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Autore: lillabulleryu    07/10/2017    0 recensioni
Lance McKlain ha un sogno: diventare un famoso attore di teatro! Una possibilità interessante sembra presentarglisi, ma dovrà collaborare con Keith Kogane, pianista hipster patito di jazz e caffè...
(Come molti potranno perspicacemente notare, la fanfic è ispiramente liberata al quasi omonimo film La La Land. Quello che si sono sbagliati a darci l’Oscar come miglior film, per intenderci. Che ne ha comunque vinti un casino, era candidato per almeno quattordici.
Non contiene: tip tap, citazioni di musical d’epoca, Frédéric Chopin, attrici che diventano famose e parlano francese per fare più le fighe, glutine
Contiene: snobismo, parolacce, frutta a guscio, jazz, tai chi, cose inventate, cose non inventate, glutine
Potrebbe contenere tracce di Franz Liszt e nicotina.)
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Gunderson Pidge/Holt Katie, Kogane Keith, McClain Lance, Takashi Shirogane, Un po' tutti
Note: AU, Lime, Movieverse | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Una traccia acidula di mandarino aleggia tra le pareti verdi e il pavimento di linoleum.
La finestra aperta si affaccia sui rossi porpora e gli ocra del giardino.
Matt gli volta le spalle e non si muove quando lui entra nella stanza; guarda fuori.
Vorrebbe salutare, eppure entra in silenzio, come in un tempio. Lo sente sospirare.

« Malinconico tempo! Fascino degli occhi!
Piacevole mi è la tua bellezza di addio—
Io amo della natura lo sfarzoso appassire,
E i boschi avvolti nella porpora e nell’oro,
Alla loro ombra è ancora più fresco il soffio e il rumore del vento,
E il cielo è ricoperto di ondulata nebbiosità,
E il raro raggio di sole e i primi geli,
E le minacce lontane del bianco inverno.
»

Un brivido solenne lo ha lasciato senza fiato.
Non può sopportare tanta tristezza. Sorride.
- Che cos’è?
- Ma come? Non sai riconoscermi Puškin? – si finge scandalizzato, ma subito aggiunge, con aria furbetta: - Me l’ha passato il figlio del nonnetto della stanza accanto. Neanch’io avevo mai letto niente!
Matt ha solchi grigiastri e gonfi attorno agli occhi che risaltano sul colorito terreo, ma il suo sguardo è pieno della luce autunnale.
- È molto bello.
Prende una sedia, gli si accomoda accanto. Osserva le foglie variopinte che gli alberi offrono al cielo, cercando di ricostruire nella memoria i versi appena declamati.
Matt tiene in grembo il libro: lo sfoglia, ne accarezza le pagine, sfiora qualcosa che lo incuriosisce. Poi, lasciando andare il pensiero come un animale selvatico, riapre casualmente, avanti o indietro.
- Sai, stanotte ho fatto un sogno. – dice, interrompendo per primo la quiete. – Era una bella storia. Non come quella del mio alter-ego che non sa contare e che muore investito da una bicicletta.
Come dimenticare quella tragedia delirante ad atto unico? L’aveva scritta a diciassette anni, era stato il primo e unico spettatore del monologo. La risata che gli sfugge è divertita, ma un po’ malinconica.
- Di cosa parlava?
- Era incasinato. – Matt aggrotta le sopracciglia e la sua fronte si arriccia in una fisarmonica di sforzo. – Lo scriverò, così potrai leggerlo. Potrebbe diventare un bel copione!
E poi che successe?
La scena diventava confusa. Suoni, spazi, parole, colori; tutto si liquefaceva in un amalgama sporco.
Di che parlarono? A che spettacolo stava lavorando, lui? Aveva già iniziato a raccontargli le avventure di Odisseo per farlo dormire?
La voce di Matt ancora risuonava nitida, viva. Era una canzone amica, conosciuta da sempre. Aveva accompagnato ogni suo passo; la sola reminescenza era un conforto. Un rifugio.
Sai, Shiro… la vita delle idee è un fiammifero acceso. La fiamma sospesa nel vuoto rischiara la notte quanto basta per intravedere qualcosa innanzi.
Ce la si passa di mano in mano, nel tentativo di avanzare.
Puoi scottarti, puoi rimanere al buio.
Non si torna indietro, però. Mai.
La Fiamma del Genio non si riesce ad estinguere.
C’è sempre qualcuno che la riaccende. Deve esserci.
L’incendio che verrà appiccato non porterà distruzione, ma rinascita.
Il Sognatore lascia tante volte che il suo cuore si infranga. C’è chi ne raccoglie i cocci…

Shiro riaprì gli occhi.
Il riflesso lo guardava con occhi estranei; era rimasto soltanto il respiro a ricordargli di essere vivo.
Lo spirito è il generale, il corpo le sue truppe, pensò, mentre accoglieva il pugno destro nella mano sinistra.
La sequenza cominciò.
Per Shiro il Tai Chi era più di un allenamento; era una battaglia contro le ombre e contro se stesso.
Di continuo, gli spettri erano in agguato. Incombevano alle sue spalle, gli ghermivano la gola, gli schiacciavano le vertebre con catene di piombo.
(« Malinconico tempo! Fascino degli occhi! »)
Doveva seguire vie arcane di energia per rigirarli tra le mani. Sgusciava via dalla loro presa; tornava eretto. Fluido, gentile. Fili di seta srotolati da un bozzolo, acqua di fiume che scorre placida. Stabile come la montagna, leggero come la piuma – così avrebbe dovuto essere.
Piacevole mi è la tua bellezza di addio—
Io amo della natura lo sfarzoso appassire,
»)
Tutto avveniva in sincronia: i passi che ruotavano sospinti dal dondolio del corpo. Le spirali disegnate nell’aria dalle mani, lo sfiorarsi dei polsi.
E i boschi avvolti nella porpora e nell’oro,
Alla loro ombra è ancora più fresco il soffio e il rumore del vento,
»)
Non una sosta, non un’interruzione. Nessuna immobilità. Le gambe erano radici mobili, flessuose, che mai si stancavano di danzare.
E il cielo è ricoperto di ondulata nebbiosità,
E il raro raggio di sole e i primi geli,
»)
Le ombre infuriavano, ma finché un flusso costante guidava le sue braccia e le sue gambe, tra pieni e vuoti, erano impotenti contro di lui. Ne trattenne un colpo; spinse innanzi un pugno e poi lo ritrasse.
Poteva quasi vivere l’immaginario della sequenza come se lo affrontasse di persona; lo specchio generava i suoi avversari. Ricacciò indietro la ferocia della tigre; un carcere di roccia dura era il posto della belva.
Lo specchio voleva riportarlo al presente, ma lui avrebbe resistito.
Il presente era una palude di ricordi. Ecco, la gru aveva disteso le ali.
Bisognava andare avanti. Si inchinò a recuperare aghi nel profondo del mare.
Non si poteva tornare indietro…
(Credo che sarà il mio ultimo inverno.)
Il respiro si mozzò in gola.
I pensieri ruppero gli argini di ogni controllo e lo distrussero come fiume in piena.
Shiro si arrestò.
Appoggiò la schiena allo specchio e si lasciò scivolare a terra, esausto. Il vetro era gelido sulla pelle.
Richiuse gli occhi e attese che l’intensità del ricordo sfumasse in altro.
Qualunque cosa. Una risata, un sapore dolce. Un tramonto. Un viaggio. L’adrenalina che tendeva ogni suo passo prima di andare in scena. Gli applausi.
Nel momento in cui inizi a parlare, tu sei Atlante, il mondo è sulle tue spalle.
Sì. Così gli diceva Matt.
Qualcosa, sulle sue spalle, sembrava che ci fosse rimasto, nonostante avesse preso la decisione di non salire mai più sul palco.
Il campanello squarciò il silenzio con uno strillo metallico. Trasalì, distolto bruscamente dal giogo di quelle riflessioni.
Si avvolse un asciugamano attorno al collo e andò ad aprire al suo inconsapevole salvatore.
- Keith.
- Disturbo? – fu quello l’unico convenevole in cui il ragazzo si dilungò; la premura di annunciargli il suo messaggio era troppa per aspettare una risposta: - Ho finito di modificare il tema della bambina.
Shiro non si sorprese; aveva le sue ragioni per non trovare quella visita del tutto inattesa.
- Accomodati.
Non c’era bisogno di fargli strada: era di casa da tempo, ormai, e conosceva gli spazi come fossero in parte anche suoi.
Il corridoio d’ingresso sfociava su un soggiorno ampio e spoglio. Un lato lungo della parete era coperto da uno specchio, in cui si rifletteva il drappo etnico color mattone che occupava quella di fronte. Tra le pieghe della stoffa grezza, si intravedevano tracce di soli slavati. Accanto a questo sipario improvvisato, stavano gli unici mobili della stanza: una tastiera elettronica e due sedie.
Quello era l’angolo di Keith.
Con la naturalezza di due coinquilini, uno si diresse in cucina a bere, mentre l’altro raggiungeva il suo piccolo feudo.
- Ti allenavi?
A Shiro bastava ascoltare i rumori per figurarsi ogni gesto di Keith, come se non avesse mai lasciato la stanza. Il fruscio della giacca, abbandonata sullo schienale della sedia. Il tonfo dello zaino a terra; il ronzio stridulo della zip difettosa che si apriva. Lo stropiccio della carta del quaderno.
- Provavo. – sospirò. - Ci vorrebbe la mente sgombra. Vuoi qualcosa?
Keith non rispose subito. Probabilmente stava rileggendo le sue ultime annotazioni.
- Sono a posto. – sentenziò distrattamente.
Prima ancora che Shiro ritornasse dissetato, una musica brillante aveva già riempito l’aria. Una marcetta di archi briosi, spensierati, intreccio tondeggiante di arpeggi. Ecco un glissando sui tasti, come burro spalmato su una tartina, e poi… una distensione. Il tempo si dilatava, facendosi più elegiaco e sognante. A Shiro balenarono davanti grappoli di nuvole del cielo primaverile. Trattenuto dall’incanto della visione, quasi non si accorse che la musica era cessata. 
- Mi piace molto, - fu il suo primo, spontaneo commento. - Ma la vorrei più cantabile. – soggiunse. - Puoi snellire la prima parte?
Keith aggrottò le sopracciglia e si incupì. Shiro conosceva bene quello sguardo: era la risposta immancabile a qualsiasi osservazione sulla musica. Detestava che gli venisse richiesto di modificare le sue composizioni. Con quella, era già la seconda volta che capitava. Nel momento in cui presentava un lavoro al committente, per lui era già perfetto. Se non lo fosse stato, non si sarebbe nemmeno preso il disturbo di farsi vivo.
- È cantabile. – ribatté, piccato. - Basta scriverci le parole.
- Più bambinesca. – insisté Shiro, cercando nei suoi archivi uditivi qualcosa che potesse rendere l’idea. -  Tipo… le Nursery Rhymes.
Quasi la sola parola emettesse cattivo odore, Keith arricciò il naso.
- Banali. Abusatissime.
Poteva essere più rilassante la prospettiva di arruolarsi nella legione straniera che sostenere una polemica sui cliché contro Keith Kogane.
- Ok, senti. Fallo come ti pare, la voglio meno da cabaret.
- Da cabaret?!
- Più semplice. – si corresse, tentando di suonare accomodante, almeno nella scelta dei termini.
L’unica risposta a riguardo fu una piccata e linearissima esecuzione di Twinkle, Twinkle, Little Star.
 Shiro era combattuto se scoppiare a ridere o inzuccarlo sulla tastiera.
Senza neanche mettersi d’accordo, si erano divisi la scena di Amadeus in cui Giuseppe II critica alla musica di Mozart di avere “troppe note”.
Scosse la testa e si premette la fronte sul palmo aperto.
Le idee chiare che aveva non compensavano la sua mancanza di teoria e gergo tecnico. Era difficile intendersi a intuito quanto spiegare una poesia in una lingua che si conosce a mala pena.
Fermo, riprova. Esci da Giuseppe II.
 - Questo personaggio è un mistero estroso e insondabile, ma ha un’essenza giocosa e ingenua. Come una bambina vera, appunto. Non deve essere troppo costruita, troppo adulta, quell’allegria. Era questo che intendevo.
Keith si concesse un momento di riflessione, prima di annuire. Ancora non era convinto, ma non c’era sarcasmo in lui quando rispose:
- Tenterò.
Shiro sollevò il pollice in un cenno di “ok” e respirò sollevato.
A volte, con Keith, gli sembrava di avere a che fare con un cavallo riottoso. Rifiutava selle e padroni, briglie, regole, convenzioni; rispondeva soltanto al suo orgoglio.
La musica non aveva ingentilito il suo animo, ma lo aveva aiutato ad erodere la pietra che lo teneva attaccato al resto dell’umanità, scavando attorno a lui un recinto elitario: era diventato un’isola.
Lui era il solo da cui, talvolta, accettasse di lasciarsi guidare. Da quando si erano conosciuti, gli aveva progressivamente dato fiducia. Quella docilità era così inaspettata che finiva più per meravigliarlo che lusingarlo.
Keith si era subito rimesso al lavoro: smontava gli accordi, li rallentava, ne dilatava la durata col pedale, li macchiava di semitoni. Concentrato sui suoi appunti, li fissava quasi potesse perforare la carta.
Nonostante la gratitudine per quell’impegno, Shiro sapeva che non poteva limitare la loro conversazione allo spettacolo. C’era “altro” di cui parlare. Ed era anche importante.
Sperava che non dovesse partire tutto da lui; si rese conto ben presto che non aveva altra scelta.
- Keith. – cominciò, in tono fermo. - Sei venuto solo per farmi sentire le correzioni?
Le dita irrequiete si congelarono in posizione sulla tastiera. Si distesero, lentamente, poi ripresero a suonare.
Così come la gente cambia argomento per evitare le tematiche scomode, lui aveva attaccato con un pezzo che non c’entrava nulla con quello di prima: un’improvvisazione di Errol Garner, She’s funny that way.
Shiro si chiese, come in passato, se pensava davvero che potesse funzionare come diversivo.
Si schiarì la voce.
- Ho parlato con Joe. Ti ha licenziato di nuovo. – continuò, andando dritto al punto. - Tre giorni fa.
La canzone proseguiva, noncurante, sorda alle sue parole.
- Il giorno stesso in cui hai ricominciato.
La melodia si interruppe bruscamente; una manata rabbiosa pestò sui tasti, generando un chiasso di note.
- È stato un incidente! – Keith scattò sul sedile, staccandosi dal pianoforte. - Ho soltanto suonato DUKE ELLINGTON invece dei Beatles!!!
Shiro avvertì distintamente l’oscillazione involontaria del sopracciglio destro.
- Come puoi definire “incidente” non rispettare la scaletta che ti ha detto di seguire?
- Quello cretino di Joe Marmellata, cosa vuoi che capisca la differenza?!
Joe Jann era stato ribattezzato da Keith “Marmellata”, forse per il colorito da fragola matura delle guance cascanti e del naso tondo e butterato. Era il proprietario del ristorante Chérie, raffinato locale di un borgo ottocentesco nel centro storico di Dandyville.
Anche se era uno chef, Joe aveva una grande passione per la musica. Vantava di essere stato un virtuoso del pianoforte, in gioventù. Gli piacevano Rossini, Elvis Presley, i Beatles. In memoria di questo, nel suo ristorante si allietavano gli ospiti con musica dal vivo da lui accuratamente selezionata.
Keith aveva lavorato al Chérie resistendo per un mese e mezzo; la seconda volta, era stato Shiro a farlo riassumere, approfittando dell’amicizia con Joe e mettendoci una buona parola.
A quanto pareva, tutta l’arte retorica e persuasiva che aveva impiegato non era stata sufficiente per mantenere a Keith il posto per più di otto ore.
- L’unica condizione che aveva chiesto “Joe Marmellata” per riassumerti, era che questa volta tu ti attenessi alle sue direttive!
- Mi ha licenziato per principio, solo perché si è accorto che ho migliorato il suo programma schifoso!!! – sbottò Keith acidamente, incrociando le braccia sul petto.
- Keith, non è tuo, il locale! – proruppe Shiro, sull’orlo dell’esasperazione.
- Non puoi non far sentire almeno un pezzo di Duke Ellington tutte le sere!
 Come temeva.
Era convinto, come al solito, di avere agito nel pieno dei suoi diritti.
Un cavallo riottoso bambino, ecco la definizione completa.
Ogni forza gli scivolava via dalle ossa; avrebbe potuto afflosciarsi sul tavolo, inerte.
Sospirò, sconsolato.
– Lo sai che non ti riassumerà ancora, anche se torno a parlarci, vero?
Keith abbassò il volto. Sdegno e disprezzo crepitavano ancora nel suo sguardo impetuoso, ma doveva essere inibito all’idea di esagerare. La presenza di Shiro era un freno fisiologico ai suoi eccessi.
- Shiro… mi dispiace. – dichiarò, con visibile sforzo. - Non pensavo che se la prendesse così tanto. Ho cambiato soltanto un brano. Avrei… dovuto fare più attenzione.
E quello era il massimo che si poteva ottenere dalla auto-consapevolezza di Keith. Fare ammenda, però, non era lo scopo ultimo del discorso.
- Non dovrei spiegarti io quanto sia sciocco questo atteggiamento.
- Joe Marmellata si crede dio in terra e non sa un cazzo.  
– Ti aveva dato una possibilità, almeno.
Shiro carbonizzò sul nascere l’acidità di quel commento con un’occhiataccia laser; Keith se ne rese conto e chinò nuovamente il capo, questa volta genuinamente mortificato.
- Scusami. – mormorò. - Crearti problemi era l’ultima cosa che volevo.
- Non è a me che hai creato problemi… è a te stesso. – precisò Shiro, con tono più morbido. Gli appoggiò una mano sulla spalla e lo invitò a guardarlo. - So che hai bisogno di un lavoro. Sei un pianista eccezionale, non dovrebbe essere un problema trovarne uno… eppure ti ostini a fare di testa tua. Vorrei poterti aiutare, ma non è facile.
Sulla stanza cadde un silenzio avvilente. Keith rimase immobile a fissare le punte delle dita rivolte al soffitto, inerti sulle proprie ginocchia.
Shiro si grattò la nuca per alleviare un prurito immaginario. Avrebbero potuto rimanere anche per giorni in quel cupo stallo dialogico; fortunatamente per entrambi, si era preparato.
- Prova a contattare Ulaz. – propose. - Prima lavorava in un’agenzia di collocamento, adesso si è messo in proprio e trova sostituzioni all’ultimo momento nelle orchestre o nelle esibizioni live. È difficile che ti chiami per più di tre serate. – prese un mozzicone di matita appoggiato al leggio e gli scrisse il numero su un angolo della pagina del quaderno. – È comunque meglio di nulla, mentre cerchi qualcos’altro.
Sapeva che per Keith ringraziare era faticoso. Dalla sua isola di orgoglio selvatico e indomabile, giunse solamente il suo sguardo a scusarsi si nuovo, con tristezza e riconoscenza. 
- Lo farò.
Non resistendo oltre al silenzio, tornò alle correzioni del tema della bambina; riprese il brano dalla metà migliore e la eseguì di nuovo, più lentamente.
Shiro si sentì in dovere di alleggerire l’atmosfera, perché non finisse per gravare troppo su entrambi.
- Ti sta piacendo, almeno, lavorare al progetto per il Mainard?  
- Lavorare con te mi piace. – rispose Keith, indugiando per qualche secondo sulla durata di un accordo. - È la gente, il problema.
- Quello del teatro è un lavoro di squadra.
Keith fece spallucce, con un’espressione di sufficienza.
- Alla fine, io devo solo suonare. Mi va bene così.
- Non direi proprio. – lo corresse Shiro benevolmente. - Sei in scena tutto il tempo e dai voce all’interiorità degli altri.
- Già. – una smorfia di biasimo increspò le labbra del pianista. Parte del disprezzo si riversò sulla musica, che improvvisò un tema cinico, canzonatorio. – È così che funziona. Gli altri parlano. Io suono. Non funziona invertire i ruoli. Loro credono di conoscere la musica, ma non è così. E io odio parlare. È un casino e una perdita di tempo. Ognuno faccia quello che sa fare.
Non era la prima volta che Shiro ascoltava quel tipo di rigurgiti misantropici e individualisti. Sapeva che era inutile cercare di opporvisi, ma assecondarli non era un’opzione che aveva mai accettato.
- Purtroppo per te, sono convinto che si possa imparare qualunque cosa. – lo punzecchiò con un dito sul fianco e lui sussultò per il fastidio. - Sopporta il casino e la perdita di tempo… è solo per sei mesi. Ed è tutta pubblicità.
Keith sorrise, scuotendo la testa. Le sue dita non conoscevano sosta, smaniose e sagaci; si lanciarono nel tema delle Mentos ed entrambi scoppiarono a ridere. 
   
 
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