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Autore: Sospiri_amore    04/10/2017    0 recensioni
TERZO LIBRO DI UNA TRILOGIA
Elena se ne è andata via da New Heaven appena finite le scuole superiori, da ragazza ha lasciato gli USA per l'Europa. Tutte le persone a cui ha voluto bene l'hanno tradita, umiliata e usata.
Dopo quattordici anni, ormai adulta, Elena incontrerà di nuovo le persone che più ha amato e odiato nella sua vita, si confronterà con loro rivivendo ricordi dolorosi.
Torneranno James, Jo, Nik, Adrian, Lucas, Kate, Stephanie, Rebecca più altri personaggi che complicheranno e ingarbuglieranno la vita di Elena.
Come mai Elena è tornata in America?
Chi è il padre di suo figlio?
Elena riuscirà a staccarsi dal passato?
Chi si sposerà?
Riusciranno i vecchi amici a trovare l'armonia di un tempo?
Elena riuscirà ad amare ancora?
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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IERI:
Lultimo saluto




Non è che non lo sappia, è da anni che mamma mi prepara per questo momento. Ci sono stati alti e bassi, momenti duri ma a volte ho avuto anche un po' di speranza. 

Io ne ho avuta molta, troppa forse vista la situazione.

Fino a qualche anno fa non capivo perché mamma non riuscisse più a farmi il bagno oppure perché non mi portasse al parco. Ero piccola, non badavo molto a quello che facevano i miei genitori, perlopiù pensavo a giocare, a disegnare a correre. 

Invece adesso capisco.

Capisco benissimo perché mamma non riesce a fare molte cose.

 

Sta morendo.

 

Potenzialmente tutti stiamo morendo. Dall'istante che emettiamo il primo vagito ci avviciniamo pian piano alla nostra fine. Sì, lo so che siamo destinati ad invecchiare e avere le rughe, ma mamma non ci arriverà mai. Lei sta peggio, lei ha un male incurabile che me la porterà via presto. Non avrà mai i capelli bianchi, credo che vorrebbe averli, come lamentarsi delle zampe da gallina e delle braccia flaccide. Lei vorrebbe ritrovarsi seduta su una sedia a parlare ai propri nipoti, consigliarli e magari asciugare le loro lacrime. Lei vorrebbe addormentarsi davanti alla TV mentre aspetta una mia visita la domenica con tutta la famiglia. Lei vorrebbe cucinare una torta da mangiare di nascosto con papà, fregandosene della dentiera, dell'età e di quello che pensa la gente.

Lei vorrebbe essere vecchia, vorrebbe molte cose, ma non può.

Mamma non si lamenta mai, vorrebbe invecchiare e anche se non lo dice so che è così.

 

La puzza di disinfettante è la cosa che mi da più fastidio insieme al bip delle macchine. Battito del cuore. Saturazione. Parametri vitali.

A volte peggiorano.

A volte sono stabili.

Non migliorano mai.

Papà lavora direttamente in ospedale, deve tradurre un testo in inglese, mi pare un romanzo. Mamma vorrebbe dargli una mano, lo capisco da come lo guarda, ha sempre detestato stare ferma a non fare nulla. 

 

Mamma fissa i suoi piedi.

Papà fissa lo schermo.

Io fisso il pavimento.

 

Nessuno di noi ha il coraggio di guardare le proprie paure, credo che potremmo scoppiare tutti a piangere se smettessimo di fingere di pensare ad altro. Se mamma si rendesse effettivamente conto di non vedermi crescere, se papà capisse che la donna che ama sta per andarsene e se io comprendessi che mamma sta morendo, potremmo crollare come un castello di carte. 

La mia vita ha fondamenta fragili destinate a sbriciolarsi.

Meglio far finta di nulla.

 

«Hai molto ancora?», chiede mamma a papà.

«Sto controllando delle mail. Devo consegnare il testo la prossima settimana, sai che non sono bravo ad organizzarmi», le risponde senza togliere gli occhi dal portatile.

«Già. Ti sei ricordato della lavanderia? Ho portato le coperte di lana a lavare. Non voglio che le tengano loro, ricordati di prenderle», dice mamma.

«Certo. Certo». Papà è distratto schiaccia tasti uno dopo l'altro.

 

Mamma sorride. So che le fa piacere vedere papà lavorare, vede un po' di se stessa in lui, sono fatti della stessa pasta. Si conoscono da sempre, hanno fatto la stessa università a Boston. Lì si sono conosciuti, hanno migliorato la lingua e sono diventati traduttori. 

Mamma me lo racconta sempre, le piace ricordare quando era giovane e bella.

Per me lei è sempre bella, ma credo che lei non si ritrovi più quando si guarda allo specchio: guance scavate, capelli rasati, occhiaie profonde. 

 

«Hai sentito Hanna e Roger? Sai quando arrivano?», chiede mamma.

«Kate mi ha detto che arriveranno nel pomeriggio. Vengono direttamente qui in ospedale», le rispondo io.

Mamma mi guarda, non sorride più. Ogni volta che si rivolge a me i suoi occhi si riempiono di tristezza, una melanconia profonda, infinita:«Grazie amore. Ho voglia di vederli. Almeno scambierò due chiacchiere con qualcuno che mi ascolta, non come tuo padr...», dice mamma provando a sghignazzare, ma le esce una smorfia strana accompagnata da un suono cupo, un rantolo, sembra uno spasmo di dolore.

«Tutto bene mamma?», mi lancio su di lei, le stringo la mano.

«Margherita? Margherita?», urla papà buttando il computer su una sedia.

«Sto bene. S-Solo che a volte fa male», dice mentre stringe i denti e contrae i muscoli.

Anche se so che può sembrare impossibile mamma è diventata più pallida.

Papà schiaccia il pulsante per chiamare i medici, ma la luce rossa sopra al letto non si accende. Lo schiaccia di nuovo. Nulla.

«Vado a vedere che succede. Credo che si sia rotto il campanello. Torno subito con un dottore, magari ti danno altra morfina». Papà furioso esce dalla stanza, detesta quando le cose non vanno come lui vuole. Mentre sbatte la porta riversa una sequela di parolacce e insulti al campanello mal funzionante e all'incompetenza dell'ospedale.

 

Mamma sorride o almeno ci prova.

 

«Lui fa così quando tiene ad una persona. Non è capace di esprimere i suoi sentimenti. Si arrabbia, poi ci ripensa e capisce. Se a volte ti sembra distante ricordati di stargli più vicino, vuol dire che ha un ingorgo di emozioni. Una specie di tappo che deve sbloccare», mi dice con calma.

Annuisco. Quando mamma mi spiega le cose capisco sempre tutto.

 

Rantolo.

Mamma si tende.

La sua fronte si imperla di sudore.

Con un fazzoletto le asciugo il volto.

 

«Sei forte lo sai? Hai solo tredici anni Elena, ma sembri una piccola donna. Non molte ragazzine riuscirebbero a fare quello che fai tu. Grazie». Mamma prova ad accarezzarmi una guancia, ma non riesce ad alzare il braccio, ci sono troppi tubicini attaccati.

«Stai tranquilla mamma. Non ti muovere altrimenti ti fai male», le dico mentre le metto il braccio a posto.

«Il male. Il male lo conosciamo bene noi due. Vero? È una cosa brutta, è una cosa spaventosa. Devi scappare da tutto ciò che ti fa male, devi andare lontano se qualcuno ti farà male. Non devi assecondarlo, devi lasciarlo. Non permettere a nessuno di farti male, mai», mi dice con un filo di voce.

«Certo mamma, lo so. Non permetterò a nessuno di farmi soffrire», le rispondo decisa.

«Se dovesse succedere, se capitasse che una persona ti faccia soffrire devi stare lontano. Nessun gesto è giustificato, mai. Lo stesso vale per te, non fare soffrire mai nessuno, non permettere che la rabbia offuschi il tuo cervello e la tua intelligenza. Sii forte come sei adesso», mi dice con un filo di voce.

 

Il respiro di mamma aumenta di intensità.

Mi stringe la mano con forza.

 

«Non permetterò a nessuno di farmi male, mai. Mai... mamma. Mamma», le dico con gli occhi lucidi.

«S-sarai una brava donna, donerai amore. Ricorda di lottare e combattere, non farti buttare giù da nessuno. Sei speciale quando sei te stessa, sei meravigliosa quando sei semplice. Ama. Ama, sempre». La voce di mamma è un lamento leggero, una cantilena. Il suo petto si alza e si abbassa velocemente, i bip delle apparecchiature suonano forte. Mi assordano.

 

Non riesco a dire nulla, non riesco a proferire parola.

Mamma sta morendo ed io sto rovinando questo momento.

 

Vorrei spiegarle che l'adoro, che lei è tutto per me, che è il mio faro, che è il mio modello. Vorrei abbracciarla e sentire le sue risate, vorrei sentirla canticchiare stonata una canzone mentre balla goffamente. Vorrei poter litigare per il film da guardare in televisione, vorrei lamentarmi della cena bruciacchiata, vorrei arrabbiarmi perché si impiccia delle mie cose. Dio, quante cose vorrei fare con lei, eppure adesso non riesco neppure a dirle ti amo, non riesco a sfiorarle il volto, non riesco a fare nulla.

Sono paralizzata dal dolore, il mio cuore è incrinato e scricchiola paurosamente.

 

La carnagione di mamma è virata sul verde, le occhiaie paiono più nere della notte, la bocca è contratta in una smorfia di dolore, gli occhi sembrano annebbiati, si muovono a destra e a sinistra come se cercassero qualcosa, come se non riuscissero più a vedere.

«Mamma. Mamma. Sono qui. Sono io, Elena. Mamma», le urlo a pochi centimetri dal volto.

«E-Elena. N-non permettere a nessuno di farti del male. S-se dovesse succedere s-scappa e lotta. Allontanati, ma affronta il male. Non permettere che il male v-vinca, trasformalo in a-amore. L'amore v-vince tutto. Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te», mi dice flebile come se la sua voce provenisse da lontano, da molto lontano.

 

Le macchine impazziscono.

I suoni si susseguono uno dopo l'altro.

Mamma ha le convulsioni.

Trema.

Tremo.

 

Questa è la fine.

Urlo.

Papà entra come un razzo in camera sbattendo la porta, dietro di lui un paio di dottori e diverse infermiere si lanciano su mia madre. 

Mi spostano.

Controllano i parametri vitali in picchiata.

Mi spingono.

Aumentano la dose dei medicinali.

Mi strattonano.

Massaggio cardiaco.

 

Un bip lungo, infinito, certo come il giorno e la notte.

 

Fine.

Questa è la fine di tutto.

Mamma non c'è più.

Mamma è morta.

Mamma è morta ed io non le ho detto quanto avrei voluto vederla con i capelli bianchi tenere in braccio i suoi nipotini, non le ho detto che avrei voluto litigare su cosa cucinare il giorno di Natale, non le ho detto che mi mancherà tantissimo.

Un tonfo secco mi squarcia il petto, la mia anima e il mio cuore sono lacerati, strappati, violentati. Mani di dottori e infermiere mi accarezzano, cercano di darmi conforto, cercano di sollevarmi anche se mi sento ancorata a terra con tutto il peso della volta celeste sulle mie spalle. Scricchiolo. Ansimo. Forse piango.

Non so quanto passi prima che mi renda conto che mamma non c'è più, forse un secondo, forse una vita. Osservo un corpo grigio e sofferente nel letto, vedo papà piangere mentre lo abbraccia. Vuoto, sento solo vuoto e tanto freddo.

 

Non voglio più amare e poi perdere.

Non voglio più lasciarmi andare.

Non voglio più soffrire.

 

Mamma ha detto di scappare dal male, mamma ha detto di andare via.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Mamma ha detto che il male va allontanato.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Mamma vuole che vada via. Devo andarmene, non posso restare un secondo di più.

 

Senza dire nulla spalanco la porta della stanza correndo come una furia, le urla di papà sono un'eco lontano. Faccio lo slalom tra pazienti in carrozzella con teste rasate, tubi penzolanti da flebo, sguardi tristi, nessuna speranza.

Non posso restare, non voglio guardare.

Non posso più amare, non devo soffrire.

Le gambe si muovono come non mai, i muscoli sono tesi.

Ho bisogno di aria, di luce.

Scendo le scale due alla volta indifferente agli sguardi perplessi degli ospiti che con inutili fiori o cesti di frutta vanno a trovare pazienti vicino alla fine più di quanto pensino. 

 

Basta.

Non voglio stare più male, non permetterò a nessuno di farmi soffrire.

 

Attraverso la hall dell'ospedale in diagonale tagliando la strada a medici e infermiere, spingo con forza le porte di vetro che portano all'esterno. Il grande parcheggio grigio saturo di automobili sembra un campo coltivato, ma che non da nessun frutto. Metallo, freddo, nebbia.

Con il fiato corto mi avvicino alla rampa di accesso delle ambulanze, giro a destra verso una piccola aiuola spelacchiata con radi ciuffi verdi. Quattro metri quadri di natura forzata.

Senza un perché mi sdraio tra i sassi, la terra e l'erba striminzita.

Senza un perché mi metto a fissare il cielo carico di nebbia.

Guardo in alto, ma non vedo un paradiso.

Guardo in alto e non vedo nulla.

Solo grigio.

 

Un pensiero mi assilla.

Mamma è morta.

Mamma è morta.

Le sue ultime parole mi rimbalzano nel cervello come fossero miliardi di palle che saltano in una stanza vuota.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

Non avere paura. Sarò per sempre vicino a te.

 

Mamma io ho paura e non staremo mai più vicine.

Mai.

 

 

--------

 

 

Questo è l'evento che ha condizionato la Elena tredicenne e che ha continuato a perseguitarla negli anni successivi.

Questo è l'ultimo capitolo del passato, dal prossimo si tornerà ai giorni nostri, ovvero durante la mostra.

   
 
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