Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: fuoritema    05/10/2017    2 recensioni
Noemi camminava per via Roma come in un sogno, girava tra la gente senza urtarla e le stava bene passare la giornata così, con Manù che la seguiva ansante – perché lui le persone le scontrava tutte – e delle converse ai piedi troppo borghesi per essere accettabili. Noemi si fermò, sorrise all’amico come se non si rendesse conto della sua stanchezza e poi continuò a scivolare via, appendersi ai lampioni per svoltare e ridere di quella risata fresca e genuina che faceva impazzire Manuele. Noemi era Noël con la dieresi, perché la dieresi dà quel po’ di figo che in un nome senza fronzoli non c’è. […] L’unico che sembra capire la questione di quei due puntini del cazzo – così soprannominati dal suo coinquilino – era stato Emanuele, ma lui le dava ragione su qualsiasi cosa quindi non valeva. Manuele non valeva mai.

‘Polaroid’ racconta una storia di vite che si intrecciano, si lasciano e si rincontrano senza sosta con, come teatro, la città di Napoli ai giorni nostri. Racconta una storia di margherite colorate con l’inchiostro, famiglie incasinate e tele completamente nere.
Genere: Drammatico, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Polaroid.
 
 


Love is a polaroid
Better in picture
Never can fill the void
Polaroid, imagine dragons
 
 

( prologo – i see something so right doing the wrong thing)
• dove conosciamo i protagonisti di questa storia •
 
 
counting stars, one republic
 
La prima cosa che Nina notò, varcando la soglia, furono delle scarpe che la fecero quasi inciampare. Suo fratello le lasciava sempre dietro porta e ormai la ragazza ci aveva fatto l’abitudine, perché non aveva mai tempo né voglia per prenderle e spostarle da lì, eppure rischiavano di ucciderla ogni santa volta. Il bello era che neanche Andrea le voleva più, quelle converse mezze scassate, anche se non dava segno della sua volontà di buttarle, troppo pigro per portarle fino al contenitore della spazzatura sotto al palazzo e consapevole che sua sorella non l’avrebbe mai fatto al posto suo. Così quelle scarpe orrende stavano lì abbandonate perché l’idea di entrambi rimaneva in forse e a suo padre non era mai fregato granché di dove e in che stato fossero stati gli oggetti dei figli.
Nina le scostò da un lato con il piede. “Stavi cercando di eliminarmi, per caso?” chiese al ragazzino che, appollaiato sullo schienale del divano, guardava interessato un video al computer. Andrea le rivolse uno sguardo confuso, prima di portare nuovamente gli occhi sul monitor.
“Le scarpe.”
“Ah, e quindi?” Suo fratello premette sul tasto pausa e gli diede una rapida occhiata, come per capire cosa ci fosse di tanto sbagliato nella loro posizione. Sbuffò, quando la ragazza gli si andò a sedere vicino.
“Non so. Sei tu il genio della famiglia” gli rispose Nina. Non ebbe bisogno di mettere per bene a fuoco il video sullo schermo, per indovinare cosa suo fratello stesse guardando. Ormai il portatile era pieno di puntate registrate di giovani, carini, assassini e da qualche tempo a questa parte Andrea aveva deciso di utilizzare tutta la sua intelligenza in quel frangente. Solo due mesi prima aveva maturato un’insana fissazione per gli aerei di carta, le loro tecniche di volo e il modo di piegarli per farne origami complessi, poi era stata la volta della chimica basilare. Mucchi di sostanze sconosciute al genere umano si erano ammucchiate nel salone, provette violacee, verdi e un prototipo di vulcano pieno di robaccia fetida. Ora era arrivata la volta dei serial killer.
“Quanti morti e feriti hai già contato?” esclamò la ragazza, stiracchiandosi sullo schienale del divano. Il tredicenne la guardò con le sopracciglia aggrottate. Non che gli desse più di tanto fastidio che Nina si fosse seduta accanto a lui: il fatto era che sapeva per certo che sarebbe stato solo un modo per seguire le istruzioni della Frunzio («stia più con lui, lo faccia sentire capito»). Ma appena tornato da scuola era scontroso e scostante – due parole con la esse – e, anche se gli dispiaceva che Nina stesse male per lui, non riuscì a fare a meno di rispondere piccato: “lo vuoi davvero sapere o è un modo alternativo per stare un po’ con me?”
“Tutti e due.”
Ad Andrea non erano mai piaciute le mezze verità: le considerava solo uno stupido modo per rendere una bugia più accettabile e smussare i lati spigolosi della realtà. E sapeva che quella che sua sorella gli ha appena detto ne faceva parte perché quando era preoccupata per lui si grattava sovrappensiero la guancia e non lo guardava per bene in faccia. Anche se non avrebbe voluto non accorgersene, dato che gli rendeva tutto tremendamente difficile, notava tutti quei piccoli dettagli nella sua espressione.
Così si limitò a fare un sorriso poco convinto. “Come dici tu” borbottò, ritornando a fissare lo schermo lucido. “Comunque, non è morto ancora nessuno.”
La ragazza rimase in silenzio, incerta su cosa ribattere: ogni tentativo di fare felice quel bambino si trasformava in un totale buco nell’acqua. Per questo, quando lo vide ammorbidire leggermente quell’espressione corrucciata che ormai lo contraddistingueva, si stupì quasi del suo tentativo di darle una mano.
“A scuola non è successo niente, non sono stato inseguito da uno jeti e non ho neppure trovato un troll nei corridoi.”
“Beh, ci credo: era nel bagno delle femmine, non in quello dei maschi” ribatté Nina, stendendo i piedi sulla sedia davanti a sé e avvicinandosela. “Con la fidanzata come va?”
Andrea soppesò pensieroso le parole che stava per dire. “Apparte che lei non è la mia ragazza. A stento ci caghiamo. Cioè… voglio dire.” Quell’indecisione fece sorridere la ragazza, che rispose all’occhiataccia del tredicenne con una risata. “Voglio dire che lei c’ha i suoi amici e pensa a loro, come io penso ai miei. E va benissimo così. Chi le vuole, le femmine” affermò lui con finta sicurezza. “Sono tutte oche, si fanno le foto e le mettono su facebook come delle perfette decerebrate…”
“Quelle di Giulia ti piacciono.”
“Ma quando mai?”
“Me le hai fatte vedere il mese scorso, genio” gli ricordò Nina. Non era la prima volta che il fratello tirava fuori l’argomento, dopo averle fatto vedere le foto di una compagna di classe, ma tendeva a dimenticarsene o – piuttosto – sperare che lei lo avesse fatto perché da quel momento non ne aveva più voluto parlare. Giulia era un argomento tabù e il rossore che le guance del ragazzino avevano assunto le ribadì lo stesso identico concetto. “Tra l’altro è pure carina, quindi che ti lamenti a fa’?”
“Non è carina.”
“Mh?”
“È una tipa” sbottò lui, per poi sentirsi in dovere di aggiungere qualcos’altro: “una tipa con un bel naso.”
“E da quando in qua ti interessi al naso delle persone?”
Andrea scosse la testa, guardando per terra. Non era colpa sua se, tra tutte le cose che poteva dire, gli era venuto proprio in mente il naso della compagna di banco. L’aveva notato da subito: era piccolo, un po’ all’insù e a Giulia non piaceva proprio.
“Da sempre” ribatté sicuro, cercando un riparo da quella situazione nel computer acceso. Premé sul pulsante dell’accensione per inserire la password e si mise a smanettare sulla tastiera, mentre gettava di tanto in tanto un’occhiata a Nina.
“Allora com’è il mio naso?”
“Che cazzo ne so, io? È brutto e non mi interessa proprio.”
“Non sai neanche come è fatto il naso di tua sorella. Vergogna!”
“Sei una palla” esclamò infine Andrea, scostandosi bruscamente dalla sorella. “E una capera[1]. Come se ti interessasse!”
Mi interessa. E comunque non è colpa mia se inizi ad osannare il naso di una tizia.” Con le braccia incrociate, Nina valutò se recuperare il ragazzino e metterselo a sedere accanto o lasciarlo andare. La situazione la divertiva, non poteva negarlo – è cotto.
“Fatti i fatti tuoi” aggiunse il tredicenne. “E trovatelo tu, un fidanzato, prima di rompere a me.”
La ragazza scosse la testa. La sua situazione amorosa non lo aveva mai interessato – e meno male che aveva un fratello maschio, perché con una femmina sarebbe stato molto più difficile – sebbene fosse comunque tremendamente difficile tenerlo all’oscuro di tutto e raggirare la questione ogni volta che le si parava davanti. Perché Nina lo sapeva che non era sbagliato che le piacessero le femmine – come sapeva che l’arancione le piaceva più del rosso e che odiava il pesce – e magari lo sapeva pure suo fratello, ma per il momento voleva tenerlo al sicuro nella sua beata ignoranza dai casini che sarebbero potuti venire fuori.
“Io già sono vecchia e zitella – guardami! – tu invece sei giovane e devi fidanzarti prima…” esclamò invece con un sorriso, lasciando a metà la frase.
“Di finire come te?” concluse con prontezza Andrea, mentre seguiva da un orecchio la trasmissione e dall’altro la sorella che parlava.
“Sì. Di finire come me.”
 
*
 
Noemi camminava per via Roma come in un sogno, girava tra la gente senza urtarla e le stava bene passare la giornata così, con Manù che la seguiva ansante – perché lui le persone le scontrava tutte – e delle converse ai piedi troppo borghesi per essere accettabili. Noemi si fermò, sorrise all’amico come se non si rendesse conto della sua stanchezza e poi continuò a scivolare via, appendersi ai lampioni per svoltare e ridere di quella risata fresca e genuina che faceva impazzire Emanuele. Noemi era Noël con la dieresi, perché la dieresi dà quel po’ di figo che in un nome senza fronzoli non c’è. “Tutti gli artisti c’hanno il nome d’arte con qualcosa di particolare” aveva provato a spiegare a Cesare che, sebbene si fosse stabilita a tempo indeterminato a casa sua, non aveva ancora avuto le palle di cacciarla via. L’unico che sembra capire la questione di quei due puntini del cazzo – così soprannominati dal suo coinquilino – era stato Emanuele, ma lui le dava ragione su qualsiasi cosa quindi non valeva. Non valevano neppure i suoi ammonimenti sulle tinture di colori forti perché tra un po’ le avrebbero polverizzato i capelli. Emanuele non valeva mai.
“Che vuoi fare?” le chiese il ragazzo quando finalmente riuscì a raggiungerla. Erano davanti ad una roulotte dei donatori del sangue e non aveva idea del perché si fosse piazzata proprio lì – non che gli importasse più di tanto.
“Boh. Ti piace il negozio della disney?”
“Che?”
“Dicevo: ti piace il negozio della disney?” Noemi aveva delle ciocche di capelli rosa un po’ stinte arricciate sulle orecchie, che la facevano sembrare un piccolo zucchero filato alla fragola, e la voce un po’ affaticata per la corsa. Nonostante la conoscesse da secoli, tanto da averla vista prima che diventasse Noël, Emanuele non aveva idea del perché quella ragazza cambiasse colore di capelli così spesso. L’aveva vista viola, verde, fucsia; l’aveva vista talmente tante volte diversa che quel cambiare continuamente era diventata la sua normalità e quasi non se ne accorgeva più, quando la vedeva di nuovo mutata. Si trasformava, lei.  
“Non ci entro da secoli” affermò la ragazza, gonfiando le guance come una fatina imbronciata. “Vieni con me” gli chiese ancora, e sapeva che lui non le avrebbe detto mai di no. La sua mano cercò quella dell’amico, la sfiorò appena e poi lo trascinò via da quella panchina, proprio mentre Emanuele avrebbe voluto dire di no – col cazzo che veniva con lei in un posto pieno di mocciose – ma si limitò a roteare gli occhi con fare teatrale. E si ritrovarono lì, tra dei peluche grandi quasi quanto loro, e la musica del Re Leone sparata nelle orecchie. Tra tutto quello che poteva capitare, gli era andata di lusso, pensò il ragazzo mentre osservava l’amica. Noël era seduta per terra, aveva un orso marrone tra le braccia. Poi si alzò e glielo mise in grembo. Così, a caso.
“Smettila di essere imbronciato” disse, ma quella imbronciata adesso era lei. “Ti ho trovato un amico! Siete morbidi uguali” aggiunse per dargli una spiegazione, carezzando leggermente il manto dell’animale di pezza. “E pure seriosi.”
Emanuele alzò leggermente un lato della bocca. “Doveva essere un complimento?” chiese ironico.
“Forse.”
“Allora non credo abbia funzionato.”
Conosceva Noël da secoli, ormai; erano andati alle medie insieme e, seguendola al Genovesi[2] per altri cinque anni, l’aveva vista diventare dalla bambina un po’ imbarazzata e dolce a quella sottospecie di tornado che adesso lo tiranneggiava tipo Hitler. Aveva assistito muto a tutti i suoi cambiamenti, alle sue incertezze e alle smorfie saltuarie – conosceva le pieghette ai lati delle sue guance quando era imbronciata meglio di qualsiasi altra cosa. Si chiedeva solo se ne fosse valsa la pena.
Mentre stava ancora tenendo quel peluche sulle gambe, sentì le dita della ragazza sfilarglielo dolcemente dalle mani ma, a quel tocco, serrò la stretta. “È mio” affermò e, per tutta risposta, Noemi rise di gusto. Gli si accostò poco dopo, con un Bambi accovacciato tra le braccia.
“Come la mettiamo, adesso?”
“La mettiamo che io e il mio orso siamo molto più belli e simpatici di voi altri” esclamò il diciannovenne.
“Touché.” Detto questo, la ragazza rispose alle occhiate perplesse delle commesse con una linguaccia, poggiando la testa sulla spalla dell’amico. Ora erano entrambi seduti per terra, braccia e gambe intricate tra loro. Nel frattempo una donna, ferma davanti alle barbie delle principesse con la bambina, gli lanciò un’occhiata perplessa, trascinandosi via la figlia. La ragazza le avrebbe risposto con una linguaccia, se solo avesse continuato a fissarli con quell’espressione. Comunque, su una cosa aveva ragione: quel posto era totalmente sbagliato per loro due. “Andiamo via” gli sussurrò improvvisamente nell’orecchio, girandosi verso di lui.
La posizione di abbandono di Manù, appoggiato appena con la schiena al muro, le lasciò un retrogusto strano in bocca, un po’ come le mandorle tostate troppo a lungo. Quel limbo tra precarietà e sicurezza stava diventando la sua posa preferita e Noemi non avrebbe potuto fare a meno di notarlo, perché da quando era all’università – la fantomatica e tanto agognata Università – i momenti in cui stavano insieme erano diminuiti e lei passava più tempo ad osservarlo, a capirlo. Emanuele sembrava essersi arreso: faceva legge, una facoltà che non gli era mai piaciuta, per soddisfare dei genitori che non aveva mai soddisfatto con una laurea che sarebbe potuta servire a qualcosa se solo la Federico II non fosse stata così dannatamente piena di gente.
“Non è che ci sei rimasta male?” le chiese all’improvviso lui, scostandole una ciocca di capelli dal viso. “Perché io e Orso siamo più belli di te, intendo.” Quella richiesta inaspettata l‘aveva insospettito, notò Noemi, e si era alzato per eludere le occhiate incuriosite dei commessi. Sentì un rumore, come se qualche bambina avesse strappato un velo dei costumi, e si voltò verso quella zona. Una piccoletta con i capelli castani agitava una bacchetta di plastica lilla che si illuminava.
“Nah. Un orso non potrebbe mai concorrere con la mia rinomata bel-”
Le diede quasi fastidio essere stata interrotta; una sensazione cui non sapeva dare nome le asserragliò lo stomaco in una morsa. “Andiamo” le sussurrò il ragazzo, tirandola leggermente per una manica.
“Dove?”
“Shh.” Con un dito poggiato sulle labbra, Emanuele la zittì mentre la guidava tra gli scaffali delle principesse, nascondendosi dietro ai vestiti di carnevale. Fu solo quando arrivarono alla porta, che si decise a dirle il perché di tanta segretezza: dalla giacca a vento tirò fuori un piccolo Stitch con un orecchio malandato. “Ti piace?” le domandò con un sorriso.
Noemi gli diede un leggero schiaffo dietro alla nuca perché non si montasse troppo la testa. Quel giochetto la divertiva ma allo stesso tempo non voleva ammettere che l’avesse in qualche modo colpita. Emanuele non aveva mai soldi con sé e quei pochi acquisti che faceva li teneva soltanto per ricordo o cercava di piazzarli a qualche amico. Non gli piaceva possedere. L’unica sensazione che desiderava provare era l’ebrezza di quel gesto sconsiderato di cui l’amica si rendeva complice, girando per negozi con lui. A volte, nelle discussioni, la diciannovenne usava quella scusa per offenderlo («cleptomane di merda» «alternativa del cazzo») ma la realtà era che divertiva anche lei, quando la rendeva partecipe delle sue azioni criminali – tipo Bonnie e Clyde.
“Ha un orecchio mozzo” si limitò a constatare Noël, mentre gettava uno sguardo alla sicurezza alla porta del negozio. Li stavano guardando non meno delle altre persone per strada.
“Non concentrarti subito sui difetti” la rimproverò il ragazzo. “Se inizi a guardare qualcosa per demolirla, non stupirti se poi i pregi sono coperti da ciò che hai appena criticato. Comunque per me è carino. Niente di che, sia ben chiaro, ma quell’orecchio gli dà l’aria di un giocattolo vissuto.”
Le sue mani si posarono dolcemente sugli occhi di Noemi con lo stesso tocco che riservava alle cose cui voleva bene. “Sai di che colore era?” le sussurrò tra i capelli, pizzicandole la guancia con quella rada barba che si ostinava a non tagliare.
“Blu.”
“E…?”
“Azzurro.”
“Intendevo blu come. Quello che hai detto equivale a descrivermi come il tuo amico caucasico. Voglio sentirlo, quel blu.”
La ragazza scosse la testa – come cazzo puoi sentire un colore? – poggiando a sua volta le mani su quelle dell’amico, ma non abbandonò la sfida. “L’azzurro della consistenza di un pupazzo morbido e usato, di pezza perché i bambini devono poterselo strusciare in faccia senza starnutire per piume o cose così.”
Di tutta risposta, Emanuele lasciò che le sue palpebre si aprissero e la prima cosa che la ragazza vide fu proprio il suo sorriso completo, radioso. La sensazione di abbandono che aveva notato mentre era seduto ora aveva lasciato il posto ad un’inspiegabile felicità. “Niente male per la prima volta. Cesare non te lo fa mai fare?”
Noemi scosse la testa. Sebbene il suo coinquilino la lasciasse giocherellare con i suoi pennelli e il barattolo della china, non le aveva mai insegnato nulla né lei aveva voluto andare oltre allo scrivere sulle pareti. A volte, per rilassarsi, la ragazza colorava i petali dei fiori con gli acquerelli.
“A Cesare non piace spiegare le cose.”
“Neppure a mio fratello” affermò Manù e il rimpianto nella sua voce era tangibile. Quando parlava di suo fratello – Davide il medico, Davide che aveva preso cento e lode alla maturità, Davide che non fumava, non beveva e non si drogava – non riusciva a nascondere l’astio che provava verso di lui. Il problema era che era una palla, Davide. Tutta la sua apparenza da figlio perfetto era solo una copertura per mascherare la merda che aveva dentro. L’ODC, COD[3] o come cazzo si chiamava.
Noemi gli sventolò la mano davanti al viso, preoccupata. “Ehi, amico” lo richiamò, facendo la voce da bambina. Non era la prima volta che lo vedeva così, le labbra impercettibilmente curvate verso il basso e i pugni stretti. “Smettila di pensarci, okay?”
Emanuele le fece un sorriso appena abbozzato. “Okay.”
“Okay sì o okay vabbè?”
“Okay devo andare” rispose lui. Con un movimento rapido le poggiò il peluche in grembo, spostandole le mani in modo tale da modellarle in un abbraccio. “Questo tienilo tu, tanto a me non serve.”
Non le lasciò neppure il tempo di rispondere, che già se n’era andato, per paura di vedersi rifiutato anche quel regalo.

 
*
 
 
Cesare aveva ventidue anni, un appartamento in centro e una piantina di margherite sul balcone. Gli bastava quello. Aveva pure una coinquilina, un’amica di famiglia che si era piazzata a tempo indeterminato a casa sua e non pagava neppure l’affitto, ma non credeva sarebbe cambiato molto nella sua vita se lei non ci fosse stata. In realtà non ne era del tutto convinto: senza Noël, con le sue unghie smangiucchiate e la sua capacità di creare casino anche nell’ordine, le scritte sulle pareti non ci sarebbero state. Senza Noël le margherite sarebbero state del loro colore naturale e non viola e blu e rosse. Senza Noël lui sarebbe stato già morto, forse.
Il fatto era che Cesare era un asociale del cazzo; gli piacevano i disegni a china e i manuali di psicologia a port’Alba e un po’ anche quella ragazza. Da quando si addormentavano sullo stesso divano, i corpi incrociati come nei peggio dipinti, qualcosa nella sua vita era cambiato. Noël riempiva il vuoto e colmava le mancanze ad incastro, cercava la sua anima e la avvolgeva, tirandolo fuori dall’apatia in cui era cascato negli ultimi mesi. I ventidue anni fanno proprio schifo, se vorresti fare l’artista e invece ti ritrovi solo con un vaso sul balcone, l’affitto da pagare e le lezioni di neuropsichiatria ad orari indecenti. Cesare ci aveva provato, a ritornare al principio del non-più-liceale, all’entusiasmo, ma alla fine si ritrovava sempre ad autodiagnosticarsi disturbi a caso. Studiare tutta quella roba l’aveva reso ipocondriaco di malattie psichiatriche, oltre che un esaurito.
L’unico modo per fermare quel malaugurato processo mentale era dipingere, come aveva fatto ormai ininterrottamente dall’una di pomeriggio – si era dimenticato pure di pranzare. Quando studiava per gli esami si dava delle pause di qualche quarto d’ora per prepararsi un rapido caffè, dormire se andava bene un’ora, e poi rimettersi al lavoro; mentre dipingeva invece non si permetteva neppure questo lusso. Una cioccolata non-più-calda lo aspettava da ore sul davanzale, con una sottile patina opaca che rivestiva la sua superficie per indicare che era veramente gelata. Non sapeva neppure perché avesse preparato quella bevanda: se proprio fosse stato morto di sete, un bicchiere d’aranciata scrausa dal frigo gli sarebbe andato bene. Avrebbe bevuto pure l’acqua dei pennelli, se ne avesse sentito il bisogno. Eppure sapeva che non si sarebbe alzato dalla terra, tra quel mare di fogli bianchi macchiati di nero, fino a quando la sua coinquilina non gli avrebbe sbraitato dietro che “non si può mangiare in questo casino” e sembrava un invasato. In realtà Noël avrebbe detto più la prima, delle due frasi: che lui sembrasse un pazzo, non le era mai importato più di tanto.
La porta gli rispose quasi a comando, aprendosi di scatto, e per poco non andò a sbattere contro il muro. Noemi era plateale anche nel rientrare in casa, sì.
“Ehi, Watson” lo salutò la ragazza. Aveva le chiavi ancora in mano e un peluche poggiato sulla borsa. “Stai ricercando il campo di esistenza del pavimento? Perché, se è così, rimanda il tuo studio a dopo e mangiati queste patatine con me.”
Cesare diede una rapida scorsa al cartoccio che aveva nella busta, storcendo il naso. L’odore del Patatocchio[4] sotto casa si sentiva fin sopra alle finestre, ma inspiegabilmente le patatine non puzzavano più di tanto.
“Lo sai che, per quello che ne sappiamo, potrebbero friggerci dentro anche topi morti, vero?”
Lei si limitò ad alzare le spalle. “Probabile. Ma la vita è noiosa, senza un po’ di sorpresa” ribatté Noël, poi tirò fuori il cartoccio marrone e si sedette per terra accanto all’amico, tendendogli una patatina. Dovette aspettare qualche secondo prima che lui, ancora un po’ incerto, la prendesse e la addentasse con cautela. Poi la fame ebbe la meglio e i due si ritrovarono a smangiucchiare pezzi di patate intrisi di maionese.
“Prenderemo la peste.”
La ragazza, di risposta, fece spallucce. “Invece di lamentarti, pensa a come mangi” lo rimproverò bonariamente, indicandogli le briciole che sta sparpagliando per terra. “Non pulisco il pavimento per te.”
“Come se tu lo facessi mai.”
In realtà Noemi era una sorta di parassita: non pagava l’affitto, si rifiutava di svolgere anche le più semplici mansioni casalinghe – aveva bruciato una pentola solo per fare un uovo fritto – ma a Cesare non dispiaceva più di tanto vederla girare seminuda per casa, che giocava con i suoi pennelli o leggeva qualche libro cervellotico con l’espressione corrucciata. Non avrebbe dato fastidio a nessuno. Il bello era che lui non aveva mai provato neppure a sfiorarla. In sette mesi (e quindici giorni) non ne aveva sentito il bisogno, sebbene sapesse che questo non era normale. E se lo ripeteva da quando teneva il conto del tempo che passava con lei, magari mentre stava sdraiato per terra, troppo fatto per alzare la testa, e se la ritrovava al fianco senza averla sentita arrivare. Se lo ripeteva quando si addormentavano insieme d’inverno, sotto lo stesso plaid. Se lo ripeteva finché non gli si chiudevano gli occhi e la vedeva alzarsi per spegnere la luce. Quella ragazza aveva un suo fascino fatto di piccoli bronci e frasi lasciate a metà, proprio molto tumblr – come avrebbe detto sua cugina Federica – ma a lui non piaceva e non riusciva a capirne il perché.
“E quel peluche?”
“Un regalo di Emanuele.”
Cesare sbuffò. Quel ragazzo non gli stava affatto simpatico. Da quelle poche volte che gli aveva parlato non aveva ricavato una buona opinione e a questa si aggiungeva il fatto che fosse un tronfio cleptomane, che imbrattava i muri della città con scritte idiote e non sapeva prendere una decisione senza l’aiuto di Noël. Un po’ gli faceva pure pena: era da quasi vent’anni che lei lo teneva nella friendzone più assoluta. Emanuele sperava che lei gli desse un’opportunità, ma senza imporglielo né proporsi lui, semplicemente aspettando. Aveva una pazienza da dio, quel ragazzo.
“Un regalo rubato di Emanuele” aggiunse Cesare, calcando la voce su quell’aggettivo. Non capiva perché non pagare un oggetto che costava poco e non serviva a nulla.
“È comunque un regalo” ribatté lei. Con la mano accarezzò leggermente il pelo del pupazzo, lanciando un’occhiataccia al coinquilino. “Almeno lui ci pensa, a Natale.”
“Natale è tra due mesi, Noemi.”
“Tanto lo so che lo schifi.”
“Schifo solo il suo modo di ragionare. Quel coso costava massimo dieci euro, i libri delle bancarelle cinque!” E schifava anche dire schifo, perché era una parola storpiata che neanche sarebbe dovuta stare sul dizionario di italiano. “Mi dai una ragione valida per cui rubarli?”
Noël si alzò di scatto, senza dire nulla. Cesare poté sentire il suo respiro affannoso, adirato, e seppe che stava per andarsene, lasciandosi dietro una conversazione interrotta. Non ricordava neppure una volta in cui era riuscito a discutere civilmente con lei: sembrava impossibile parlarle ed evitare, allo stesso tempo, di ritrovarsi come unica risposta una porta chiusa. “È divertente, okay?” affermò la ragazza, laconica.
“Vi divertite in modo strano, voi giovani moderni” affermò lui. Non aveva voglia di fare polemica né di continuare il discorso, perché in realtà non gliene fotteva un cazzo, ed era sostanzialmente stanco di applicarsi a discutere con lei.
“Parla quello che passa la giornata a dipingere fogli di nero. Almeno il nostro, come passatempo, è meno da psicopatici.”
E Cesare avrebbe voluto rispondere che no, erano loro quelli che hanno bisogno di un consulto da uno psichiatra, ma lasciò perdere. Aveva sonno. “Mi prendi quella tazza sul balcone?” chiese, indicandogliela con la testa. Dopotutto anche lui si considerava psicopatico.
“Tu odi la cioccolata calda.”
“Io odio le persone che fanno troppe domande.”
“Touché” ribatté Noemi, incerta se continuare la discussione o lasciar perdere anche lei. Non sapeva perché, ma quella discussione le aveva lasciato un senso di chiusura allo stomaco, che impediva alla rabbia di scemare. Eppure si alzò per prendere la tazza e gliela porse, sedendosi di nuovo per terra.
“Faresti meglio a non berla.”
Cesare le rivolse un’occhiata perplessa. “Se non sono morto prima, non morirò per una cioccolata fredda. E poi, come hai detto tu, rischiare è divertente.”
Da quella affermazione, Noemi capì che aveva proprio archiviato la questione e gliene fu quasi grata; nonostante scattasse velocemente, non le piaceva litigare, ancora di meno se era con il suo coinquilino. Detestava il dopo, i saluti negati e il silenzio pesante. Detestava il fatto che nessuno di loro due sembrasse pronto a scusarsi con l’altro, perché erano entrambi dei coglioni grandissimi cocciuti. Detestava non dividere il plaid con qualcuno che glielo rimboccasse quando si scopriva d’inverno. Così cercò di distrarsi, smanettando con i pennelli sparsi per terra, colorando di viola un foglio bianco. Stette semplicemente in silenzio, senza badare al tempo che scorreva.
“Cesare?” chiese all’improvviso. Aveva trovato una risposta alla domanda fatta poco prima, ma lui ormai non era più nelle condizioni di risponderle. Dormiva con un braccio sotto la testa, le mani ancora strette attorno alla tazza. Noemi gliela sfilò con un leggero sorriso, perché lui era così, il momento prima parlava e quello dopo sonnecchiava, e non potevi mai essere certo che ti stesse ascoltando. L’effetto del caffè e di chissà quali altre sostanze eccitanti, che lo facevano saltellare per massimo un’ora da una parte all’altra della stanza, svaniva di colpo; per questo Noël lo ritrovava spesso dormiente, per terra, le dita sporche di inchiostro. Così, con la sicurezza e la calma di chi compie una routine, lo copriva con un plaid scozzese e andava a cercare dei biscotti in dispensa, dopo averlo osservato per qualche istante. Cesare aveva un pollice grigio di acquerello e i capelli scompigliati, ma nella sua trasandatezza c’era qualcosa di talmente tenero e innocente, che non se la sentiva di svegliarlo. Era più carino, da addormentato.
“Comunque sembra giusto fare la cosa sbagliata, a volte.”
 
[1] Parrucchiera in napoletano.
[2] È un liceo classico.
[3] OCD, disturbo ossessivo compulsivo.
[4] È una catena di negozi che vendono patatine fritte. Sinceramente non so se si chiamino così in tutta Italia o solo a Napoli.
 

 
Angolo dell’autrice;
Ciao a te che sei arrivato alla fine ** Innanzitutto ringrazio tutti quelli che hanno lasciato un commento al prologo – adesso che ho pubblicato vengo a rispondervi singolarmente, perché siete stati troppo gentili – e poi mi scuso per la lunghezza di questo capitolo. Il fatto è che vorrei farli più simili possibile a quelli dei libri, quindi un dieci pagine in formato A5. Ce ne saranno di più piccoli, certo, però dovrebbero essere quasi tutti così – ci tengo alla precisione nel numero di parole. E ora passiamo alla storia in sé: questi personaggi che qui sono nominati sono i miei protagonisti, quelli che vi romperanno le palle per tutta la vicenda e a cui sono particolarmente affezionata. I POV di Noël con la dieresi, Cesare, Nina ed Emanuele si alterneranno in ogni capitolo, anche se non sono sempre presenti tutti e tre, e niente… sono i miei bambini. Se cliccate sul loro nome, vi apparirà il prestavolto che ho scelto per rappresentarli (ehm, diciamo che ho fatto un casino e non riesco a metterli senza che compaiano le foto a grandezza naturale). Ah, e volevo dirvi che il titolo e la citazione iniziale sono ripresi da ‘polaroid’ degli Imagine Dragons, che mi ha accompagnata nella creazione di Noemi e della storia in generale. Spero solo di aggiornare questa long con un po’ più di velocità, ma la vedo dura con la scuola e tutto il resto (-.-”)
Sperando che la prossima volta sia prima che tra un mese,
 
fuoritema
PS: Ci tenevo a ringraziare una delle lettrici (scusami ma non ho idea di quale sia il tuo nickname di efp) per avermi creato un banner bellissimo che devo ancora capire come mettere... Intanto lo ammiro .-. (eppure un tempo lo sapevo fare).

 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: fuoritema