Nelle due ore
che trascorsero insieme, Tito tentò di
illustrare a Lidia i confusi dettagli del piano che gli si stava
disegnando
nella mente, ma la ragazza non era dell’umore giusto per
ascoltare quelle
congetture. Rannicchiata contro il suo petto, la giovane cercava di
trarre
conforto dalla sua presenza e dal suo calore, più che dalle
cose che andava
dicendo – anche perché, man mano che Tito
acquisiva sicurezza nelle sue idee,
la fanciulla ne perdeva. Malgrado l’enfasi crescente che il
ragazzo metteva
nelle sue parole, infatti, Lidia non riusciva a credere che i progetti
di fuga elaborati
da Tito potessero funzionare nella realtà.
Sembrerebbero
ridicoli
persino in un libro,
pensava, sconsolata. Noi non siamo i tipi
da mollare tutto e scappare via, da soli, magari inseguiti da dei
malintenzionati. Ci riacciufferebbero dopo qualche ora.
Quando, nel
tardo pomeriggio, Lidia lasciò la casa di Tito,
non poté fare a meno di sentirsi più sperduta e
confusa di quando vi era
entrata. Se da un lato le faceva piacere sapere che il giovane
l’amava al punto
da essere disposto a lasciare tutto quello che aveva a Roma per fuggire
con
lei, dall’altro la consapevolezza di quanto fosse pericoloso
anche solo discutere di quei
progetti le faceva
tremare le mani. La sua mente, abituata a cercare sempre il lato
negativo di
ogni situazione, le illustrò con una certa dovizia di
particolari tutto quello
che sarebbe potuto andare storto. In primis, il viaggio da Roma alla
Germanica:
con quale scusa Tito si sarebbe allontanato dalla casa paterna? Avrebbe
viaggiato da solo? E poi, naturalmente, vi era la fuga in
sé. Ci prenderanno,
pensava. Ci ammazzeranno di sicuro. I
germanici non
apprezzeranno un mio tentativo di fuga. E nemmeno
l’Imperatore lo apprezzerà,
in effetti. Ci farà cercare dall’esercito, ci
arresterà, ci condannerà a… e se
anche riuscissimo a farla franca, moriremmo comunque di fame. Non
sappiamo fare
niente, noi. Dove prenderemmo i soldi? Di certo papà non
sarà disposto a
passarmi una paghetta mensile…
Senza nemmeno
rendersene conto, Lidia prese a girovagare per
le strade di Roma e fu solo quando si trovò di fronte a una domus famigliare che si riscosse dalla
sorta di trance nella quale era caduta. Era la casa di Lucilla,
un’altra
persona che le sarebbe mancata da morire, su nelle fredde foreste
germaniche.
Senza esitare,
Lidia premette con forza un dito sul
campanello di bronzo che scintillava nella luce calda
dell’ora che precede il
tramonto e attese che qualcuno venisse a riceverla. «Donna
Lidia» l’accolse,
dopo qualche minuto, un’anziana serva. «Posso fare
qualcosa per te?»
«Lucilla
è in casa?» chiese, allungando il collo per spiare
oltre il cancello. «Tra qualche giorno lascerò
Roma e vorrei salutarla.» La
donna la lasciò entrare: «Naturalmente; vado
subito a chiamarla. Vuoi
accomodarti in casa?»
La giovane
scosse il capo. «No, grazie. Aspetterò in
giardino.» Mentre la serva si allontanava con un cenno
d’assenso, Lidia si
lasciò scivolare sulla panca di granito posizionata
all’ombra del grande leccio
che svettava nel centro del giardino della casa dell’amica. Ho sempre amato questa pianta,
pensò,
inclinandosi all’indietro fino a quando la schiena
incontrò la corteccia
ruvida. Un tempo a uno dei rami più bassi era appesa
un’altalena e lei e
Lucilla avevano passato dei pomeriggi memorabili a dondolarsi
nell’ombra fresca
e a fingere di prendere il volo.
Abbiamo
anche fatto litigate memorabili, qui sotto, ricordò,
con un sorriso carico di
nostalgia. Litigate che si risolvevano nel giro di pochi minuti,
però, perché
Lucilla era così: le bastava un istante per passare
dall’allegria più sfrenata alla
rabbia più esplosiva… e viceversa. Lidia la
invidiava.
Chissà
se in Germanica
crescono i lecci,
pensò la ragazza, alzando gli occhi sulle foglie che
fremevano, scosse da una
brezza leggera. Non ne aveva idea, ma nella sua fantasia le foreste del
nord erano
popolate da enormi abeti neri e vecchi alberi lugubri e scuri,
ricoperti di
muschio ed erbe limacciose. La fanciulla tremò dal disgusto
al solo pensiero di
sfiorare uno di quegli alberi; poi
una voce proveniente dalla sua sinistra la distrasse. «Eccoti
qui! Cosa ci fai qui
fuori? Potevi entrare in casa!»
Lidia si
voltò verso l’amica, sulle labbra un sorriso
pallido. «Sono un po’ troppo nervosa per starmene
seduta al chiuso… preferisco
restare all’aperto, almeno non mi manca
l’aria» confessò. Lucilla
sbatté
rapidamente gli occhi, elaborando le parole della ragazza bruna, poi
ridacchiò.
«Aaah, ho capito: tu dove vai?» le chiese,
guardandola con fare eloquente.
«A
Erding, o da quelle parti» replicò Lidia,
sorpresa. «Parti
anche tu?»
Lucilla
annuì. «Sì» disse, con aria
svagata. «Però io vado
più a nord. Afen, Asen, qualcosa del genere. Nel bel mezzo
delle montagne,
comunque. Mi sono informata e mi hanno detto che, da quelle parti,
d’inverno
nevica un sacco: spero che non mi si ghiaccino le dita dei
piedi!»
Lidia non
poté fare a meno di percepire una nota stonata.
«Non
mi sembra che la cosa ti disturbi più di tanto»
fece, incerta, osservando con
attenzione il volto luminoso di Lucilla.
L’altra
fanciulla rise, quasi trovasse la sua perplessità
estremamente divertente. «No, infatti!»
L’amica
la guardò con tanto d’occhi: come poteva prenderla
così alla leggera? «M-ma…»
balbettò. «Ma non hai paura? Dover sposare un
germanico…»
Lucilla
sventolò una mano con aria di sufficienza. «E che
vuoi che sia?» sbuffò. «Tanto gli uomini
sono tutti uguali. Prendilo romano o
prendilo germanico poco cambia, solo una cosa vogliono!»
Lidia arrossì,
intuendo il significato non detto. «Se non altro»,
sorrise Lucilla, «su
dovrebbero esserci un po’ meno formalità! O
così mi hanno detto, almeno.»
La ragazza
scosse il capo: Lucilla riusciva a trovare un
risvolto positivo praticamente in tutto. A
volte si chiedeva se al mondo esistesse qualcosa in grado di
abbatterla. «E non
ti dispiace lasciare Roma?» indagò.
«Un
po’», ammise l’amica, facendo le
spallucce, «però in
Germanica ci sono tante cose interessanti…»
«La
nebbia» sospirò Lidia.
«Gli
orsi neri!» controbatté la seconda ragazza.
«Pioggia
tutto l’anno» gemette Lidia.
«I
lupi striati!» esclamò Lucilla.
«Ma
queste non sono cose positive!»
«Come
no! Sarà un’avventura!»
Lidia si
passò una mano sul volto, trovandosi a sorridere suo
malgrado. A volte si stupiva di come lei e Lucilla avessero potuto
diventare
tanto amiche: la loro diversità non si limitava
all’aspetto fisico – Lucilla
era bionda, paffuta e con dei grandi occhi azzurri, mentre Lidia era
scura e
minuta – ma interessava soprattutto i loro caratteri. Se
Lidia bramava la
tranquillità e la sicurezza, gli occhi di Lucilla si
illuminavano di fronte
alla prospettiva dell’avventura e del pericolo.
Non che si fosse
mai realmente trovata in una situazione di
pericolo, comunque.
«E
Tito come l’ha presa?» chiese la bionda, facendosi
seria.
Lidia si
guardò attorno per assicurarsi che nessuno la
sentisse, poi sussurrò, avvicinandosi all’orecchio
dell’amica: «Dice che verrà
a prendermi. Ha degli amici di stanza a Erding e secondo lui portarmi
via da lì
sarà piuttosto semplice.»
Lucilla la
guardò con aria critica. «Lidia… a me
non sembra
una grande idea. Se anche ci riuscisse… dove
andreste?»
Lidia
strusciò la punta del piede a terra, afflitta. «Lo
so»
sospirò. «Nemmeno a me convince, il suo piano.
Però lui è così
deciso…»
La sua amica
scosse il capo. «Finirà col farsi
ammazzare» borbottò,
rivolta più a se stessa che a Lidia.
«Ho
cercato di fargli cambiare idea, ma lui… l-lui è
così
determinato. Ho paura che faccia qualche idiozia…»
la ragazza sentì le lacrime
bruciare agli angoli degli occhi. Avvertendo che l’umore
dell’amica era in
caduta libera, Lucilla corse ai ripari. «Su, vedrai che
cambierà idea. Deve
solo abituarsi alla tua partenza. E chissà, magari ti
troverai bene con il tuo
nuovo marito. Io spero di trovarmi bene con il mio», si
interruppe di colpo,
poi sorrise, «per quanto non so come farò a non
scoppiare a ridere ogni volta
che pronuncerò il suo nome. Si chiama Ekbert. Che razza di
nome è Ekbert?! Sembra
uno starnuto! Vorrei
tanto che avesse un nome normale, come… non so…
per esempio, il tuo come si
chiama?»
Travolta dal
fiume di parole di Lucilla, Lidia ci mise qualche
attimo a capire che la ragazza le aveva rivolto una domanda.
«Eh… io… io non lo
so» disse, quasi stupita.
La giovane
bionda la guardò con gli occhi sgranati. «Non lo sai? Ti sposi tra meno di un mese
e non sai nemmeno come si chiama il tuo uomo?»
«Non
me lo sono certo scelta io» ribatté Lidia, un
po’
piccata.
«D’accordo,
ma non sei curiosa?»
La ragazza bruna
si strinse nelle spalle, abbassando lo
sguardo. «No» ammise. «Preferisco non
pensarci, a dire il vero. Se non ci penso,
mi sembra che non sia vero niente.»
Lucilla scosse
il capo, guardando l’amica con un’espressione
preoccupata. «Fare così non ti aiuterà,
Lidia» le fece notare, con delicatezza.
«Al di là delle battute, ho preso
anch’io un colpo, quando l’ho scoperto.
Però,
poi, riflettendoci bene, ho pensato che, forse, anche da questa cosa
potrà
venire qualcosa di buono. Anzi, sono certa che sarà
così.»
La giovane
annuì. «Sì, lo so»,
sospirò, «ma per te è più
facile. Io invece ho Tito.»
«Avevi Tito…»
«So
anche questo!» scattò Lidia, facendola sobbalzare.
«Non c’è
bisogno che tu me lo ripeta!»
Sorpresa dal
tono dell’amica, anche Lucilla alzò la voce.
«Lo
ripeterò finché non smetterai di far finta che
questa sia solo una situazione
momentanea! Perché ho come l’impressione che tu ci
creda veramente, al progetto
di Tito… quindi te lo ripeto: è una pazzia. Voi
non potete scappare insieme!»
«So
come stanno le cose», fece Lidia, balzando in piedi e
iniziando
a camminare nervosamente avanti e indietro, «ma io voglio
crederci! Voglio
credere di avere una via d’uscita!» In due passi
Lucilla la raggiunse e la
afferrò per le spalle. «E per far cosa? Per stare
ancora peggio quando non
succederà e dovrai ammettere di esserti illusa
inutilmente?»
Lidia
soppesò le parole della ragazza. «Dovrei fare come
fai
tu, allora? Rassegnarmi già in partenza?»
Lucilla scosse
la testa. «Ma non vedi che io non sono rassegnata?
Io voglio impegnarmi per
essere felice. Qui, in Germanica… non mi interessa, non
permetterò a nessuno di
rovinarmi la vita.»
«Facile
dirlo adesso» mormorò Lidia, lanciandole
un’occhiata
storta. «Vallo a spiegare a quel selvaggio
di tuo marito, quando ti farà diventare la sua schiava e ti
costringerà a
sfornare un figlio all’anno.»
Lucilla la
soppesò con lo sguardo. «Non ti sembra di essere
un po’ troppo melodrammatica, adesso?»
«In
che senso?»
«Non
mi pare che le donne germaniche siano tutte delle serve
dei loro uomini.»
Lidia la
guardò con aria critica. «Ne hai incontrate
molte?»
«Qualcuna»
rispose Lucilla, con una smorfietta.
«E
comunque noi siamo romane» insistette la ragazza bruna.
«Quelli
ci odiano e di certo non ci renderanno la vita facile.»
La bionda si
strinse nelle spalle. «Forse», concesse,
«e
forse no. Io non li odio, magari nemmeno mio marito odierà
me. E comunque non
sarà certo immune al mio fascino femminile.»
Lidia si
ritrovò a sorridere di fronte all’atteggiamento da
donna navigata assunto dall’amica, mentre
l’irritazione di un istante prima
iniziava a sfumare. «E comunque non è solo
quello» disse, dopo alcuni minuti in
cui le due ragazze osservarono in silenzio il giardino, ognuna persa
nei propri
pensieri. «Ho paura che mi mancherà Roma, la vita
qui, i miei amici…»
«…
i tuoi genitori?» le suggerì Lucilla.
«Mia
madre, se non altro» borbottò lei.
«Be’,
penso che sia normale», disse pensierosa la ragazza bionda,
«ma è per questo che io intendo cercare di
ambientarmi subito. Del resto siamo
donne, l’abbiamo sempre saputo che un giorno o
l’altro avremmo dovuto farci una
nuova famiglia, no?»
Lidia dovette
ammettere che, in un certo senso, Lucilla non
aveva tutti i torti. Anche se, fino al giorno prima, lei era stata
convinta che
la sua nuova famiglia sarebbe stata a Roma, poco distante dalla casa
dove era
nata e cresciuta. «Forse hai ragione»
sospirò, cercando vanamente di
convincersi che c’era una certa dose di verità,
nelle parole di Lucilla.
«Ma
certo che ho ragione!» esclamò la sua amica,
passandole
un braccio attorno alle spalle. «Ma adesso basta parlare di
queste cose. Ci
restano solo un paio di giorni qui a Roma: godiamocela!»