Videogiochi > Ensemble Stars
Segui la storia  |      
Autore: Suzerain    03/10/2017    1 recensioni
Ci sono istanti in cui l'acqua si increspa, e infrangendosi contro le rocce diviene spuma. Saggia l'essenza della libertà, il sapore che caratterizza le storie di cui ode i racconti sin dall'inizio nel mondo; e poi la corrente la trascina, e lei torna ad essere ciò che è sempre stata, prigioniera di una litania che non avrebbe mai avuto fine. Ancora. Ed ancora, ed ancora.
{alternative!universe | leo/izumi – presenza di altre coppie}
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izumi Sena, Leo Tsukinaga
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Titolo: Takane no Hana.
Autrice: Suzerain.
Fandom: Ensemble Stars (あんさんぶるスターズ).

Rating: Giallo, per questo capitolo. Il rating potrebbe aumentare con il proseguire della storia.
Pairing: Leo/Izumi; presenza di altre coppie, sebbene accennate.
Personaggi per questo capitolo: Izumi Sena, Arashi Narukami, Ritsu Sakuma, Leo Tsukinaga (accennato).
Desclaimer: I personaggi di Ensemble Stars (あんさんぶるスターズ) non mi appartengono, essendo sotto il copyright della Happy Elements. Il qui presente scritto non ha fini di lucro, e le situazioni narratevi sono di mia proprietà, così come l'icon utilizzata nelle note autore.
La storia deve il suo titolo al proverbio giapponese 高嶺の花, traducibile come "Un fiore su di un precipizio". La citazione che apre il capitolo ivi presente, appartiene a Chuuya Nakahara ed è tratta dalla sua raccolta Yagi no Uta (山羊の歌), in italiano tradotto come "I poemi della capra".
Ambientazione: Alternative!Universe.
Note dell'autrice: Sono emozionata all'idea di cominciare un progetto così lungo, giacché è forse la prima volta nella mia carriera di fanwriter in cui mi imbarco in un'impresa così colossale con l'intenzione di portarla a termine.
Ci sono alcune cose in questo prologo che, se devo essere sincera, non mi convincono appieno. Penso di avere ancora molta strada da fare per quanto riguarda le descrizioni di ambienti, ad esempio, così come per i dialoghi, che prima di questo momento non ho mai trattato con attenzione – li trovo a tratti sin troppo macchinosi, ma confido che quest'esperienza possa aiutarmi a migliorare anche in questa mia carenza.
La storia che vorrei proporre è particolare, così come particolari sono l'ambientazione ed i temi trattati. In questo prologo ho soltanto lasciato accenni qua e là, ma spero ugualmente di riuscire ad incuriosirvi il tanto necessario a proseguire con la lettura, e, se vi va, sostenermi in un'impresa che sino a pochi anni fa avrei considerato impossibile. Grazie di essere qui, e anche solo di aver aperto questo link! (L).



 

«Una volta credevo
che le poesie d’amore fossero sciocche.»
Nakahara Chuuya, I poemi della capra.




La musica risuona tutt'intorno a lui. E' alta e riecheggia tra le pareti sottili, accompagnata dal riso di persone che non avrebbe mai più rivisto, ma che aveva l'impressione si presentassero a lui ogni volta, ogni notte. Nel loro essere differenti sono ugualmente sguaiate. Rispettabili uomini d'affari, padri di famiglia o facoltosi stranieri in visita in Giappone – personalità influenti che appartengono a quella realtà più di quanto l'opinione pubblica immagini; ai suoi occhi, sono tutti uguali.
Si abbandonano come qualunque altro mortale ai piaceri della carne e del vino, assieme a persone assai più umili e per l'occasione tirate a lustro. Sono i loro sguardi a tradirle, incapaci di celare ciò che fanno i costosi abiti presi forse in prestito; colmi di meraviglia, si beano di un'effimera bellezza da tempo dimenticata. Riesce a vederle, se chiude gli occhi. Il desiderio che le anima e l'idillio normalmente interdetto cui si abbandonano, danzando al ritmo di una musica che cambia ogni volta e concedendosi di scivolare nel vortice caotico di una notte di pura e sola follia, all'ombra di un'arte che fiorisce nel Sol Levante per la prima volta.
Ha fatto la storia in Europa, influenzando il lavoro di uomini i cui nomi sarebbero rimasti eternamente scolpiti sulla stele del tempo; l'arte di Toulouse e di Satie, la ricerca della bellezza nella semplicità che anima le piccole cose. In quel locale, rinasce per poche ore ogni volta che il Sole tramonta. Ed è come vivere nella Parigi che fu, all'ombra di quei nomi che riecheggiano nella sua testa, tante le volte che ha udito il nominarli mentre sorrideva con morbidezza ed ascoltava soltanto perché suo dovere fa
rlo.
Izumi andava avanti così, onde contro uno scoglio.

Ci sono istanti in cui l'acqua si increspa, e infrangendosi contro le rocce diviene spuma. Saggia l'essenza della libertà, il sapore che caratterizza le storie di cui ode i racconti sin dall'inizio nel mondo; e poi la corrente la trascina, e lei torna ad essere ciò che è sempre stata, prigioniera di una litania che non avrebbe mai avuto fine. Ancora. Ed ancora, ed ancora.
Ancora s'incresperà, e di nuovo si allontanerà. Ma mai il libero arbitrio le sarebbe appartenuto.
La corrente è forte, e lui è stanco. La corrente è forte, e le sue braccia non riescono a percorrerla.
E' come le onde: non avrebbe mai abbandonato la sua prigione. E così, ascoltava e basta; analogie di cui non gli importava davvero, racconti sulla bellezza di luoghi che non avrebbe mai visto e della fantasia di artisti lontani, di cui non restano nemmeno polvere ed ossa. Così annuiva e basta, attendendo che alle parole andassero a sostituirsi gesti che non poteva rifiutare, mani ad accarezzare quella pelle che desiderava ogni volta perdesse la facoltà di percepire.
C'è silenzio, ora. La musica si abbassa, ed assieme ad essa le voci. Ode soltanto il suo respiro, fino a quando una voce morbida non lo interrompe, e lui chiude piano gli occhi.
«Mancano pochi minuti al tuo numero, Izumi-chan.» dice, e lui annuisce. Indossando la più bella delle maschere che possiede, quella che ha fatto di lui il desiderio di molti, riavvia con le mani i capelli chiari, e i gioielli al polso tintinnano. Indossa vesti bianche, perché nel rifrangersi creino giochi di luce che facciano risaltare ancora di più i movimenti che avrebbe compiuto. La pelle chiara è scoperta in più punti, perché nulla fosse interdetto a chi guarda di quel corpo che, forse, di lì a poche ore, chi fosse stato disposto a domandare avrebbe potuto stringere al proprio. Argento è anche lo strato leggero di trucco che sfuma la linea di quegli occhi azzurri ancora chiusi, e che riapre di lì a poco soltanto per osservare un riflesso che gli appartiene ed appare allo stesso tempo sconosciuto, il volto di un estraneo. 
Non parla – non lo fa mai. A rompere il silenzio è Arashi, che ancora una volta l'ammira con un'espressione sul volto così in contrasto con la propria; gentile, a tratti persino delicata.
Lo rappresenta.  
E’ una bella persona, anche se non lo avrebbe mai ammesso, tanto assurda l’idea di un legame che esuli dal lavorativo o dal fisico che non si sarebbe mai concesso il contemplarla. Di illusioni, si dice, non ha bisogno; ha già appreso come al mondo nulla corroda più della speranza e dei sentimenti che una relazione porta con sé. L’ha visto: quanto ciò che comunemente chiamano amore distrugga chi lo prova, portandolo a compiere atti che il solo tocco di Dioniso non basterebbe a descrivere come tali.
L’ha visto; come un’amicizia possa diventare ogni giorno qualcosa di diverso, sfociando in un’intimità che coinvolge non solo le carni, ma l’anima, il cuore stesso delle cose. E sono sciocchezze, e non gli appartengono – se lo ripete, ogni giorno, ogni volta; lo fa anche in quel momento, mentre osserva quelle labbra piene dischiudersi e la sua voce lo raggiunge ancora, placida.
«Sei bellissimo.» 

E lui non ha bisogno d’interrogarsi sulla veridicità delle sue parole, domandarsi se lo pensi davvero o se si tratti di uno di quegli sporadici commenti che si rivolgono ai colleghi per sola cortesia. E’ consapevole. Di essere bello e della gentilezza che l’altro sempre gli rivolge.
«Devo esserlo, Naru-kun.» è la sua risposta – né ringraziamenti né frivolezze, mentre ricambia il suo sguardo attraverso lo specchio. Eppure non v’è sorpresa dipinta sul volto dell’altro, dialoghi come quello all’ordine del giorno; socchiude invece gli occhi chiari e si abbandona ad un lento annuire, avvicinandosi di pochi passi per toccargli i capelli.
«E lo sei. Come la prima volta.» 
Stavolta tace, limitandosi a guardarlo fino a quando pochi alcuni istanti dopo, il più giovane ritrae la mano e lo guida in una strada percorsa insieme tante volte, a quel palco ancora nascosto dal sipario. Un passo, due – poi Arashi resta indietro e lo guarda, un ultimo sorriso gentile prima di sparire dietro le quinte, così che possa prepararsi. 
Non c’è ancora musica. Sono solo lui e il silenzio, l’eco di quei passi che le persone al di là di quella tenda in velluto rosso non avrebbero mai conosciuto. E quando l’orchestra riprende a suonare, e assieme al suono delicato del violino il sipario prende ad alzarsi, il suo corpo è già in posa; il volto basso, le braccia rivolte verso l’alto e le gambe piegate in una posizione che pare voler richiamare quelle tipiche della danza classica. E infine, le labbra curve e gli occhi socchiusi, quelli che non rialza nemmeno quando il sipario si leva del tutto.
Non sa dire perché a distanza di tempo quelle parole continuino ad avere tutto quel peso. Non ha senso, si dice, perché quella decisione è forse l'unica cosa che da anni a quella parte possa definire come sua. Eppure avverte ancora il nodo alla gola di quel giorno, e quelle parole si ripetono nella sua testa.
Come la prima volta.
Aveva diciotto anni quando aveva concesso a delle mani di toccarlo, di acquistarlo. L'aveva rimandato a lungo, una spiaggia che il suo orgoglio aveva faticato ad accettare essere la sua ultima possibilità – si diceva che avrebbe preferito annegare, sino a quando non gli fosse mancato il respiro e l’acqua avrebbe rigettato il suo corpo. 
Aveva voluto vomitare. Il bisogno di farlo era impellente, quel giorno come nei successivi - forse sarebbe stato meglio, se fosse riuscito a svuotarsi lo stomaco; poco importava che questo non contenesse quasi nulla. Era disgustato. Dall’idea, da sé stesso. Dal pensiero di aver dovuto cedere a qualcosa di tanto infimo per il solo desiderio di sopravvivere. 
Erano ragazzi, niente più di questo. Erano ragazze – niente di diverso. Erano il frutto di un peccato che non avevano commesso e su cui non avevano avuto modo d’esprimersi, troppo giovani ai tempi della guerra, e poi d’improvviso troppo adulti, privati troppo presto dell’innocenza di un’infanzia che sarebbe dovuta essere loro di diritto. 
Sopravvivevano, non c’era niente di male in questo. Benché razionalmente ne fosse consapevole, tuttavia, faticava a contemplare quella possibilità, troppo grande il suo orgoglio, troppo pieno di sé per scendere a compromessi. E se anche fosse morto davvero, a chi sarebbe importato? Se anche si fosse lasciato morire, chi è che avrebbe sentito la sua mancanza? 
Sciocchezze. – così aveva detto quella voce, quando aveva esternato i propri dubbi, seduto su quelle scale malmesse – Tu non vuoi morire, Izumi-san. Esattamente come non lo voglio io.
Era l'alba del due novembre del duemilacinquantuno. Aveva appena compiuto diciotto anni.
E voleva vivere.
Non ricorda nemmeno l’aspetto dell’uomo che l’aveva toccato la prima volta. Ma aveva l’impressione, quando il giorno dopo era salito sul palco, che quegli occhi fossero fissi su di lui com’era stato durante la notte, mentre adagiato sul materasso guardava altrove; che lo osservassero, mentre il loro proprietario sedeva comodamente su una di quelle sedie foderate in velluto – e lo odiava, perché significava rivivere la sensazione delle sue mani, il tocco umido dei suoi baci sulla bocca.

Lo odiava, e per questo aveva preso a fissare il vuoto dinanzi a sé; ed era diventato glaciale, sicuro di sé al punto da non avere necessità d’attirare l’altrui sguardo con le occhiate languide di una donna innamorata.
A distanza di anni da quella notte, mentre le braccia si muovono, si rende conto di come quell’impressione corrispondesse probabilmente a realtà; di come quell’uomo fosse effettivamente lì, vestito dei suoi abiti più belli, e lo guardasse in quella stessa maniera cui si osserva qualcosa che sai esserti appartenuto ed essere stato il primo a possedere. E ne ride, ne fa un altro dei decori del volto che ha scelto indossare; ne ride, così che quando il sipario si solleva e le luci lo illuminano, quel suo sorriso sia la prima cosa che gli altri vedano. 
E danza. E per un singolo istante, si illude d’aver vinto la corrente.


«C’è qualcuno che chiede di te.» è una frase già sentita. Ma stavolta, differentemente da quanto accade di solito, a pronunciarla non è la voce morbida e quasi melliflua di Arashi – per questo, non riesce ad evitare di voltarsi, rimandando di alcuni minuti il ripulire il proprio volto dai residui di cipria.
Avrebbe potuto evitare di farlo. Quella voce è unica, e tali sono la placidità e bassezza che la marcano; occhi amaranto sono quelli nei quali di lì a poco si specchia, incorniciati da ciglia scure e lunghe. E’ un bel contrasto quello del rosso e del nero, specie se si accostano, come in quel caso, ad una pelle talmente chiara da rasentare il pallore; tuttavia, pochi sono i lembi concessi alla vista di chi guarda, un kimono che della sua persona richiama i colori a coprirli quasi nella loro totalità. Solo nella zona del collo si intravede un rossore innaturale, che sfugge all’elegante stoffa e ai suoi vistosi ricami; non si interroga sulla sua natura – non ne ha necessità, avendo conosciuto di persona quel tipo di segni sul proprio corpo.
Una calendula tinta di rosso. E’ il fiore dipinto sui suoi abiti, e assieme alla stoffa nera ondeggia quando lui si muove. Gli si addice, E’ maledetto come quei boccioli, Sakuma Ritsu, splendido nella decadenza che egli stesso ha creato per sé. Si chiede se dietro la scelta dell’abito vi siano ragioni più o meno profonde, ma non domanda – lui, dopotutto, non risponderebbe a qualcosa di così personale.
«Dev’essere un ospite importante, se Kuma-kun si prende la briga di annunciarlo.»
Senza cambiare espressione e facendo le spallucce, la mano scivola lungo il pomello dorato della porta in legno e piano lo tira, sino a quando questa non si chiude alle sue spalle; va poi a coprire la distanza che li separa, muovendosi per uno sgabello libero posto lì accanto.
«Non direi.» comincia, accavallando le gambe ed allungandosi quel tanto necessario a recuperare dal tavolino in legno dinanzi al quale siedono ora entrambi, uno dei pennelli ormai consunti adibiti al trucco. Osservandolo ancora, Izumi inarca il sopracciglio in un tacito rimprovero di cui lui non si cura, sfiorando con le punte delle dita le setole morbide ed ancora tinte di bianco. «Lo conosco però, quello sì.»
Lo sbuffo divertito che segue è estremamente naturale, qualcosa che non ha mancato rivolgergli sin dal loro primo incontro; nonostante sia quasi sprezzante ed anticipi le parole che avrebbe pronunciato, tuttavia, non suscita nell’altro particolari reazioni. Ritsu resta lì, le gambe accavallate, il corpo avvolto in quelle regali vesti e gli occhi vermiglio fissi su quel pennello di cui pare aver fatto l’oggetto della propria attenzione. Non parla, non batte ciglio; a stento respira, e piano il suo petto si alza ed abbassa ad un ritmo regolare. Sembra una statua – una bambola anzi; perfetta nella sua inumana natura, con le gote bianche tinteggiate di un leggero rosa porpora. Si è scoperto, a volte, a domandarsi mentre lo guardava se in lui fosse rimasto qualcosa di vivo, se fosse stato in grado di perdonarsi per ciò che è finito con il diventare; ad ora, non ha ancora trovato risposta..  
«Hai anche degli amici, allora.»
«Se vuoi definirlo così.»
Smette di rivolgergli lo sguardo, tornando a concentrarsi sul proprio riflesso. Inumidisce una spugnetta di struccante profumato, e chinatosi appena con il corpo in avanti, la passa sulla pelle del viso. Il processo si ripete più volte, con cura – anch’esso dopotutto parte di una quotidianità che ha fatto sua da tempo; quando però parla di nuovo, a testimonianza del suo non aver dimenticato la presenza altrui, il tono è ancora marcato da una nota divertita.
«Dovrei definirlo in altro modo?»
L’altro interrompe il roteare del pennello iniziato pochi istanti prima, riprendendo a guardarlo. E, mentre aspetta, con la coda dell’occhio coglie l’incurvarsi leggero del suo labbro superiore.
«Mi stai chiedendo se si tratta di un cliente.» non è una domanda – lo sta affermando, tanto che Izumi non sente il bisogno di confermare ciò che per entrambi è un’ovvietà, preferendo invece riporre sul tavolino da trucco la spugnetta appena utilizzata.
«No, comunque. L’ho conosciuto diversi anni fa. Prima di finire qui.»

Non pone ulteriori domande, e nulla trapela dal volto se non il fatto che gli stia ora rivolgendo l’attenzione. Dopotutto, è raro che Ritsu accenni al passato. Quanto detesti farlo è qualcosa che ha intuito nel corso del tempo, a causa di quell’abitudine che ha di osservarlo quando, a volte e saltuariamente, condividono il letto per il semplice gusto di poter scegliere per una volta con chi passare la notte. E, in quegli istanti, appare perso in qualcosa che né a lui né ad altri è dato vedere, un mondo a chiunque altro irraggiungibile. Cosa veda, quali immagini la sua mente richiami ogni volta non lo sa; ma verso quell’estraniarsi, quel cercare un luogo in cui rifugiarsi quando le memorie tornano a galla, ha sempre portato rispetto. Lui, d’altra parte, in passato soleva fare lo stesso.  
«E’ bello?» chiede, dopo qualche attimo. Gli lascia il tempo di riprendersi, di sbattere le palpebre un paio di volte e tornare a vederlo – di quello non è sorpreso; tuttavia, lo stesso non può dire della risata che di lì a poco abbandona le sue labbra, dinanzi alla quale non riesce a celare la propria perplessità.
«Non so te, ma quando sono belli mi semplificano le cose.» non si impegna nemmeno a nascondere l’irritazione, per quanto flebile. Questo non impedisce però al moro di ridacchiare ancora, tanto che, infine, Izumi prende la decisione di ignorarlo e prendere a cambiarsi d’abito. 
«Scusa, scusa.» la pausa che prende è breve, necessaria soltanto ad assicurarsi che l’abbia udito – ed avverte con chiarezza, la mancanza di sincerità della voce. «E’ solo che è divertente.», conclude. 
Mentre si priva delle vesti e con lentezza le lascia scivolare sul pavimento, stavolta è lui a ridacchiare. 
Trascina i piedi nudi, e con la flemma ancora a marcare i suoi gesti, lo supera per raggiungere un armadio poco distante. E’ in legno, e quando le dita affusolate si portano a stringere la maniglia in ottone, produce uno scricchiolio che si diffonde nella stanza e cui lui decide di non fare caso. Scolorito in più punti e logoro in altri, in passato doveva essere stato un oggetto di lusso. Riesce persino ad immaginarlo all’apice della sua bellezza, prima che conoscesse il tocco del tempo; lucido e liscio al tocco.
«Non dal mio punto di vista.» 
Pronuncia, mentre con le mani fruga al suo interno, tra quelle stoffe le cui sfumature appaiono simili nella loro diversità. 
«Oh stai fraintendendo, Secchan.» 
Ancora non lo guarda ed anzi si muove di nuovo, raggiungendo lo stesso specchio accanto al quale l’altro siede; le iridi cerulee fisse sulla propria immagine, anche stavolta sceglie di tacere. E Ritsu coglie l’invito a proseguire, sulle labbra morbide ancora lo spettro di quella risata.
«E’ solo che non vuole vederti per quello.» e si alza, abbandonando la comoda posizione fino ad allora mantenuta per portarsi alle sue spalle. Occhieggiandolo attraverso la superficie riflettente, Izumi gli rivolge uno sguardo interrogativo; e per qualche istante è stasi fine a se stessa, il velo d’un silenzio che tra loro è sceso molte volte. Poi, Ritsu distoglie lo sguardo, e l’aiuta ad infilare la manica del kimono sino ad allora tenuto tra le mani. La stoffa è morbida contro la pelle più di qualsiasi carezza questa abbia mai conosciuto, e di quel contatto si bea, Izumi, in attesa che il moro soddisfi la propria curiosità.
«Non è quel tipo di persona.» 
Non riesce a celare una sorta l’ilarità nella voce, quando parla e quel «Allora non dovrebbe essere qui.» l’abbandona. Ma come prima Ritsu non si scompone, ed imprime anzi ancor più sicurezza nella voce, mentre chinatosi verso di lui recupera dalle sue mani lo splendido obi che con cura si premura d’allacciare – una fatica inutile, e che dubita sarebbe da terzi stata apprezzata.
«Incontralo. Poi mi dirai.» 
Stavolta non v’è risposta ad infrangere il loro silenzio, quello interrotto soltanto dal fruscio del kimono e dai reciproci respiri. Assurdo. Questo è ciò a cui pensa, l’unico vocabolo cui la mente s’appella e che nella stessa più volte si ripete, eco d’un pensiero profondamente radicato all’interno del suo essere. Appaiono così assurde quelle sue parole, che benché razionalmente ne comprenda il senso una parte di lui ancora le rifiuta, e da lontano le osserva; in una società di pietà priva dov’è soltanto con la furbizia che ci si garantisce la sopravvivenza, non è l’esistenza di una persona come quella che il parlare altrui implica soltanto un’illusione? Può esistere qualcuno al di fuori di quelle mura e quella realtà, in grado di vederlo come qualcosa di più di un mero oggetto, di una bellezza e compagnia con la quale intrattenersi alle spalle di un mondo che mai avrebbe saputo?
Assurdo. Ancora se lo ripete, e si ripercuote nello sguardo e nelle iridi azzurre. Ma poi inspira, e s’impone di calmarsi e allontanare quelle che sono poi soltanto supposizioni. D’altra parte, il giudizio di Ritsu non è il proprio.
Eppure, la sua è una concessione.

«Digli di aspettare. Lo vedrò non appena ho finito.» 
Sakuma si allontana a seguito di quel suo ultimo gesto, ed incrociando al petto le braccia osserva la nuova immagine che lo specchio offre ad entrambi; quello di Izumi è, rispetto a quello che indossa, un kimono assai più elaborato e che si contrappone ad un volto pulito e privo di eccedenza. I veli scivolano fino al pavimento, stratificandosi a creare uno splendido gioco di colori; così si mescola, il bianco alla base, a tinte pastello e ricami in grigio ed argento, spezzati solo dall’obi e dai suoi colori scuri. Ai bordi, l’azzurro la fa da padrone, richiamando le tinte di cui è dipinto il drago che percorre il suo corpo ed attorno a quest’ultimo s’attorciglia. E’ Izumi ad indossare infine un’elegante spilla, volta a compensare l’assenza di trucco attorno agli occhi. 
«Preferisce che sia naturale.» spiega, sebbene non gli sia stato chiesto di farlo – non specifica chi, né fa nomi; s’adagia per un istante nella certezza che l’altro avrebbe compreso, ed è in effetti quanto accade.
«Ti vuole comunque in kimono, però.» e alla frase accompagna un lieve ridacchiare. «Se non altro sa riconoscere il bello delle cose.» 
Gli concede d’udire la propria rara risata, e come risposta, al moro basta quello; dopo averlo osservato per alcuni minuti ancora, fa per dargli le spalle, così da poterlo lasciare e tornare alle proprie occupazioni. Che la leggerezza provata sfumi così precocemente, lo irrita quasi quanto il pensiero che a dargli quella placida quiete siano stati quegli occhi vermiglio.
La sua voce riecheggia tra le pareti un’ultima volta, prima che lui abbandoni la stanza; lo richiama all’attenzione pretendendo che lo guardi, ergendosi per un attimo nelle sue vesti. Sa d’essere pretenzioso – ma, invero, non gli importa.
«Non mi hai detto il suo nome.»
Lui si volta effettivamente a guardarlo. 

«Leo. Tsukinaga Leo.»
Per un attimo quel nome aleggia tra loro; poi senza ulteriori esitazioni la porta viene aperta, e lui ode le ultime note della musica che ancora risuona nel salone principale. Quando Ritsu la chiude, resta solo. Solo, con l’eco di quello scatto e dei suoi pensieri. 

 


Profumo d’incenso è ciò che l’accoglie quando si muove verso l’ala secondaria dell’edificio, quella alla maggior parte del pubblico interdetta. Pregne ne sono le pareti al punto che persino sui propri abiti capita, talvolta, di percepirne l’aroma; è un mescolarsi di odori che paiono provenire da un’epoca differente, ricordata dai più come il periodo più fiorente della società nipponica – è come vivere su di un fantasma, un cadavere che giace nudo su un pavimento fatto di nulla. E’ ricordare il passato perché migliore del futuro che li attende, un’epoca che non concede loro niente di simile agli eleganti decori su cui si posa il suo sguardo man mano che avanza; nulla che sia paragonabile alle stampe eleganti che adornano le pareti bianche, non agli inchiostri dalle tinte pastello posti accanto a quelle camere le cui porte con stonano con l’arredo, sporcando la leggerezza di una composizione altresì perfetta.
Ma d’altra parte è alla funzionalità che sono adibite, a mantenere l’apparenza su cui la loro cultura s’è sempre fondata. E che quelle mura ospitino talvolta uomini importanti deve restare un segreto, e che s’intrattengano con ragazze o ragazzi che potrebbero avere l’età di quei figli che li attendono tra le mura di casa, e baceranno con quelle stesse bocche, un mero dettaglio.
E’ con lentezza che cammina, austero. Il mento dritto, lo sguardo sgombro; pulito nei movimenti come se il camminare fosse anch’esso danza, e lui si trovasse dinanzi al più grande pubblico che mai gli sia capitato d’intrattenere. Attraversando una porta scorrevole, che con cura richiude alle proprie spalle, raggiunge un secondo corridoio, dove ad accoglierlo v’è una fragranza più dolce ed un arredamento ancor più vistoso di quello che s’è lasciato alle spalle – quasi fa sorridere quanto diversa sia quella realtà da ciò che il vive il cliente medio, cui è concesso niente più di una stanza abbellita da qualche velluto colorato.
A conti fatti persino lo Yumenosaki altro non era che uno specchio della realtà. L’élite da una parte e il resto della popolazione lasciata a se stessa, tra briciole e brioche.
Si arresta quando raggiunge una grande porta decorata, che osserva per qualche momento in quell’unico temporeggiare concessogli. E di nuovo a trascinarlo è la marea, e di nuovo indossa quella maschera dietro alla quale il suo volto ogni giorno s’increpa più del precedente. Ed è placido che sorride, quando apertala mette a fuoco ciò che al suo interno l’attende.
«Mi dispiace averla fatta aspettare.»
Il suono riecheggia, quando la richiude.


 

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Ensemble Stars / Vai alla pagina dell'autore: Suzerain