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Autore: violetti    03/10/2017    2 recensioni
John, in fin dei conti, era un uomo razionale. Ma a volte pensava che il destino non poteva essere irrazionale se quel ventinove gennaio lo aveva portato sulla strada di Sherlock Holmes.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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John Watson non aveva mai pensato troppo al caso. Non sapeva nemmeno dire se ci credesse o meno; semplicemente, era un argomento che non lo toccava. La vita gli metteva davanti un’opportunità? La coglieva. Incontrava una persona che non vedeva da molto? Si fermava, scambiava qualche parola e riprendeva per la sua strada. Non aveva tempo per chiedersi quanto un particolare evento avrebbe influito sulla sua vita.
Persino quando era stato inviato in Afghanistan non aveva avuto modo di elaborare ciò che stava accadendo; a malapena aveva potuto salutare sua madre e sua sorella. Era partito, borsone in spalla e un macigno sul petto. John non l’avrebbe ammesso, ai tempi, ma forse non avrebbe avuto nemmeno il coraggio di fermarsi a riflettere su ciò che stava per fare. L’aveva fatto, soffocando qualsiasi “se” e “ma”. 
Eppure un pensiero si fece largo in lui nel momento in cui mise piede sull’aereo che l’avrebbe riportato a casa (casa? quale casa?), dopo parecchi mesi sul campo di battaglia: la vita era davvero crudele, se aveva deciso di mandarlo in guerra; il destino era cieco e irrazionale. John serrò gli occhi mentre l’aereo si staccava da terra.
 
Era un freddo giorno di sole quando lo incontrò. Un giorno uguale a tutti gli altri. La solita sveglia alle sette del mattino, i soliti cereali con quel latte quasi andato a male, le ore che scorrevano lente, quasi gocciolando e soffocando John in quella sua stanzetta da trenta metri quadrati. La terapista gli aveva detto di non recludersi in casa, e in effetti lui odiava quelle quattro mura; ma appena messo piede fuori dalla porta, si era reso conto di odiare anche Londra.
Londra, la città che aveva fatto da sfondo alla sua infanzia e adolescenza, improvvisamente non gli apparteneva più. La gente era sconosciuta, felice in quel mondo di luci e colori troppo veloci con i quali John non riusciva a tenere il passo.
Tornava a casa più stremato che mai, quel dannato bastone sempre davanti a lui, si sedeva alla scrivania e cercava di buttare giù un paio di parole sul blog che la terapista gli aveva chiesto di scrivere; ma il pensiero continuava a correre a quella pistola che teneva nel cassetto. Quando era ormai chiaro che non sarebbe andato oltre quella singola riga, andava a letto. Erano le nove al massimo, che poi diventavano le undici, l’una di notte con gli occhi fissi sul soffitto, a rivivere quegli interminabili mesi, che ora sembravano lontani più che mai.
Quella vita era molto peggio della guerra.
Era un giorno come gli altri, durante la sua passeggiata nel parco. Un amico dell’università, i soliti convenevoli, una proposta. Ma nonostante lo scetticismo (chi mai lo avrebbe voluto come coinquilino?), aveva seguito il suo compagno fino al Barts. Si era aspettato di vedere un medico di mezza età, scapolo, di una precisione quasi maniacale, che gli avrebbe fatto gentilmente capire che non era l’uomo che faceva per lui. Entrò nella stanza con un sospiro, rassegnato in partenza, stanco di tutto. Ma al tavolo c’era un solo individuo, un trentenne sottile, piegato su uno strumento da laboratorio. A malapena aveva alzato gli occhi al loro ingresso, e il suo sguardo si posò su John solo nel momento in cui gli offrì il suo cellulare. Aveva occhi chiari, penetranti, ma non per questo minacciosi; erano anzi in qualche modo rassicuranti. Sorrise e ringraziò a mezza voce; John ricambiò, stranamente senza alcuna esitazione.
«Afghanistan o Iraq?».
 
John ci aveva pensato spesso negli anni di convivenza. Non poteva esistere la casualità, non dopo quel giorno al Barts. Quante probabilità c’erano di incontrare quel vecchio –provvidenziale amico esattamente in quel parco dove non era solito passeggiare? O che quest’ultimo proprio quella mattina avesse avuto una conversazione che verteva proprio sulla ricerca di un coinquilino?
John, in fin dei conti, era un uomo razionale. Ma a volte pensava che il destino non poteva essere irrazionale se quel ventinove gennaio lo aveva portato sulla strada di Sherlock Holmes.
 
Erano le tre e mezza di mattina quando la incontrò. Non era stanco, anzi, non era mai stato così sveglio in vita sua. Un’infermiera chiamò il suo nome; John si alzò di scatto; riprese a respirare normalmente solo quando lei sorrise e fece un cenno di assenso. Lo invitò a seguirla. John esitò un attimo, guardandosi alle spalle; nessuna traccia di lui. Forse era davvero tornato a casa.
Prese a camminare per il lungo corridoio.
Non riusciva a ricordarsi da quanto non si sentisse tanto genuinamente emozionato. Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto essere il più adulto possibile, si sentiva un adolescente, incapace di pensare con lucidità.
In quel turbinio di sensazioni, il pensiero si focalizzò su Mary (o qualunque fosse il suo nome).
“Sua moglie sta bene”, gli aveva detto l’infermiera. John ne era contento. Anche dopo tutte le bugie, il tradimento, la disonestà, non se la sentiva di volere che le capitasse qualcosa di male, nemmeno ora che non portava più in grembo sua figlia. L’aveva amata, una volta, certo che l’aveva amata. Nonostante non riuscisse a smettere di pensare a Sherlock, il sentimento per Mary era sincero. Lei era lì, lei lo aveva consolato, fatto sentire vivo –per quanto vivo potesse essere sapendo che lui non sarebbe più tornato. Ma poi era ricomparso, e John Watson era tornato a vivere davvero. In perenne conflitto con se stesso, ma finalmente, dopo due anni, poteva respirare di nuovo.
Fino a quando Mary non si era rivelata per ciò che davvero era. Allora era davvero cambiato tutto.
John riemerse da quel flusso di pensieri. Era davanti ad una porta: “Sala neonatale”, recitava la targa.
Senza pensarci troppo, abbassò la maniglia. Silenzio. La luce soffusa si diffondeva su una dozzina di culle, sfumava i colori, li attenuava.
Mosse qualche passo incerto. E la vide.
Nell’esatto momento in cui il suo sguardo si posò su di lei, il muro che aveva meticolosamente costruito in quegli ultimi anni, quello scudo di ferro posato sul cuore, cadde.
Rimase fermo a guardarla, incantato. Le sfiorò la manina, la testa piena di capelli chiari; lei sospirò e strinse più forte il pugno. Chissà cosa stava sognando, si chiese. Nei minuti successivi non riuscì a pensare a molto altro: era perso nella vista di quella creaturina, smarrito in un mare di emozioni che non avevano un nome.
E poi, con la coda dell’occhio, lo vide. In un istante fu come se quei cinque anni fossero svaniti, e al suo fianco ci fosse quel ragazzo ammiccante che, quel giorno, lo aveva letto con uno sguardo. E tutte le parole non dette, le incomprensioni, la gelosia, il dolore, il lutto, scomparvero, per lasciare il posto a quel viso ancora giovane, arrossato per l’emozione, agli occhi lucidi, alle spalle rigide. Il muro di John subì un ultimo e definitivo colpo.
E d’improvviso in quella stanza c’erano solamente John Watson, Sherlock Holmes e la loro piccola Rosie.
Le loro dita si sfiorarono, e il momento dopo si stavano tenendo per mano. Come era successo, John non avrebbe saputo dirlo.
«Allora...», sussurrò piano Sherlock, senza un vero e proprio obiettivo.
John gli sorrise ed ebbe un’epifania.
«È il ventinove gennaio», mormorò, più rivolto a se stesso che ad altri.
Era sicuro che non avrebbe capito. Perché avrebbe dovuto ricordare un simile dettaglio?
Invece Sherlock strinse più forte la sua mano: «Lo so».
 
John Watson non credeva alle coincidenze. Non ci credeva quando tornò a vivere a Baker Street, e Sherlock  prese in braccio Rosie mentre John si occupava degli scatoloni da portare su per le scale. Non ci credeva in quelle sere invernali in cui Sherlock suonava il violino per fare addormentare Rosie. Non ci credeva durante quelle mattine di domenica in cui Sherlock dormiva (e vederlo dormire aveva davvero  un che di miracoloso) e lui passava decine di minuti a fissarlo, la luce che faceva capolino dalle persiane e gli illuminava il naso e la bocca.
Ma soprattutto non ci credeva quando tornava il compleanno di Rosie, e lui, ogni singolo ventinove gennaio, ricordava il giorno in cui aveva incontrato le due persone che più amava al mondo.
 







EEee ciao
La verità è che erano mesi che volevo scrivere questa fic, ma ho detto ciao alla mia produttività da un po', ormai
Però oggi è il compleanno della magica Rita, e quindi stamattina mi sono svegliata con questa brillante idea in testa: "perché non scriviamo quel fantastico concept su Rosie nata il 29 gennaio??? :D" 
....ci ho messo parecchie ore in più di quanto non mi aspettassi
Per far capire che la mia creatività è proprio morta e sepolta
In ogni caso ci tenevo a ricambiare almeno l'1% di tutti gli headcanon che ogni giorno ci regala e che sono letteralmente una manna dal cielo, spero di essere riuscita a farlo, anche se sicuramente con un paio d'ore in più di lavoro avrei potuto perfezionare qualche dettaglio
Perdona quindi le eventuali costruzioni sintattiche/lessicali un po' rozze, spero apprezzerai lo stesso ;;
tvb e ancora tanti auguri!!! 
  
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