in te, ma fallisco. È frustrante, lo sai?». Alzò finalmente gli occhi, dispiaciuti e ridenti allo stesso tempo. «Non sono abituato a perdere. Tuttavia, non mi dispiace. Vincere sempre e in ogni caso finisce col diventare fastidioso».
Si avvicinò nuovamente e lo fronteggiò, i loro volti tanto vicini da scorgere ognuno le particolarità delle iridi dell'altro.
«Ma ci riuscirò, prima o poi. Riuscirò a scalfire la tua corazza, Mycroft Holmes».
«A quale scopo?».
«Per dimostrarti che Sherlock vale tanto quanto te, se non di più. Per farti ammettere che lui non ha sbagliato sul mio conto, che il suo volermi redimere non è tempo sprecato».
«Se quel giorno arriverà, sarò felice di ammettere di essermi sbagliato», rispose Mycroft, sorridendo.
Arsène ricambiò e si voltò per uscire da dov'era entrato. Sulla soglia però si fermò e con l'atteggiamento incurante di chi era abituato a fare domande a cui non servivano risposte disse: «Chi ha fatto esplodere l'appartamento di Sherlock?».
Il maggiore dei fratelli Holmes dissimulò la sorpresa che gli aveva ghiacciato il sangue nelle vene e rispose con tranquillità: «Nessuno. È scoppiata una bombola del gas».
Il ladro gli rivolse un sorriso sornione, facendo schioccare la lingua contro il palato. «Questa è la versione data alla stampa, Myc. Sei sempre stato bravo ad insabbiare la verità, mi domando perché questa volta tu abbia fatto un lavoro così approssimativo».
Mycroft non rispose e Arsène, con gli occhi fulgidi per l'eccitazione, aggiunse: «Non c'era tempo a sufficienza per inventare una storia migliore?».
«Ti sbagli».
«Forse. D'altronde la mia è stata una perizia fatta su due piedi. Non ho avuto modo di cercare prove, ho colto solo quello che ho potuto, e sono giunto alla conclusione che la storia della bombola del gas difettosa non sta in piedi».
Il ladro si appoggiò allo stipite della porta con la schiena ed incrociò le braccia al petto. Riprese a parlare tenendo gli occhi chiusi, con un sorrisino soddisfatto sulle labbra.
«Vuoi un esempio? Se l'esplosione fosse davvero stata causata da una bombola del gas la cucina sarebbe stata distrutta, invece qualcosa si è salvato. Inoltre, quando sono stato invitato dalla signora Hudson per un tè, ho notato delle crepe sul soffitto della sua cucina, la quale si trova proprio sotto il salotto di Sherlock. Capisci dove voglio arrivare?».
«Le crepe potevano esserci già».
Arsène fece spallucce. «Forse. Ti farò un altro esempio allora: se fosse stata una bombola del gas difettosa come avrebbe fatto Sherlock a sapere esattamente il momento in cui sarebbe esplosa? Alcuni testimoni oculari sono convinti che il caro dottor Watson e il nostro amato Sherlock hanno sfondato le finestre appena prima dell'esplosione, non a causa della stessa. Trovi tutto su Twitter».
Mycroft sospirò, consapevole di non poter in alcun modo controbattere alla logica schiacciante dei suoi ragionamenti.
«Perché vuoi saperlo?», gli chiese.
Il ladro gli rivolse un sorriso divertito. «Mi piace giocare al detective nel tempo libero».
«Lascia perdere, Arsène».
«Sai che non succederà», rispose scrollando un poco le spalle.
«È una perdita di tempo».
«Anche cercare la perla dei Borgia, eppure l'Interpol non si è ancora arresa».
Mycroft alzò gli occhi al cielo. «Ce l'hai tu».
Il Ladro Gentiluomo alzò le mani, ma non si voltò per mostrargli il ghigno che gli incurvava le labbra. «Io so solo che Moriarty l'ha venduta a qualcuno che non se ne separerà facilmente».
«Capisco», sospirò Mycroft. «Arrivederci, Lupin».
Arsène si sollevò un cappello invisibile e se ne andò, silenzioso com'era arrivato.
Il maggiore degli Holmes si tolse l'asciugamano dalle spalle per gettarlo sulla poltrona, poi recuperò il cellulare e una volta di fronte alle finestre che davano sul bellissimo e curato giardino scrisse un breve sms.

Arsène è venuto a porgere i suoi omaggi.
Fa' attenzione, fratello mio.
MH

***

Sherlock rilesse i messaggi ricevuti da John e da Mycroft ed abbozzò un sorriso vittorioso. Arsène non aveva più molti assi nella manica se si stava già muovendo tra i suoi conoscenti nel tentativo di spillare loro qualche informazione utile.
Immaginava la sua frustrazione nell'incontrare muro dopo muro e se ne beò.
John, Lestrade, la signora Hudson... non lo avrebbero mai tradito ed era grato di avere degli amici del genere.
L'aveva evitato di proposito, ma il nome di Molly era impossibile da ignorare, tant'era doloroso. Era possibile, se non praticamente certo, che Arsène avrebbe cercato di entrare in contatto anche con l'anatomopatologa - specie se Geneviève lo aveva tenuto informato come sospettava, - ma non poteva scriverle solo per chiederle se avesse conosciuto persone nuove. L'avrebbe mandato al diavolo, poco ma sicuro. Doveva semplicemente fidarsi di lei e del suo istinto, come sempre.
Quindi entrò nella rilassante hall del London Bridge Hospital ed incrociò subito lo sguardo attento di una delle guardie di Lupin, la quale lo avvicinò chiedendogli il motivo della sua visita.
«Devo vedere Geneviève».
«Temo non sia possibile, monsieur».
«Avvisatela che sono qui, sono certo che mi riceverà».
L'uomo della scorta arretrò di qualche passo ed attese per qualche minuto accanto all'ascensore. Quando le porte si aprirono rivelarono il secondo in comando della banda di Lupin, il maggiordomo che aveva tra i suoi compiti principali quelli di badare alla ragazzina bionda.
«Venga pure, signor Holmes», gli disse, stendendo un braccio verso di lui.
Sherlock lo raggiunse nell'ascensore e una volta soli lo fissò con attenzione, notando che portava l'orologio al polso destro perché sul sinistro erano visibili delle cicatrici da ustioni. Si domandò come se le fosse procurate e se Arsène c'entrasse in qualche modo, ma continuando con la propria analisi si infastidì non trovando nulla che potesse fargli dedurre il motivo per cui il Ladro Gentiluomo si trovava a Londra.
Le sue scarpe erano pulite, perciò era rimasto al chiuso per tutta la mattina.
O Lupin aveva messo in punizione sua figlia, permettendole di uscire solo per andare a trovare sua madre, oppure era proprio vero che il suo unico compito era quello affidatogli da Irene Adler.
Quella donna... Maledetto lui e il giorno in cui l'aveva incontrata. Però forse avrebbe dovuto ringraziarla: era merito suo se Arsène era tornato sulla scena, portandosi dietro la sorella e la nipote segreta di Mary.
Le porte dell'ascensore si aprirono sul corridoio e il suo sguardo si posò immediatamente sulla ragazzina, in piedi davanti alla porta della stanza di sua madre. Si dondolava sui talloni e si stringeva le mani, sopraffatta dal nervosismo. Da quanto tempo era lì, incapace di prendere la maniglia ed affrontare quella pagina censurata del passato di sua madre?
Sherlock avanzò fino a trovarsi al suo fianco e le posò una mano sulla spalla. Geneviève trasalì ed alzò gli occhi grandi e lucidi nei suoi. Dalle occhiaie, il detective capì subito che non aveva dormito quella notte. Si era girata e rigirata nel vecchio letto di John, afflitta da mille e più pensieri.
La fitta che provò all'altezza del cuore, vedendola ridotta a quel fascio di nervi, lo colse ancora una volta di sorpresa.
«Avanti», sussurrò. «Risolviamo questa faccenda».
La ragazzina si fece forza ed annuì. Quindi, prima di ripensarci, afferrò con decisione la maniglia e spalancò la porta. Si bloccò di nuovo però, quando sua madre le rivolse un pallido sorriso dicendo: «Finalmente sei arrivata, tesoro».
Geneviève la guardò con gli occhi colmi di lacrime ed arretrò di un passo, finendo a sbattere contro il detective.
«Gen, che cosa c'è? Stai male?», le domandò ancora, con apprensione, puntellandosi sui gomiti per tirarsi su.
La ragazzina si girò verso Sherlock e mormorò: «No... No, non posso farcela».
Lui l'afferrò per le braccia e si chinò un poco perché i loro occhi fossero allo stesso livello. «Devi. Non si può preferire una bugia alla verità, anche se fa male».
«Non ci riesco...».
«Ci sono qui io».
Gli era uscito così, automaticamente. E Sherlock non se ne pentì, nemmeno un po'. Figlia di Lupin o meno, con lui o contro di lui... quella che aveva davanti era una ragazzina di quindici anni, troppo piccola per affrontare da sola una verità simile. Lui, grande abbastanza per processare il dolore, ne era stato quasi dilaniato alla scoperta che sua sorella aveva ucciso il suo migliore amico d'infanzia. Il fatto che lei fosse lì, senza aver versato ancora una lacrima, era già molto più di quello che avrebbe fatto lui alla sua età.
Geneviève rilassò le spalle ed inspirò, riprendendo il controllo di sé. Poi tornò a voltarsi verso la madre e con coraggio la raggiunse, sedendosi sulla sedia accanto al letto. Era davvero straordinaria.
Sherlock chiuse la porta alle sue spalle e chiese scusa agli uomini, compreso Baffoni, quando tirò giù la veneziana in modo che non potessero leggere nemmeno il loro labiale attraverso il vetro.
«Mi volete spiegare che cosa sta succedendo?», chiese la donna, sempre più agitata.
Il dective si girò ed unì le mani dietro la schiena, esordendo: «Clotilde Destange».
Geneviève lo guardò confusa, ma le bastò notare il pallore sul volto della madre per capire che era quello il suo vero nome.
«Una ragazza intelligente, il più giovane architetto dello studio "Lucien Architecture". Aveva una carriera brillante davanti a sé, eppure dopo la faccenda del diamante azzurro si è licenziata ed è partita, senza dare troppe spiegazioni. La stessa settimana, un altro giovane architetto, di nome Maxime Bermond, ha smesso di presentarsi al lavoro. Era talmente ovvio che non capisco come la polizia francese non ci sia arrivata».
«Maman», sussurrò Geneviève, prendendole le mani tra le sue. «S'il te plaît».
«Non ha senso negare ancora», aggiunse Sherlock, afferrando la sponda ai piedi del letto. «Dica a sua figlia la verità, o lo farò io».
La Donna Bionda guardò la ragazzina, lasciando che le lacrime le rigassero il volto sciupato. «Perché? Il passato è morto per sempre; il passato non esiste».
Geneviève fu scossa da un brivido a quelle parole e Sherlock, deciso ad andare fino in fondo, prese ancora una volta le redini della conversazione.
«E va bene. Riprendendo in mano i casi in cui è comparsa la Donna Bionda - l'affare Gerbois, la morte di Hautrec e il furto a villa Crozon - mi sono reso conto che tutti e tre avevano qualcosa in comune: le case».
«In che senso le case?», domandò Geneviève.
«Gli autori dei colpi, ovvero Arsène Lupin e la misteriosa Donna Bionda, riuscivano sempre a scappare senza lasciare alcuna traccia. Addirittura, nel caso dell'ambasciatore, sono riusciti ad uscire e rientrare per cancellare le prove lasciate dall'assassina».
«La prego», singhiozzò la donna. «Si fermi».
«E non dimentichiamoci che, come ha detto il buon Ganimard, Arsène voleva che il diamante messo all'asta finisse alla signora Crozon, tanto da mandare la Donna Bionda a minacciare l'altro acquirente, il miliardario Herschmann. Partendo da questo presupposto, ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto che tutte e tre le case avevano subìto dei lavori di ristrutturazione».
«Tutti progettati dallo studio "Lucien Architecture"», trasse le fila Geneviève, sconcertata dalla semplicità della soluzione.
Gli occhi di Sherlock brillarono d'orgoglio, mentre aggiungeva: «E progettati da Clotilde Destange e Maxime Bermond, meglio conosciuti come la Donna Bionda e Arsène Lupin».
La ragazzina cercò nella madre una qualsiasi traccia di innocenza, ma la donna non provò nemmeno a negare: chiuse semplicemente gli occhi, ormai consapevole di non poter più sfuggire al passato che credeva morto.
Allora si alzò dalla sedia e barcollò, sentendo il mondo crollarle sotto i piedi. «No, tu... tu non puoi... Non... non sei un'assassina, mamma. Dimmi che non lo sei».
Sherlock la raggiunse e le tappò la bocca prima che potesse gridare, dando un pretesto alla scorta di Lupin di entrare.
«Non lo è», le sussurrò, ripetendolo più volte perché se ne convincesse e smettesse di dimenarsi tra le sue braccia. Il suo corpo era caldo, come se stesse bruciando dall'interno.
«Glielo dica», ordinò alla donna, guardandola con rabbia. «Ha bisogno di sentirlo dire da lei».
«Perché?», ripeté Clotilde, per poi sollevare i palmi verso l'alto. «Queste mani hanno ucciso, non importa come o perché».
«Lo so. Mi creda, lo so bene», ammise pacato Sherlock, pensando a Magnussen. «Per lei è e sarà sempre così, non potrà mai dimenticare. Ma Geneviève... può consolarsi, sapendo come sono andate veramente le cose».
Madre e figlia si scambiarono un lungo sguardo, al termine del quale la complice di Lupin scosse il capo. Geneviève si portò le mani tra i capelli, disperata.
«Va bene, dirò io anche questo», si assunse quell'ennesima responsabilità Sherlock. «Mi correggerà, se l'idea che mi sono fatto è imprecisa».
Quindi voltò la ragazzina verso di sé e la guardò dritta negli occhi, scandendo bene le parole: «È stata legittima difesa».
«Come puoi dirlo?», replicò, tremando e tirando su col naso. «Se nemmeno lei lo ammette...».
«Vive con questo tormento da tutta la vita. Il suo silenzio è la punizione che si sta infliggendo, pur sapendo che non sarà sufficiente. Nulla sarà mai sufficiente...».
«Il vecchio Hautrec soffriva di alzheimer», disse finalmente la Donna Bionda, deglutendo. «Era sempre stato un uomo d'animo violento, ma con l'avanzare della malattia questa sua natura smise di essere un segreto. Arsène... Arsène voleva a tutti i costi il diamante azzurro, così mi creò la falsa identità di Antoinette Bréhat e mi fece assumere come infermiera privata da Charles Hautrec. Io non volevo, avevo paura che quel vecchio potesse aggredirmi, ma amavo tuo padre a tal punto che per renderlo felice accettai. Studiammo le abitudini dei due fratelli e quando fummo pronti ad ogni eventualità, decidemmo di intervenire».
«E qualcosa andò storto», intervenne Sherlock, il quale fino a quel momento aveva avuto ragione su tutti i fronti.
La Donna Bionda si sporse verso il comodino e Geneviève l'anticipò, versandole un bicchiere d'acqua. Le sue mani tremavano, perciò l'aiutò a bere un sorso, per poi rimanere seduta al suo fianco mentre continuava il suo racconto.
«Quella notte aspettai che il vecchio Hautrec fosse profondamente addormentato e tornai nella sua stanza. Gli stavo sfilando con cautela l'anello, quando iniziò a tossire convulsamente. Si svegliò e io cercai di rassicurarlo, ma lui non mi riconobbe. Come avevo temuto tante e tante volte, perse il controllo e mi aggredì. Ci fu una colluttazione e caddi contro il bordo della scrivania, ferendomi alla fronte. Non svenni però, ero troppo determinata a salvarmi. Sulla stessa scrivania trovai il tagliacarte e ancor prima che potessi rendermene conto il vecchio Hautrec era a terra, in una pozza di sangue. A quella vista fui io a perdere il controllo e senza pensare alle conseguenze premetti il pulsante d'emergenza collegato alla camera di Charles Hautrec».
«Subito dopo è arrivato Arsène», continuò per lei Sherlock. «L'ha nascosta e poi ha fatto in modo che Charles rimanesse chiuso fuori, tagliando le comuncazioni. In quel breve lasso di tempo, lui e alcuni membri della sua banda sono entrati e hanno pulito e risistemato tutto secondo le sue direttive. L'anello è finito in secondo piano».
«Esatto», mormorò, togliendoselo dal dito per osservarne la brillantezza alla luce delle lampade al neon. «Sai per quanto tempo l'ha tenuto?».
Geneviève guardò Sherlock, scoprendo che stava parlando con lei.
«Chi, papà?».
Clotilde annuì. «Quando siamo riusciti a rubarlo alla signora Crozon l'ha tenuto per due giorni, rimirandolo e vantandosene con tutti. Poi ha trovato un buon acquirente e l'ha venduto. Io avevo ucciso per quest'anello. In esso c'era un pezzo della mia anima e lui l'ha venduto senza pensarci su due volte. Quando gli confessai il mio tormento, mi disse che il passato era morto, il passato non esisteva».
«Ha detto la stessa cosa questa mattina, quando ho provato a parlargliene», disse Geneviève, ricevendo un'occhiata ammonitrice da parte del detective.
Perché aveva corso quel rischio inutile? Forse voleva la sua versione dei fatti, oppure sapere se avrebbe difeso sua madre dall'accusa di omicidio.
«Lo ripeteva sempre, ma si sbagliava», sussurrò la madre, con altre lacrime a rigarle le guance. «Rimasi con lui ancora per un po', fino a quando non scoprii di aspettare te. Lui non lo sa, ma è anche per questa storia che lo lasciai. Quando lo conobbi come Maxime fu un colpo di fulmine, ma quando mi rivelò la sua vera identità... diavolo, non riuscivo a pensare ad altro. Ero entusiasta all'idea di vivere sempre al limite, in incognito... come mia sorella».
Sherlock si pietrificò. Era certo che Clotilde non avesse idea del lavoro di Mary. Arsène gli aveva detto... Ma perché avrebbe dovuto fidarsi delle sue parole, dopotutto? Era possibile anche che nemmeno lui lo sapesse, che Clotilde avesse mantenuto il segreto per tutti quegli anni.
«Non sapevo avessi una sorella», esclamò Geneviève e per fortuna non si girò, o avrebbe scoperto che Sherlock glielo aveva nascosto.
«I nostri genitori morirono quando eravamo piccole e dopo essere state in orfanatrofio venimmo adottate da due famiglie diverse. Io divenni Clotilde Destange, mentre lei... beh, non ha importanza. Lei era la maggiore, perciò periodicamente mi mandava dei messaggi in codice per controllare se stessi bene. Mi rivelò che era diventata una spia internazionale, che non poteva dirmi di più per ragioni di sicurezza. E io ero così orgogliosa di lei...».
Geneviève sorrideva, finalmente, e quel sorriso fece sanguinare Sherlock peggio di una pugnalata. Girò il coltello nella piaga, quando disse: «Sembra forte».
Clotilde le sorrise e le accarezzò il volto. «Le assomigli molto, tesoro».
«E lei sapeva di te e papà?».
«No, non gliel'ho mai detto: l'informazione era troppo scottante. Ma era intelligente. Hai visto quanto ci ha messo Sherlock Holmes, pur non sapendo quale fosse il mio nome? Lei lo sapeva, perciò non dubito che ad un certo punto abbia fatto due più due. Non abbiamo mai messo di scriverci, nonostante Arsène me l'avesse proibito, e non mi ha mai chiesto nulla in proposito».
«Quand'è stata l'ultima volta che l'hai sentita?».
«Mi scrisse un anno e mezzo fa. Voleva farmi sapere che aveva una vita normale, che aveva trovato l'amore e che si sarebbe sposata».
«Se entrambe non correvate più pericoli, allora perché non vi siete incontrate?».
«La malattia, tesoro. Non volevo mi vedesse in questo stato, per questo non le ho mai risposto».
«Ma lei merita di sapere! Di salutarti almeno un'ultima volta! Non ho ragione, Sherlock?».
Geneviève si era voltata verso di lui, ma il dective non poteva vederla. Pensava a Mary, alla stessa Mary che si era sacrificata per salvargli la vita e che aveva celato l'esistenza di sua sorella - una delle complici di Lupin! - persino a John.
«Sherlock?», lo richiamò la ragazzina. «Ti senti bene?».
Il detective si ricompose e replicò secco: «Penso che spetti a tua madre decidere».
La ragazzina non ne fu contenta ed iniziò ad elencare le proprie ragioni, mentre Clotilde Destange lo fissava intensamente. Ad un tratto abbozzò un sorriso malinconico e prese una mano alla figlia per baciarne il dorso.
«Tesoro», la interruppe dolcemente. «Ripensare a quella vecchia storia mi ha stancata molto. Vorrei riposare un po', prima che arrivi tua padre».
Geneviève parve notare solo in quel momento la sua assenza, ma non ne fece un dramma ed obbedì alla madre, scendendo dal letto per stringerla in un delicato abbraccio.
«Je t'aime, maman», le disse, posandole anche un bacio sulla fronte.
Clotilde fu sul punto di scoppiare di nuovo a piangere, tuttavia riuscì a trattenersi e a ricambiare l'affetto della figlia scompigliandole i capelli e baciandole le guance.
Geneviève e Sherlock fecero per uscire dalla stanza, ma la Donna Bionda chiamò il detective. Vedendo la figlia esitare sulla soglia, le chiese di lasciare loro due minuti di privacy.
Il consulente investigativo chiuse di nuovo la porta, ma non lasciò mai la maniglia, come se volesse avere la certezza di poter andarsene in qualsiasi momento.
Clotilde gli fece un'unica domanda: «È morta, non è vero?».
La sua reazione di poco prima, assieme alle parole che le aveva rivolto quando si erano conosciuti, l'avevano tradito.
Sherlock abbassò il capo e fu eloquente come una risposta.
«Mi prometta solo una cosa».
«Non sono bravo con le promesse».
Clotilde gli lanciò con una smorfia il diamante azzurro e Sherlock lo afferrò al volo, stupito. L'aveva definito un pezzo della sua anima... perché gliel'aveva affidato?
«La tenga al sicuro, signor Holmes. Se non vuole farlo per me, lo faccia per Mary».
Il detective strinse le dita intorno al diamante azzurro e si portò il pugno al petto, annuendo con solennità. Quindi lo ripose nella tasca del cappotto ed uscì dalla stanza senza più voltarsi.
Geneviève non si era nemmeno seduta e non appena lo vide gli si piazzò davanti, tartassandolo di domande su quanto si erano detti in privato.
«Mi ha solo chiesto se avevo intenzione di denunciarla», le mentì.
Gli occhioni della ragazzina si ingrandirono ancora un po'. «E tu cosa le hai detto?».
«Che non lo farò. Non merita di finire in prigione per legittima difesa, specialmente ora che sta...».
Sherlock si ammutolì, improvvisamente stretto dalle braccia di Geneviève. La sua fronte, posata contro la sua spalla, fu come un balsamo che lenì la ferita ancora aperta sul suo cuore. Ciò nonostante non ricambiò l'abbraccio ed aspettò semplicemente che lo lasciasse.
Quando lo fece, la ragazzina bionda gli rivolse un sorriso a trentadue denti e disse: «Grazie per aver mantenuto la parola».
Sherlock sorrise, quello sì, felice di esserci riuscito per una volta.
«Andiamo a mangiare qualcosa? Questa mattina ho preso solo una mela».
Geneviève non attese una risposta e lo trascinò verso l'ascensore, mentre Sherlock pensava a quello stupido detto sulle mele e i dottori. Questo lo portò inevitabilmente a pensare a John, con il quale avrebbe dovuto fare una bella chiacchierata il prima possibile. Si era detto che forse avrebbe potuto evitargli un altro dolore, tenendo per sé la scoperta della sorella di Mary, ma la verità era che non spettava a lui decidere. E prima che fosse troppo tardi, avrebbe dovuto dirglielo. 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: _Pulse_