Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
Ricorda la storia  |      
Autore: whitecoffee    09/10/2017    0 recensioni
❝Tu sei una presenza, all'interno di questa dimensione. Puoi decidere se essere ordinaria, invisibile ed anonima, come tre quarti delle anime qui dentro. Che badano ai fatti propri, circoscritte alle loro tristi cappelline secolari, troppo pigre per mettere il naso fuori dalla loro via. Oppure, puoi scegliere di essere una magnifica presenza. Di uscire in strada. Di ascoltare nuove storie, di dire la tua e aprirti al confronto. Di accogliere i nuovi arrivati con un sorriso, di essere una casa per chi non ce l'ha. L'ultima parola è tua.❞
- Dove il destino costringe Kim SeokJin, altezzoso principe decaduto dell'epoca Goryeo, a condividere la propria residenza con Kim TaeHyung, scapestrato ventenne del ventunesimo secolo.
ghost!AU | TaeSeok/NamJin!bromance | side!YoonMin/TaeKook!bromance
-
» Storia precedentemente pubblicata sul mio account Wattpad, "taewkward".
Genere: Comico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jung Hoseok/ J-Hope, Kim Seokjin/ Jin, Kim Taehyung/ V, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


a g n i f i c a   r e s e n z a


 

A L., la mia vera Zietta.
E' passato un anno da quel giorno,
ed è ancora difficile entrare nella stanza.
Tuttavia, so che, proprio accanto alla stella polare,
il tuo astro mi guida splendendo più degli altri.
Questa lettera è ancora tua, zia. E lo sarà sempre.



 



"Ho sempre contato sulla gentilezza degli estranei."
-Blanche DuBois
 


"La menzogna, alle volte, può essere convincente, ma la realtà lo è molto di più. Qualcuno mi ha creduto, e questo è l'importante, perché quando si rimane chiusi là dentro, la realtà e l'immaginario si confondono. Ora ha smesso di piovere, e voglio soltanto trovare una panchina per sedermi, e aspettare che le nuvole vadano via. Pare che il sole si sia deciso a farsi rivedere".
(Dal film "Magnifica Presenza", diretto da Ferzan Ozpetek)




 








Avete mai pensato al susseguirsi delle stagioni? A come i fiori sboccino, in primavera, per poi spogliarsi dei loro petali in estate? Al modo in cui si rivestono di colori accesi, d’autunno, per poi scivolare lentamente al suolo, in inverno? Ogni anno, è sempre così. Sicuro ed immutabile, come la presenza del sole in cielo al mattino. Che entità portentosa, il tempo. Tutto cura, tutti consola. Se non ci fosse, dovrebbero proprio inventarlo.
Ma torniamo alle stagioni. Personalmente, adoro il freddo. È così bello, accucciarsi di fronte ai caminetti, assorbendo il calore dei ciocchi di legna che crepitano al loro interno. Le migliori dormite, si fanno a dicembre. È una legge universale, non devo certo dirvelo io. Un momento.
Cosa sono quelle facce sorprese? Non vi aspettavate un commento simile? Vi vedo sollevare un sopracciglio, e correre a rileggere le poche righe sopra, per accertarvi di non esservi sbagliati. Eh già. Perché io sono un gatto. Non chiedetemi a quale razza appartenga, perché non ne ho veramente idea. Posso soltanto dirvi che il mio pelo è candido come la neve, ed ho due grandi occhioni azzurri, stando a quel che chiunque mi veda esclami, per poi accarezzarmi. Sono come gli oblò delle navi, che permettono ai passeggeri di spiare una parte del fondale marino. Il figlio della mia padrona si diverte a ritrarmi mentre dormo, o prova ad imprimere la sfumatura delle mie iridi sul suo blocco schizzi. Non sempre ci riesce. Io non saprei nemmeno giudicarlo, poiché non sono in grado di distinguere i colori. Mi baso sulle sue espressioni ed esclamazioni, una volta completata l’opera. Il suo migliore amico è il mio incubo. M’insegue per casa, acchiappandomi in braccio e portandomi in giro per le stanze, modulando vocine ridicole, come se io non possedessi la facoltà di passeggiare autonomamente. Ragazzini.
In ogni caso, mi sto allontanando troppo dal mio obiettivo principale. È il tramonto. Ed io sono, attualmente, in un cimitero. Scommetto che vi starete chiedendo cosa ci faccia, una creatura piena di vita come me, qui dentro. Dove, spesso, nemmeno i fiori hanno la possibilità di appassire naturalmente. La verità, è che questo posto pullula di energia. Conoscete quella famosa diceria, la quale dipinge i gatti come “esseri in grado di vedere delle frequenze invisibili all’occhio umano”? Sappiate che è vera. E chiamiamo queste “manifestazioni” Popolo Invisibile. A nostra volta, abbiamo un nome particolare, per loro. Ci conoscono come “Lungimiranti”, perché possiamo distinguerli. Anche alcuni uomini e donne ci riescono, ma è molto, molto raro. A volte, fingono, suscitando immediatamente le ire dei diretti interessati. I quali, però, oltre a mostrare un’espressione oltraggiata, non fanno altro. Sono pur sempre personcine educate. E, fra il Popolo, c’è anche chi si fa una grassa risata in presenza di simili individui. Li chiamano “Cantastorie”. Perché inventano vere e proprie vicende, su di loro, di sana pianta. Anche io rido molto. È uno spasso vedere un Invisibile reagire nei confronti di un sensitivo. Osservarli, rientra sicuramente nella mia lista di svaghi ludici.
Tuttavia, volete davvero sapere quale sia la mia attività preferita, a parte dormire e sgranocchiare prelibatissimo tonno in scatola? No, non è giocare con i gomitoli di lana. Quello è per i felini di poca inventiva. Il mio passatempo prediletto, è raccontare storie. E credo di averne proprio una che farà al caso vostro. Mettetevi comodi, avvolgetevi un plaid sulle ginocchia e statemi a sentire, perché non ascolterete una vicenda simile da nessuna parte. Siete pronti? Cominciamo, allora.
 






 
 
Behind the flashiness of an eternal flower petal,
There’s a liar who has never bloomed nor withered.
 

It will bloom again tomorrow like it’s nothing,
Pretending it’s not lonely, deceiving everyone.
 
 

Kim SeokJin era una persona particolarmente pomeridiana. I suoi occhi tendevano ad aprirsi proprio un attimo dopo il tramonto, appena in tempo per cogliere gli ultimi sprazzi di riflessi rubicondi proiettarsi sul pavimento della sua casa. Dunque, si levava a sedersi, sgranchendosi gli arti e sbadigliando sonoramente; guardandosi attorno, per assicurarsi che tutto fosse come era stato lasciato all’alba. E per verificare che i suoi discendenti fossero passati di lì, a cambiargli i fiori e a sistemare qualche ninnolo accanto ad essi. Allora, si alzava in piedi, lisciandosi gli abiti dal gusto prezioso e ricercato.
Lui, era un principe decaduto. La sua famiglia aveva sicuramente beneficiato dei propri privilegi, nel corso dei due secoli precedenti. Ma la degradazione del titolo nobiliare, l’aveva costretto a prendere dimora in una cappella antica, nel cimitero cittadino. Aveva però la fortuna di disporre di un’intera costruzione solo per sé. I familiari condividevano un altro edificio, in una zona separata del camposanto.
Era perfettamente cosciente di essere una delle anime più belle all’interno della Città Invisibile. Spesso, veniva soprannominato Principe Giglio, dal resto della popolazione. A causa del suo incarnato, del tutto simile alla tinta dei petali di quel fiore. Aveva grandi occhi dal taglio a mandorla e le iridi scure come la notte, i lineamenti armonici e labbra finemente disegnate, di un tenero punto di rosa, vellutate come pesche mature. I suoi capelli, di una sfumatura molto chiara di castano, gli ricadevano sulla fronte in maniera ineccepibile. Egli era il ritratto della nobiltà antica, dall’aspetto curatissimo e delicato. Molte anime femminili gli rivolgevano occhiate sognanti, quando lo scorgevano passeggiare a braccetto con suo cugino NamJoon, in giro per la Città.
Perché, com’era norma e regola, al calar del sole, tutte le anime che risiedevano in quel luogo si riconnettevano con il mondo, svegliandosi, o uscendo dai loro nascondigli. Popolando lo spazio circostante come fosse una vera e propria metropoli. Molti, si sedevano sulle scale delle loro case, conversando con vicini e dirimpettai. Non era raro udire dei battibecchi, o l’eco di squillanti risate, provenire da qualche angolo remoto del circondario. Perfino le anime dei bambini giocavano a rincorrersi allegri, sgambettando alla luce della luna, inseguiti da qualche Lungimirante cane randagio. Ed ecco perché l’intera struttura, si chiamasse “Città”. E loro, “Popolo Invisibile”. Era proprio come se fossero stati tutti perfettamente vivi, conservando le abitudini possedute mentre risiedevano nelle spoglie mortali del loro corpo.
Inoltre, secoli e nazioni diverse s’incontravano, nella cittadina notturna. Ragion per cui, fosse possibile vedere un sostenitore della rivoluzione francese -finito lì chissà come-, conversare amabilmente con una donna degli anni ’50, scambiandosi opinioni sul tempo, o sulle abitudini del mondo terreno. Come se nulla fosse. Era uno spettacolo unico e singolare, ma molto bello. E tutti sembravano capirsi, mentre interagivano. Pur parlando lingue differenti. Poteri dell’al di là.



 
 


 


A white ice flower that bloomed
Puts its face out in the welcoming wind.
It sheds tears over the wordless and nameless past.
 
 
 

Un giorno, Kim SeokJin avvertì che qualcosa era cambiato. Poteva sentirlo nell’aria. Nella casa accanto alla sua, doveva essere arrivato un nuovo inquilino. Storse lievemente il naso, facendo assumere ai suoi lineamenti di nobile porcellana un’aria meno regale. Attraversò la porta chiusa della propria dimora, senza tante cerimonie, e si fermò sui gradini, occhieggiando la nuova anima che si guardava attorno spaurita. Probabilmente, doveva essersi risvegliata per la prima volta, non sapendo né dove fosse, né perché. Quando lo sguardo di SeokJin cadde sul colore dei capelli del nuovo arrivato, e scese dal volto agli abiti, inorridì.
Era un ragazzo, di poco più giovane di lui, molto alto, dalla complessione robusta e longilinea, l’incarnato bronzeo. Il colore della sua capigliatura ricordava il miele d’acacia, per quanto fosse chiaro. Indossava dei vestiti piuttosto dimessi, anche un po’ aggressivi. Sicuramente del ventunesimo secolo, pensò il principe, guardando sconcertato la giacchina di velluto blu notte che indossava il suo vicino, abbinata a quei pantaloni assurdamente aderenti e scuri. Qualcosa, nel suo atteggiamento, gli comunicò immediatamente che i suoi natali dovessero essere tutt’altro che regali. E ciò lo fece andare su tutte le furie.
«Hey tu!» Lo richiamò, dandosi un tono. L’altro sobbalzò, voltandosi di scatto nella sua direzione. Era decisamente sveglio per la prima volta. L’espressione di sconcerto dipinta su quel volto giovane e dai tratti avvenenti non lasciava spazio ai dubbi. SeokJin scese regalmente i due gradini, e si diresse verso di lui con aria di superiorità. Il ragazzo continuava a guardarlo senza comprendere, sollevando un sopracciglio e rimanendo immobile sul posto. Quando il principe gli fu davanti, non accennò a muovere un passo. Atteggiamento che fece spazientire il nobile ancora di più. «Allora? Inchinati!» Gli ordinò, perentorio. Ricevette un’occhiata neutra.
«Perché dovrei?» Chiese il vicino, con una voce talmente profonda da confondere SeokJin per qualche attimo. Il castano batté le palpebre, cercando di recuperare in fretta il suo aplomb.
«Non lo sai, chi sono io?» S’informò, e vide il giovane scuotere piano la testa. Sospirò. «Il mio nome è Kim SeokJin. Sono il rampollo della famiglia Kim, principe della contea di Anyang. E tu dovresti porgermi i saluti con il volto incollato al pavimento, per quanto profondo dovrebbe essere il tuo ossequio» gli disse, con una punta di stizza nel tono di voce. L’altro non si scompose. Anzi, sprofondò le mani nelle tasche e fece spallucce.
«E allora? Sono un Kim anch’io» si difese. «Kim TaeHyung» precisò. Il nobile scoppiò a ridere.
«Si tratterà di uno sfortunato caso di omonimia» commentò. «Ad ogni modo, tu non hai il diritto di stare in questa cappella. Non sei nemmeno parte della famiglia Jeon, cosa ci fa qui? Ti ci hanno messo per sbaglio, forse» rifletté, posandosi un indice latteo sul mento. TaeHyung si guardò alle spalle, focalizzando il piccolo edificio attaccato alla sontuosa costruzione da cui era uscito il principe, guardandola come se la vedesse per la prima volta. 
«Famiglia Jeon…?» Chiese, confuso. SeokJin annuì.
«I Jeon erano dei borghesi piuttosto ricchi, ai miei tempi. Per cui, non mi spiaccio poi tanto di averli come vicini. Inoltre, sono quasi sempre a Tokyo, o in giro per le varie epoche. Quindi, non li si trova mai in casa. È come se vivessi da solo, qui» spiegò. «Adesso, invece, la mia quiete è turbata dalla tua presenza!» Esclamò, indignato. «Guardati. Con questi capelli e gli stracci che indossi, dovresti senza ombra di dubbio essere un nullafacente. Un volgare teppistello» lo sminuì, percorrendo la sua figura da capo a piedi. Ottenendo di far arrossire il giovane, per l’imbarazzo. «Cosa dirà, il vicinato, di me? Sapendo che un individuo del genere condivide la mia stessa via? Ti sembra accettabile?» Gli chiese, con animosità. «“Il principe ha deciso di fare comunella con il popolo”, ecco cosa diranno! Perderò tutto il mio rispetto, ed io non posso permetterlo!»
 Nell’udire tutti quei rimbrotti, TaeHyung corrugò le sopracciglia, guardando torvo il principe.
«Fatti spostare» concluse SeokJin. «Non puoi vivere qui. Non lo accetto».
«Io non ho mai chiesto di venire in questo posto!» Ribatté finalmente il ragazzo, alzando la voce. «Non sapevo nemmeno dove mi trovassi, dieci minuti fa! E, per la cronaca, se potessi, me ne andrei anche subito» seguitò, con rabbia. «Non volevo essere qui. Non dovevo essere qui» mormorò chinando il capo, mentre le sue mani si chiudevano a pugno lungo i fianchi. Il nobile roteò gli occhi. Non aveva certo il tempo di star dietro alle turbe psicologiche di un giovane adulto dell’epoca contemporanea. Aveva di meglio da fare.
«Come ti pare» concesse. «Però vattene. Mi hai sentito?»
«Gente, il vostro casino si avverte fin dall’altra parte della via».
Entrambi si voltarono di scatto, focalizzando l’alta e slanciata figura che si stava avvicinando loro. Si trattava di un ragazzo, probabilmente coetaneo del nuovo arrivato. Indossava una slargata camicia bianca e degli skinny neri, strappati in più punti. I lisci capelli color arancia gli ricadevano sulla fronte, mentre un sorriso sornione si dipingeva su quel volto dagli zigomi alti e l’aria simpatica. SeokJin si lasciò sfuggire un lamento.
«Ah, questo è troppo!» Esclamò, andando nuovamente su tutte le furie. «Ci mancava solo il raduno dei poveri, proprio di fronte a casa mia. Jung HoSeok, quando imparerai a rivolgerti a me con il rispetto che devi?» Inveì, puntando un indice contro il secondo nuovo arrivato. Il quale annuì chiudendo gli occhi e imbastendo una faccia convinta, mentre allacciava le dita dietro il capo, rilassando la postura.
«Certo, Fiorellino. Contaci» ribatté. Quella risposta impertinente non fece altro che attizzare le braci dell’ira del giovane principe, che divamparono in un silenzioso incendio di frustrazione.
«Maledetti mocciosi!» Tuonò, voltandosi. «NamJoon!» Chiamò, avviandosi a grandi passi verso la direzione opposta, pestando i piedi. HoSeok riaprì un occhio solo, e poi guardò l’altro giovane. Si scambiarono uno sguardo, e poi scoppiarono entrambi a ridere.
«“Vostra altezza” è la vera spina nel fianco di questa Città. Peggio degli idioti ragazzini che vengono qui la notte di Halloween» commentò. E poi, gli tese la mano. «Jung HoSeok».
«Kim TaeHyung» rispose, stringendola.
«Allora… sei nuovo?»



 
 

 

On the path where you left me,
I’m standing alone.
 
 

Parlare con HoSeok fu l’evento migliore che potesse capitare a TaeHyung. Grazie a quella conversazione, egli aveva scoperto dove fosse. Si trovava in un camposanto, meglio conosciuto come “Città Invisibile”. Il pensiero della sua attuale dimora gli aveva già attraversato la mente, quando aveva aperto gli occhi di nuovo e si era trovato di fronte le mura bianche della cappella, con i nomi dei familiari del ceppo Jeon incisi nei riquadri marmorei incassati nelle pareti. Sulle prime, aveva voluto urlare e scappar via, ma qualcosa l’aveva trattenuto. Era stato l’odore di fiori freschi, a farlo rinsavire. E si era tristemente accorto che, quei mazzi rigogliosi, fossero per lui. Che non avrebbe più camminato sulla terra come faceva di solito. Che la sua esistenza aveva subito un unico, radicale cambiamento. Sopraffatto dalla portata dell’evento, era schizzato fuori dalla costruzione, imbattendosi nel suo accomodante vicino di casa.
HoSeok gli aveva spiegato che, quello, era stato il suo “primo risveglio”. Ovvero, quando l’anima abbandonava le spoglie mortali, ricominciando a vivere per suo conto. Ecco per quale ragione il suo corpo non avesse più la stessa consistenza, e lui potesse attraversare i muri come più gli piacesse. Il giovane dai capelli di tramonto gli aveva poi detto che, dopo il crepuscolo, la Città diventava una metropoli a tutti gli effetti. Popolata dagli spiriti dei defunti, che agivano esattamente come avevano fatto in vita, chiamati “Popolo Invisibile”. Era anche possibile viaggiare attraverso le epoche, ma HoSeok invitò TaeHyung a non farlo. Non era ancora abbastanza pratico. Si sarebbe potuto perdere in un punto qualsiasi della linea temporale, senza riuscire più a tornare indietro.
«La cosa bella di questo posto» riprese il giovane loquace dall’accento di Jeju, «è che ogni anima è diversa dall’altra. Sai, anche lo spirito ha un’età. La quale, a volte, corrisponde a quella del corpo. Ma, nella maggior parte dei casi, non è mai così. Ci sono residenti, qui, che hanno salutato la vita in venerandissima età. Ma la loro anima ha le sembianze di un dodicenne. Può capitare. A volte, perfino il sesso non corrisponde. Abbiamo uomini il cui spirito è quello di bellissime donne, e viceversa. Nessuno può sapere come sia fatta un’anima, finché essa non lasci il corpo» spiegò. TaeHyung ascoltava, affascinato. Il senso di puro terrore e spaesamento che l’aveva colto appena sveglio, cominciava pian piano a dissolversi, grazie alle chiacchiere di HoSeok. Gli era di molto conforto avere una figura simile accanto, in un tale frangente. Proprio l’opposto di quell’odioso principe. Il solo pensiero di lui, gli provocò un moto di stizza. Calciò un sassolino, la cui manifestazione spirituale rotolò via per pochi metri. Lasciando il ragazzo a bocca aperta.
«Ah sì», commentò l’altro giovane. «Ogni oggetto ha una dimensione extracorporea. Questo ci permette di nutrirci quando ci vengono lasciate offerte di cibo, o d’intrattenerci quando chi ci fa visita porta qualcosa nelle nostre cappelle. Forte, eh?» Gli chiese, sorridendo. TaeHyung annuì vagamente, ancora colpito dalle caratteristiche della nuova realtà in cui era stato calato. Sembrava simile alla vita terrena. Ma non lo era.
«E dov’è, la tua… casa?» Chiese ad HoSeok, di punto in bianco. Lo vide sorridere, e stringersi nelle spalle.
«Non ne ho una» rispose lui. «La mia famiglia è troppo povera, per potersela permettere. Si potrebbe dire che sono un… senza tetto» commentò, ridacchiando. Il ragazzo accanto a lui, s’intristì. Com’era possibile che un individuo così solare e brillante, non avesse nemmeno un posto dove riposare? Mentre lui risiedeva abusivamente nella dimora di un’altra famiglia, a cui non era nemmeno legato attraverso il proprio sangue?
«Guarda che faccino depresso» lo canzonò il giovane dai capelli d’arancia. «Vieni, ti faccio vedere un po’ di persone interessanti. Avrai tutta l’eternità per dipingerti di blu» e gli afferrò il braccio, trascinandolo via con sé.


 

 

 
 
An artificial flower that has to smile even in loneliness,
I don’t like it anymore.

 
 

Percorsero qualche viuzza affollata, facendo attenzione a non travolgere anime estranee sul loro cammino. Potevano passare attraverso gli oggetti, ma non negli spiriti altrui. Oltretutto, urtare gli altri residenti era da veri maleducati. La Città aveva una solida etichetta morale, da rispettare. TaeHyung si guardava attorno, mentre HoSeok lo conduceva verso mete a lui sconosciute. Vedeva un’enorme quantità d’individui. Di tutte le età, uomini e donne. Alcuni di loro, avevano abiti del ventunesimo secolo. Mentre altri indossavano gli hanbok, o vestiti europei di epoche ormai passate. Perfino gli idiomi che gli giungevano all’orecchio, non erano sempre gli stessi. Eppure, nonostante le differenze linguistiche, lui sembrava capirli. Chissà per quale ragione.
I piedi di entrambi si arrestarono nei pressi di un’altra via piena di cappelle. Alcune delle quali, dall’aspetto decisamente antico. Scorsero diversi gruppi di persone dialogare amabilmente, o ascoltare altri parlare.
«Guarda lì» gli suggerì HoSeok, indicando un circolo ristretto attorno ad una figura maschile abbigliata secondo la moda di fine ottocento. Si trattava di un ventenne di straordinaria bellezza, i cui lisci capelli di un biondo così particolare da sembrare grigio, finivano nei suoi occhi con aria studiata. I vestiti che indossava, ricordavano quelli che TaeHyung aveva intravisto sui libri di storia europea, come poteva riconoscere dalle ampie maniche di pizzo della camicia, che spuntavano al di sotto di una giacca scura e arabescata, dall’aria squisitamente retrò. Il giovane era piccolino, dalla corporatura robusta e i lineamenti affascinanti. Qualcosa, nel suo volto, instillava un misto di ammirazione e malinconia, rendendolo chiaramente parte dell’altro mondo. Nessun essere umano avrebbe mai potuto raggiungere quei livelli di perfezione. Abbandonare lo sguardo sul suo viso, equivaleva ad intingere il proprio cuore in un lago di languida malinconia.
«Quello è Park JiMin» disse HoSeok, bisbigliando. «Un poeta dell’epoca del decadentismo francese. Si dice in giro che abbia vissuto con Baudelaire e Rimbaud, proprio in Europa. Ma che sia stato sepolto qui. Oppure, ha semplicemente trascorso tanto di quel tempo con le anime parigine, da essersi ormai appropriato dei loro modi di fare» spiegò. Che figura singolare. Un poeta. Prima che TaeHyung potesse fare qualsiasi domanda, sentì il braccio del suo amico tirarlo un po’ più a destra. Di modo che la sua visuale cambiasse.
«Lo vedi, l’altro ragazzo con i capelli neri e l’aria annoiata?» Chiese. Il giovane annuì. «È Min YoonGi, il famosissimo pianista degli anni cinquanta. Nella sua cappella, c’è un vero pianoforte. Puoi ascoltarlo suonare all’alba e nelle notti di luna piena, e le sue melodie sono così dolci da incantare perfino gli uccellini. Che non si azzardano ad aprire becco, prima che lui non abbia smesso di premere le dita sui tasti. Generalmente, è una persona tranquilla. Ma guai a chi osi disturbarlo durante i momenti in cui siede dietro il piano. Soltanto Park JiMin può farlo. Non chiedermi perché. Quei due hanno un rapporto strano. Sembrano due facce della stessa medaglia. Dov’è uno, puoi trovare anche l’altro. Senza possibilità d’errore. D’altronde, musicisti e poeti hanno sempre vissuto in complementarità» concluse il giovane, stringendosi nelle spalle. TaeHyung perlustrò con lo sguardo il volto del pianista, scoprendo un viso dall’età non poi così differente dalla propria. Aria indolente, occhi dal taglio felino e labbra finemente disegnate. I capelli d’ebano gli ricadevano sulla fronte, in maniera disordinata. Indossava un completo elegante proprio della sua epoca, anch’esso scuro come la notte. Sembrava la persona meno belligerante del mondo, tanto che il giovane si chiese come avrebbe potuto essere una sua ipotetica reazione esplosiva.
Guardava Park JiMin come se stesse osservando il proprio braccio. Ovvero, con la stessa consapevole familiarità con cui si fissava una parte di se stesso. Sembravano avere due caratteri diametralmente opposti, e perfino le linee temporali a cui appartenevano, parevano stridere mortalmente. Eppure, come aveva detto HoSeok, dove andava uno, l’altro seguiva immancabilmente. Forse, il loro, era un rapporto di affinità elettive che prescindeva qualsiasi convenzione sociale.
Improvvisamente, Park JiMin sollevò lo sguardo, e focalizzò la presenza di entrambi. Sorrise, e il suo volto si accese di una nuova sfumatura di lancinante perfezione. Tanto che guardarlo per troppo tempo cominciò ad essere doloroso.
«HoSeok!» Lo chiamò, e il circolo si aprì in due metà esatte, per lasciarlo passare. Camminava con calma ed eleganza, esibendo involontariamente un portamento regale. Lui, avrebbe potuto essere un principe. Non Kim SeokJin.
«Ehilà» rispose il giovane che teneva TaeHyung a braccetto, con un cenno del capo. Appena il poeta fu loro vicino, il suo corpo parve ancora più minuto, agli occhi del nuovo arrivato. Una piccola, gioviale e bellissima creatura. Dalla voce fresca e limpida come un ruscello in primavera. «Guarda un po’ qui? Un novellino. Si è svegliato oggi» disse, indicando il biondo accanto a lui. Il quale batté le palpebre e fissò il terriccio sotto di sé, sentendosi vagamente in imbarazzo.
«Adoro i nuovi inquilini» disse il poeta, sorridendo. Si abbassò lievemente, cercando d’intercettare il suo sguardo. I loro occhi s’incontrarono per qualche secondo. Durante i quali, TaeHyung si sentì in soggezione, dinanzi a tutta la sua bellezza. Mentre JiMin sorrise, divertito dalla sua improvvisa introversione. «Suvvia, non essere timido» gl’intimò, posandogli gentilmente una mano sulla spalla. «Ci siamo passati tutti, per il Primo Risveglio. Domani andrà già meglio» convenne. «Venite» l’invitò, voltandosi e avviandosi verso il circolo da cui era uscito.
«YoonGi, HoSeok ha portato un nuovo amico. Ed ha la stessa espressione che avevi anche tu, quando sei arrivato qui» lo introdusse alla compagnia, che ridacchiò, occhieggiando la stramba coppia che aveva fatto seguito al loro beniamino. TaeHyung non si era mai sentito così intimidito in vita sua. Forse perché era sempre stato lui, a mettere a disagio gli altri, con la propria presenza. Stava sperimentando delle emozioni inedite, e non era sicuro che gli piacessero. Provò a nascondersi dietro al ragazzo dai capelli d’arancia, ma inutilmente. Era grande quanto lui, c’era ben poco da riparare agli occhi del gruppo.
«Lascialo in pace, JiMin» ribatté il pianista, rendendosi conto dell’evidente malessere del giovane accanto ad HoSeok. «Lo stai mettendo in imbarazzo».
Il poeta si accorse dell’espressione sul volto di TaeHyung, e pensò che forse il suo amico avesse ragione. Si pentì di essere stato così estroverso, avendogli causato un danno, inavvertitamente.
«E va bene» intervenne HoSeok, sospirando. «Qualcuno ha un po’ di musica decente? No, Brian, non intendo Schubert» ammonì uno dei ragazzi all’interno del circolo, la cui espressione entusiasta si spense di colpo. Una ragazza allora si fece avanti. Era l’unica vestita come una giovane del ventunesimo secolo, in quella cerchia di individui tutti accomunati dalla loro natura antica e secolare.
«Oggi mi hanno aggiornato l’iPod. Ho un brano che spacca, si chiama “Boy Meets Evil”. Vuoi improvvisare?» Chiese al giovane, tirando fuori il suo lettore musicale. Egli sorrise, annuendo. Poi, si rivolse a TaeHyung.
«Questo dovrebbe servire a distogliere l’attenzione da te, va bene?» Gli bisbigliò all’orecchio. Il biondo lo guardò, confuso, mentre lui si voltava e s’impossessava dell’oggettino, alla ricerca della nuova canzone.
«Facciamo spazio!» Intimò JiMin, e tutti arretrarono di qualche passo. Delle note indubbiamente contemporanee cominciarono a diffondersi nell’aria, ed HoSeok rese l’iPod alla sua proprietaria, che strinse le mani a coppa sull’altoparlante, per amplificare il suono. Ascoltò la struttura musicale per alcuni secondi, sgranchendosi le braccia. E poi, cominciò a ballare.



 
 








The beautiful language of flowers
Is for that someone who resembles me.
Actually, there’s no one by my side…
I want to wither when the time comes.
 
«NamJoon!»
L’ennesimo strillo del principe fece sobbalzare un gruppetto di bambini intenti a giocare a carta, sasso, forbici in un vicoletto. I quali s’inchinarono a lui e poi scapparono via, spaventati. SeokJin era furente. Non solo un teppistello degli anni duemila si era trasferito accanto alla sua casa, gettando disonore sulla sua nomea pubblica, ma aveva anche dovuto incontrare Jung HoSeok. Il ballerino di strada, che risiedeva nella Città senza una dimora fissa da qualche anno, ormai. Bazzicava sempre il gruppetto sulla quarta strada, dove risiedevano sia Park JiMin che Min YoonGi, le due figure artisticamente più influenti del circondario. Di quando in quando, sentiva la loro musica giungere fino alla sua via, facendogli accapponare la pelle per quanto di cattivo gusto fosse.
HoSeok era così volgare: ballava ovunque gli capitasse, faceva chiasso con il suo vocabolario dialettale di Jeju e rideva forte. Tutto ciò che gli occorresse per essere felice, era un brano musicale che lo smuovesse a sufficienza. Sorrideva ogni santo giorno, ed era affabile con tutti. Tranne che con lui. Si rifiutava categoricamente di rivolgerglisi usando il “voi”, o d’inchinarsi al suo passaggio. Lo trattava come uno qualsiasi dei residenti, mancandogli di rispetto. Sapeva che non avrebbe dovuto curarsi di una persona così ininfluente come lui, ma non riusciva a passarci sopra. Inoltre, pareva che avesse fatto anche amicizia con il suo nuovo inquilino. Ovviamente. Motivo addizionale per detestarlo ancor di più.
«Ma dov’è andato, quel filosofo rincitrullito?» Disse, fra sé, ormai stanco di richiamare il cugino e non vederlo apparire. Doveva essersi infilato nuovamente in qualche epoca di fermento intellettuale, com’era suo solito fare. Improvvisamente, se lo vide spuntare dinanzi dal muretto del cimitero. Ridendo e brandendo un calice di vino rosso nella mano destra. I volants della sua camicia immacolata erano ormai sciupati e il completo all’ultimo grido del secolo dei lumi aveva qualche piega qui e là, segni evidenti della sua ennesima nottata libertina. SeokJin gli rivolse un’occhiata di puro odio, mentre NamJoon si scolava ciò che rimaneva della bevanda rubiconda con un colpo solo, e poi sorrideva soddisfatto.
«Cugino caro» lo accolse, non rendendosi conto della sua ira. «Tempo squisito, non trovi?»
«“Caro”, un par di palazzi!» Inveì quello, sbraitando. «Quando la smetterai di gozzovigliare insieme a Chateaubriand e Diderot? Io sono in piena crisi e non c’è nessuno che mi ascolti!»
«Cos’accade?» Domandò e strinse inavvertitamente le dita attorno allo stelo del calice, spezzandolo in due metà esatte. La cui parte superiore cadde in terra, frantumandosi in mille pezzi, che tintinnarono nella notte. «Oh, accidenti. Denis si arrabbierà molto» commentò, lanciandosi alle spalle ciò che rimaneva dell’oggetto distrutto, con noncuranza. Ormai il danno era fatto.
«NamJoon» sibilò suo cugino, sull’orlo dell’autocombustione. Il giovane alto e distinto cercò di darsi un tono, battendo le palpebre e focalizzandosi sul principe, come meglio poté.
«Ti ascolto, parlami» gli disse, posandogli fraternamente una mano sulla spalla.
«Una disgrazia, un immenso disonore!» Riprese allora lui, lagnandosi teatralmente. «Hanno trasferito un nuovo inquilino nella cappella dei Jeon».
«E con ciò?»
«Se mi lasciassi finire il discorso, per una buona volta» ribatté, interrompendo il suo tragico monologo per incenerire il ragazzo accanto a lui. «È un teppista. Un comunissimo plebeo» riferì, mortifero. NamJoon rimase in silenzio, osservandolo. Sembrò ponderare una delle sue conclusioni filosofiche, e SeokJin sperò avesse una perla di saggezza pronta a risolvergli i drammi esistenziali. Spesso, era stato grazie ai suoi preziosi consigli, che la sua permanenza nella Città era stata notevolmente agevolata.
«E con ciò?» Si limitò soltanto a ripetere. Se possibile, guardandolo con meno lucidità di prima. Il principe implose.
«Non! Voglio! Vivere! Con! Un! Pezzente! Vicino! Casa! Hai! Capito! Sì! O! No?!» Urlò scuotendolo per le spalle ad ogni nuova parola, ottenendo di farlo crollare a sedere sul terriccio, una volta finita la frase. Sospirò, iracondo, cominciando a passeggiare avanti e indietro di fronte al libertino in stato di shock. NamJoon non aveva mai visto suo cugino in tale turbamento interiore. Sapeva che tendesse all’isteria tanto facilmente quanto egli stesso all’alcolismo, ma non se n’era mai preoccupato. Generalmente, SeokJin si arrabbiava per questioni futili e sciocche, che un’attenta analisi obiettiva avrebbe sistemato nel giro di un minuto. Quella volta, invece, la questione pareva più seria del previsto.
«Perdonami, cugino» disse, ancora scosso dalle vertigini e l’alcol, per potersi alzare in sicurezza. «Non afferro la radice del tuo problema».
«Io mi domando come tu faccia ad intrattenerti con le menti più brillanti dell’umanità, e a non capire una sciocchezza come questa!» Esclamò. «Avere un simile vicino di casa, è degradante per la mia immagine pubblica. Perderò il rispetto del vicinato, se si saprà che un comunissimo ragazzino può permettersi di stare dove sta. La gente comincerà a prendersi confidenze che non deve, disimparando le buone maniere! Mi capisci, adesso?» Spiegò, augurandosi che fosse l’ultima volta. NamJoon gli riservò un’occhiata empia. Forse, la diretta emanazione dei fumi dell’alcol, o delle vertigini che ancora gli danzavano sul retro della retina.
«Ma cugino, nessuno farà caso ad una sciocchezza del genere. Apparteniamo tutti alla stessa dimensione dell’esistenza, e qui non ci sono differenze. La tua condizione, è esattamente come la sua». Nel sentire un discorso simile, a SeokJin vollero cadere le braccia. Perfino l’unica persona della quale si fidasse ciecamente, nelle cui mani avrebbe riposto il suo stesso cuore, gli stava voltando le spalle. Non capiva la questione di principio. Aveva minimizzato il problema, com’era suo solito fare. Con l’eccezione che, il più delle volte, il suo modo di agire gli tornava utile. Ma non in quel momento. Lo guardò, mentre lui si passava una mano fra i capelli biondicci pettinati all’ultima moda libertina, l’espressione serena sul volto e gli occhi fissi sulla luna crescente. Come se nulla potesse turbarlo.
«Io l’ho sempre detto che l’illuminismo è stato il male dell’umanità» sibilò, voltandosi e lasciandolo lì.
«Ma dove vai, adesso?» Gli urlò dietro NamJoon, non comprendendo.
«Da qualcuno che possa capirmi!» Esclamò SeokJin, stizzito. «Visto che perfino tu sei incapace di farlo!»
 
 




 
 



Today, I’m standing before you again.
No words need to be said, I’m just standing here.

 
 

TaeHyung ed HoSeok erano seduti sugli scalini di una casa apparentemente vuota, occhieggiando le varie anime che passeggiavano lungo la via. Il biondo non avrebbe mai immaginato la bravura nel danzare del suo nuovo amico. Era energia pura. Guardarlo muoversi, suscitava le stesse sensazioni che il sorriso di Park JiMin accendeva nel petto. Struggente malinconia e cieca ammirazione, per delle opere che la mortalità non avrebbe mai potuto afferrare. Era come vedere il riflesso di una scintilla ondeggiare nell’oscurità. Forte, chiara e sinuosa. Brillante. HoSeok gli aveva spiegato che, prima, lui ballava per vivere. Esibendosi nelle piazze e racimolando abbastanza da poter aiutare la propria famiglia come poteva. Non avevano mai navigato nell’oro, e lui aveva deciso di sfruttare l’unico talento che Dio gli avesse dato, affinché i suoi parenti non arrancassero eccessivamente verso la fine del mese. Cercando, nel contempo, di pesare economicamente il meno possibile sulle loro spalle. Avrebbe voluto frequentare una scuola di danza contemporanea, diplomarsi e viaggiare con un corpo di ballo specializzato. Oppure, perché no, fare da back up dancer a qualche cantante famoso. Ma non aveva fatto in tempo.
Mentre parlava di quella che era stata la sua esistenza terrena, una melanconica luce si accendeva sul fondo dei suoi dolci occhi scuri. Animandoli di quello che poteva sembrare rimorso, per non essere stato in grado di rendersi abbastanza utile. Era proprio un altruista. Fin troppo buono, per essere vero.
«Perché stai facendo tutto questo, per me? Non mi conosci nemmeno» disse TaeHyung, giocherellando con i lacci delle sue stesse scarpe. I quali, da bianchi, erano direttamente passati ad una sfumatura marroncina e grigiastra. Segno di tutte le avventure che quelle calzature avessero vissuto, insieme al loro proprietario. Una vita di corsa. Dietro autobus, persone, opportunità. Correre in eterno. E adesso, non poteva più farlo. Era bloccato in una dimensione di quiete, in cui i corpi senza materia che circondavano il proprio, non avevano ragione di affannarsi per alcunché.
Quello stato, gli stava stretto. Non era abituato al requie. Non era avvezzo ad essere attorniato da persone tanto affabili ed amichevoli, come quel Park JiMin dal sorriso celestiale. Sarebbe senz’altro vissuto meglio insieme al pianista silenzioso. Si sentiva inspiegabilmente affine, a quello spirito. Probabilmente, anche lui aveva avuto un’esistenza tormentata, da come esprimeva la sua natura schiva e silente, la quale pareva tollerare solo la presenza del dolce poeta.
Vide HoSeok distendersi sul gradino alle sue spalle, appoggiandovi sopra i gomiti. La stoffa della camicia slargata rifletteva i raggi lunari, assorbendoli ed illuminandosi nella notte.
«Quando sono arrivato qui, ero solo. Completamente. Non avevo nemmeno una casa in cui andare. Girovagavo, spiando i residenti e guardandoli condurre un’esistenza tranquilla, perfettamente calati nella loro nuova dimensione di vita. Mentre io ero al di fuori da tutto. E venivo guardato con sospetto, perché ero un nuovo inquilino, senza alcun parente ad accogliermi. Proprio come te» esordì, sorridendogli. «Ma poi, ho incontrato questa… persona. Che mi ha perso sotto la sua ala, portandomi in casa sua, e trattandomi come fossi suo figlio. Non c’è mai stata diffidenza, nei suoi occhi. Soltanto una genuina voglia di farmi sentire accettato» narrò. «Un giorno particolarmente cupo, mi aveva perfino visto piangere, desiderando a tutti i costi di tornare al mio vecchio corpo. Maledicendo in ogni momento il giorno in cui avessi smesso di abitarlo. Allora, lei mi aveva preso per un braccio, trascinandomi all’ombra di un albero secolare. Mi aveva asciugato le lacrime e mi disse delle parole che non dimenticherò mai» raccontò, felice. «“Tu sei una presenza, all’interno di questa dimensione. Puoi decidere se essere ordinaria, invisibile ed anonima, come tre quarti delle anime qui dentro. Che badano ai fatti propri, circoscritte alle loro tristi cappelline secolari, troppo pigre per mettere il naso fuori dalla loro via. Oppure, puoi scegliere di essere una magnifica presenza. Di uscire in strada. Di ascoltare nuove storie, di dire la tua e aprirti al confronto. Di accogliere i nuovi arrivati con un sorriso, di essere una casa per chi non ce l’ha. L’ultima parola è tua”» recitò, a memoria, come se stesse ripetendo il passo preferito della sua poesia prediletta. TaeHyung lo fissava, rapito. Domandandosi chi potesse essere quell’anima così particolare, da rivolgergli parole tanto adeguate e toccanti, per una situazione simile. Rimasero in silenzio per qualche istante, metabolizzando il significato di un simile discorso, mentre stralci di frasi vagavano nelle menti di entrambi. Come foglie dall’acceso colorito, che galleggiavano sul pelo dell’acqua di una fontana abbandonata.
«Mi ricordi molto me stesso, TaeHyung. Soprattutto, perché hai avuto il tuo Primo Risveglio in solitudine. E l’unico contatto con i residenti, è stato traumatico. Dovevo mostrarti che non esistono solo individui come il Principe Giglio, qui dentro. Ma che ci sono anche delle magnifiche presenze, in giro. Affinché non commettessi i miei stessi errori, e finissi per trasformarti in uno Scacciato. Uno spirito maligno» commentò, protendendo una mano e scompigliandogli i capelli biondicci, strappandogli un sorrisetto.
«Hai corso questo rischio, HoSeok?» Gli chiese, soppesando le sue parole. Il giovane dai capelli d’arancia annuì, mentre le sue ciocche di tramonto oscillavano, seguendo i movimenti del suo capo.
«Sai, quando l’odio raggiunge il punto di non ritorno, vieni automaticamente espulso da questo posto. La Città è un luogo pacifico, dove condurre la propria esistenza in serenità. Non si possono covare rimorsi così grandi, è nocivo per i residenti. Il nostro, è un Popolo mite. Non abbiamo rancori, viviamo con tranquillità. Solo gli Scacciati diventano manifestazioni negative. Che tormentano le vite dei mortali, perché invidiosi di ciò che non è più loro. Ed io, sono andato pericolosamente vicino alla linea di demarcazione. Se la zietta non mi avesse salvato, probabilmente non sarei nemmeno con te, adesso».
«Zietta?»
«La mia magnifica presenza».


 

 
 

 





Even if I become you and you become me,
We’re the same yet so different…
We know it, yet we don’t.
 
 

«Madre, accoglietemi nelle vostre stanze».
«Entra pure, SeokJin».
Il principe passò attraverso l’uscio chiuso, ritrovando la sua genitrice intenta a prendere il tè con una delle sue dame di compagnia. Ella rivolse un inchino al giovane e si congedò dalla donna, rispettandone la privacy.
Lo spirito di Kim HyoRin era quello di una trentacinquenne, abbigliata alla maniera della dinastia Goryeo, con lunghi capelli neri intrecciati in acconciature complesse, piene di fermagli e ninnoli preziosi. Il suo volto era di una straordinaria bellezza millenaria, proprio come le miniature che gli artisti di corte garantivano, eseguendole all’epoca. La donna possedeva labbra finemente disegnate e color cremisi, grandi occhi scuri e aria determinata. Spesso, il suo aspetto metteva in soggezione in chi la guardasse, ispirandovi riverenza e rispetto.
Appena il muro inghiottì la figura della dama di compagnia, il ragazzo si gettò ai piedi della propria mamma, esausto, in uno stadio avanzato di prostrazione emotiva. Quella, era la sua ultima risorsa. In genere, preferiva non disturbarla per le sue futili questioni personali. Nutriva un grande rispetto per la sua famiglia, e detestava farsi vedere da loro in difficoltà. Il più delle volte, una semplice chiacchierata con NamJoon era sufficiente a sistemare tutto. Ma non in quella occasione.
«Cosa ti affligge, caro? Ti vedo più isterico del solito, e non credo sia perché uno dei tuoi fiori si è sciupato» commentò lei, portandosi la tazzina alle labbra e sorbendone il liquido trasparente all’interno, in silenzio. SeokJin sollevò il volto dal pavimento, storcendolo in una smorfia di frustrazione.
«Madre, il nuovo inquilino della famiglia Jeon è un plebeo pezzente. Come farò a reggere quest’affronto? Cosa dirà il vicinato? Mi sento così degradato» si lagnò, coprendosi il bel viso con le mani. Udì il rumore dell’oggettino in pregiata ceramica che veniva posato sul pavimento, in un tintinnio.
«Parli forse di Kim TaeHyung?» Domandò ella. Il giovane annuì, mugolando. Solo sentirne il nome, lo faceva ribollire di rabbia. Come se l’avessero appena pubblicamente sbeffeggiato. Intollerabile.
«Proprio lui! Inammissibile, inaccettabile!» Rimostrò, spostando le dita dalla faccia. E poi, si raggelò. Perché lo sguardo della donna di fronte a lui, non lasciava presagire niente di buono.
«SeokJin, mi auguro che la tua ariosa testa empia abbia almeno la vaga idea di quel che tu stia dicendo» sibilò, in un modo del tutto simile a quello del giovane. Il quale rimase immobile, certo che il discorso non fosse ancora concluso. «Il ragazzo è un tuo discendente» gli disse, dura. Il principe sbarrò gli occhi.
«Che cosa?» Quasi urlò dallo shock.
«Ricordi la signorina Cho, vero?» Gli domandò, lanciandogli un’occhiata piuttosto eloquente, ottenendo di farlo imbarazzare immediatamente. Richiamando alla memoria ricordi che lui doveva aver archiviato secoli addietro.
«Sì madre, ma non vedo…»
«Beh, ha avuto un figlio, poco dopo la tua dipartita. Tuo figlio, SeokJin» precisò, affilata come la lama di una spada. Al giovane principe mancò l’aria. Quella nozione poteva avere un solo significato. Dopo di lui, si saranno susseguite generazioni e generazioni, prima di arrivare al secolo corrente. E ciò voleva dire, che nelle vene del suo indecente vicino di casa, un quantitativo, seppur minimo, del patrimonio genetico era in comune con il proprio. Erano parenti.
«Ma io…»
«Niente ma!» Esclamò la donna, interrompendolo. «Va’ immediatamente a scusarti con lui. È forse questo, il modo di comportarsi con i membri della tua famiglia? Ed io che pensavo l’avresti accolto calorosamente! Possibile che tu sia così ottuso? Perché non vai ad ascoltare le dissertazioni filosofiche europee con tuo cugino NamJoon? Forse così ti entrerà un po’ di sale, in quella zucca vuota che ti ritrovi!» Inveì, e il legame di parentela fra i due divenne spaventosamente evidente. Era proprio da lei, che SeokJin aveva ereditato la lingua lunga e tagliente. Le sue parole l’investirono, facendolo arretrare immediatamente nella sua belligeranza. Si sollevò in piedi e s’inchinò profondamente dinanzi a sua madre, per poi uscire subito dalla cappella di famiglia.
Parenti. Lui e Kim TaeHyung erano parenti. Improvvisamente, ricordò uno dei primi commenti che quel ragazzo ebbe fatto, qualche ora prima. “Sono un Kim anch’io”. In tutti i sensi, anche i più spiacevoli. Lasciò andare un verso di frustrazione, e s’incamminò verso casa. Cercando di raccapezzarsi in quel mare di scelte di dubbio buon senso che era stata la sua giovinezza.


 

 

Oh my… what a marvelous tune.
 

HoSeok aveva dovuto congedarsi da TaeHyung, lasciandolo a girovagare in solitudine per il resto della nottata. Il giovane dai capelli arancio, gli aveva suggerito di tornare da YoonGi e JiMin, in modo che non rimanesse da solo. Ma il biondo non aveva voluto. Dopo l’episodio del pezzo di danza, avevano scambiato qualche parola e fatto conoscenza del resto del circoletto, ma egli non fu tentato di raggiungerli nuovamente. Aveva voglia di camminare in solitudine, mentre l’alba tingeva di rosa il cielo.
Non si era mai fermato un momento a pensare, dal suo arrivo in quel luogo. Gli unici ricordi che la sua mente avesse registrato, erano collegati a degli accecanti fari nel bel mezzo della notte. Dopo, più nulla. Aveva aperto gli occhi nella cappella Jeon.
Jeon. Come il cognome del suo migliore amico. JungKook. Con il quale avesse litigato proprio un momento prima di quei fastidiosi fari. Per una sciocchezza, fra l’altro. In capo a due giorni, TaeHyung avrebbe dimenticato il motivo di quel diverbio, e sarebbe tornato tutto alla normalità. Peccato che, in quel luogo, il suo beniamino non ci fosse e che egli avesse la netta sensazione che non sarebbe stato facile poter comunicare con lui.
Inoltre, si era chiesto per quale ragione si fosse svegliato proprio lì, e non da qualsiasi altra parte, come HoSeok. Lui non aveva una famiglia. Era stato dato in adozione subito dopo essere nato, e aveva vissuto in un orfanotrofio fino ai quattordici anni, per poi essere stato trasferito in una casa famiglia. Soltanto alle scuole superiori, aveva incontrato JungKook, nella cui villetta di Gangnam avesse trascorso buona parte della propria esistenza. I suoi genitori avevano cominciato a trattarlo come un figlio acquisito, e spesso egli rimaneva a dormire da loro per settimane, partecipando alle gite di famiglia e ai pranzi di Natale. Quando la madre del suo amico comprava qualcosa a suo figlio, si assicurava di prenderne un’altra anche per TaeHyung. E la cuoca di casa Jeon aveva perfino memorizzato i suoi piatti preferiti, lasciandogli sempre una porzione extra di dorayaki giapponesi nel microonde, certa che lui l’avrebbe apprezzata. Era, in poche parole, diventato il fratello maggiore che JungKook non aveva mai avuto. E, in cambio, egli aveva guadagnato una famiglia vera. Si domandò come potesse stare il suo amico. E se l’avesse mai più rivisto. Un senso di dolorosa mancanza serpeggiò nel suo petto, stringendogli quello che, un tempo, sarebbe stato il suo cuore. Imprigionandolo in un’asfittica morsa ghiacciata.
Continuò a gironzolare per le stradine, con le mani sprofondate nelle tasche, senza sapere dove stesse realmente andando. Finché, non udì il familiare suono di un pianoforte riempirgli le orecchie. Si lasciò condurre da quella musica, e tornò nella via in cui, qualche ora prima, HoSeok avesse ballato sotto gli occhi del circoletto di anime devote ai due artisti ivi residenti. Raggiunse la grande ed antica cappella da cui proveniva la melodia, e sbirciò oltre la porta a vetri dell’ingresso. Scoprì Min YoonGi intento a suonare con gli occhi chiusi, e Park JiMin seduto ai piedi del pianoforte, con un pezzo di carta in grembo e un pennino stretto nella piccola mano. Stava scrivendo, probabilmente ispirato dalla soave produzione del genio alle sue spalle. Le dita del pianista s’inseguivano sulla tastiera, creando una sequenza dolce e malinconica.
TaeHyung si sentì trasportare in periodi ormai troppo lontani della sua infanzia. A quando correva dietro gli aquiloni da bambino, o si arrampicava sui rami più alti degli alberi in giardino, facendo spaventare a morte le responsabili del suo orfanotrofio. All’odore delle mele nel frutteto poco lontano della struttura, fresco e dolciastro. I sorrisi sdentati del suo compagno di stanza, un certo ChangKyun. Pensò anche al primo incontro che ebbe con JungKook. Allo sguardo interessato e al sorriso candido del suo amico, quando gli aveva teso la mano, presentandosi. Indossavano la stessa maglietta di un gruppo musicale coreano, ed era stato proprio quello, ad unirli. Ricordò di quella volta in cui avevano saltato le lezioni, per andare a vedere la prima di Iron Man 3 al cinema. Alle risate, all’odore dei pop corns al burro fuso, ancora caldi. Memorie di tempi felici, ormai passati. Fantasmi incorporei, proprio come lui.
Ascoltare Min Yoongi, l’aveva fatto sprofondare in una dimensione di melanconiche reminiscenze, che gli misero voglia di piangere. Scoprendo però di non poterlo più fare. Si sedette sul gradino della casa del pianista, lasciandosi cullare dalle dolci note che attraversavano le mura. Chiedendosi ancora una volta dove fosse il suo migliore amico.

 
 



 
 
I thought we were identical, but we resemble each other.
Though we lived in different spaces, we always met.
Like a well-thought-out scenario, everything fits in perfectly.

 
 

Dopo ore d’infruttuose ricerche del suo nuovo vicino di casa, Kim SeokJin era tornato alla sua dimora, esausto, accompagnato dall’aurora che stava ormai sorgendo. Aveva percorso vie in cui i suoi piedi non si erano mai avventurati, affrontando occhiate irrispettose o timorati inchini, a seconda del tipo di anime. Si era perfino spinto verso le case dei due artisti della quarta strada, ma inutilmente. Il ragazzino sembrava sparito. Allora, aveva rinunciato a cercarlo, per il momento. Gli avrebbe parlato alla prossima sera.
Appena fu nei pressi di casa sua, SeokJin scorse il cugino NamJoon, seduto sugli scalini della piccola abitazione. Il mento poggiato nelle mani a coppa, lo sguardo rivolto verso il cielo, che digradava dal nero al tenero rosa del mattino. Il ragazzo rifletté che egli mantenesse fin troppo gli occhi fissi verso l’alto. Ecco perché pareva così avulso dalla dimensione in cui giaceva. Sembrava vivesse solo nel mondo delle idee, da bravo sofista che era. A volte, capirlo diventava un’impresa, perfino per il principe. Forse, avrebbe davvero dovuto seguirlo per ascoltare qualche dissertazione, come aveva suggerito sua madre.
«Stai occupando abusivamente la mia entrata, spostati» gli disse SeokJin, fermandosi a pochi passi da lui. Che gli rivolse un’occhiata interessata e un sorriso guarnito dalle fossette.
«Cugino» l’accolse, con il suo consueto vocabolario del diciannovesimo secolo. «Ti ho cercato in lungo e in largo, ma senza successo. Così, sono venuto qui ad aspettarti. Proprio come si fa con il cadavere dei nemici sull’altra sponda del fiume, come suggeriva Confucio» gli disse. Il principe roteò gli occhi. E poi si sedette accanto a lui, sospirando.
«Kim TaeHyung è un mio discendente» ammise, a malincuore.
«Lo so bene» rispose lui, senza scomporsi. SeokJin lo guardo, in stato di shock.
«Come, lo sapevi?»
«Certamente. Ecco perché cercavo di farti capire che la tua ira sarebbe stata inutile. Il poveretto è sangue del tuo sangue, non ha mica chiesto lui di avere quel tipo di patrimonio genetico. L’unico con cui dovresti prendertela, sei tu stesso. E la tua reprensibile condotta sessuale ai danni…»
«Sì, sì, sì, ho capito, finiamola qui» l’interruppe, agitando le mani per dare enfasi alle sue parole.
«Mi auguro che, adesso, il tuo atteggiamento nei suoi confronti sarà più tollerante» aggiunse NamJoon, calmo.
«Madre potrebbe disconoscermi, se non lo facessi» borbottò, ricordando ancora la partaccia avuta poche ore prima.
«Ah, santa zia. Ce ne fossero in più, di donne come lei, per codesto secolo» convenne il biondo, giungendo le mani con riconoscenza. SeokJin sollevò un sopracciglio, modulando un’espressione incredula.
«Di’ un po’, hai mai pensato di fare qualcosa per questo tuo modo datato di parlare? Siamo negli anni duemila, il diciannovesimo secolo ha appena detto di rivolere il vocabolario indietro» gli disse, fissandolo con eloquenza. NamJoon ridacchiò, scuotendo la testa.
«Mi esprimo nell’unico modo in cui son capace, caro cugino. Chi mi ama, mi segua» si limitò a commentare, stringendosi nelle spalle.
«Oh, Signore, che causa persa. E menomale che tu dovevi essere quello intelligente, in famiglia» mormorò, mettendosi le mani nei capelli.

 



 


 
He said, "Look at you, worrying too much about things you can't change.
You'll spend your whole life singing the blues, if you keep thinking that way."
He was trying to skip rocks on the ocean, saying to me,
"Don't you see the starlight?
Don't you dream impossible things?"
 
 

TaeHyung riprese conoscenza sullo stesso scalino in cui doveva essersi assopito. Ascoltare la musica di YoonGi doveva averlo fatto scivolare nel sonno, senza che se ne rendesse conto. Il sole brillava alto nel cielo, e la città sembrava deserta. Tanto, che egli si domandò perfino se non avesse nuovamente cambiato luogo di residenza, rivenendo chissà dove. Si sollevò, sbadigliando. Forse, sarebbe stato meglio tornare a casa. Se quel piccolo edificio poteva essere identificato come tale. Magari, l’iracondo principe non sarebbe stato nei paraggi, pronto a fargli desiderare di essere privo di dimora, come HoSeok.
S’incamminò verso la cappella, lasciando vagare lo sguardo sulle rigogliose piante circostanti e gli sprazzi di aree verdi. Quel luogo sembrava veramente pacifico, sotto la luce del sole. Un’immagine ben diversa, dal posto popolato da tutte quelle anime, appena l’astro calava. Ricordò che, in vita, non era mai stato in un cimitero. Non aveva legami stretti con nessuno, dunque i lutti occasionali che arrivavano nella sua vita, lo coglievano soltanto di striscio. Sapeva, per opinione comune, che fosse un luogo triste. Dove le persone piangevano e soffrivano, ricordandosi di essere stati privati della compagnia dei loro cari, per sempre. Se solo avessero saputo cosa accadeva al tramonto, forse non avrebbero più avuto motivo di dispiacersi tanto.
Si trovò a domandarsi cosa poi fosse davvero, il dolore. Quella sensazione opprimente che colpiva il petto, manifestandosi in maniera più diretta sul volto. Nessuna parte del corpo faceva male, ma l’individuo soffriva ugualmente. Dispiacendosi. Ricordò le parole di uno dei suoi compagni di stanza all’orfanotrofio. “Quando me ne andrò, voglio che i miei cari facciano una festa. Che bevano, mangino e ridano. Sarei tristissimo nel vederli piangere. Non vorrei che fossero infelici per colpa mia. Preferirei che sorridessero, ricordandosi dei bei tempi insieme”. Quel bambino aveva dieci anni. E sembrava già aver capito molto, di come girasse il mondo.
Improvvisamente, i piedi di TaeHyung si arrestarono. Perché, sui gradini della cappella Jeon, aveva riconosciuto proprio lui. JungKook. Con il volto seppellito nelle braccia, appoggiate sulle ginocchia. Le spalle scosse dal pianto, i cui suoni erano udibili perfino da una certa distanza. Se ne stava raggomitolato su se stesso. Una palla di dolore.
«JungKook-ah!» Esclamò il giovane, correndo verso di lui. «Alzati, Kookie, sono proprio qui! Guardami!» Continuò, urlando, mentre afferrava le spalle del suo amico, ancora scosso dai singhiozzi. Rimase allibito, nel vedere che le sue mani affondavano oltre il corpo del giovane, sparendo. Non poteva toccarlo. Non sembrava che lo sentisse e neanche vedesse. TaeHyung era perfettamente invisibile ai suoi occhi. E cominciò ad aver paura. Vedere il suo amico lì, proprio dinanzi a sé e sapere di non poter fare nulla per lui, era doloroso. Si sentiva impotente ed estremamente dispiaciuto. Intuiva di essere il motivo dietro le sue lacrime, ma non poteva risolvere quella situazione. Non se egli non riuscisse nemmeno rendersi conto che lui era lì.
«Andiamo».
In quel momento, TaeHyung sentì una presa salda stringergli il braccio, trascinandolo via. Alzò gli occhi, e vide HoSeok al suo fianco, che camminava a passo spedito. Aumentando la distanza fra la giovane anima e l’essere umano piangente sugli scalini.
«Lasciami, devo tornare da lui» protestò il biondo, provando a divincolarsi. Ma nulla. Il ragazzo dai capelli d’arancia sembrava più forte e risoluto delle sue rimostranze. «HoSeok!» Lo richiamò nuovamente, ma non c’era niente da fare.
«Non può vederti, né sentirti» gli rispose, continuando a camminare. «Rimanere aumenterebbe solo il tuo rimorso, e non puoi permettertelo. Ricordi cosa abbiamo detto, a proposito degli Scacciati
«Ma JungKook ha bisogno di me!» Urlò, provando a pestare i piedi. Allora, l’altro si fermò, inchiodandolo dov’era con lo sguardo e lasciandogli il braccio.
«Sì, è vero. Non in questo stato, però. Se io ti lasciassi andare, tu correresti da lui. Cercando in tutti i modi di farti notare, o di provargli che sei lì vicino. Ma il tuo amico continuerà a piangere, finché non riuscirà a calmarsi, per poi lasciare la città. E tu, rimarrai lì. Mentre le immagini del suo dolore continueranno a ripetersi nella tua mente, pesandoti sul cuore. Comincerai ad elaborarle, e ti arrabbierai. La rabbia ti condurrà al rimorso, e soffrirai. Giorno dopo giorno, il dolore diventerà sempre più grande. Finché non desidererai di possedere il corpo di qualche altro umano, solo per poter stare accanto al tuo amico. O peggio, non comincerai a provare invidia per l’esistenza dei viventi. E allora, verrai scacciato da qui. Sarai costretto a vagare in eterno sulla terra, schiavo dei tuoi stessi sentimenti negativi. Rovinando la vita di molte altre persone sul tuo cammino» disse HoSeok, risoluto. «È questo che vuoi, TaeHyung?» Gli chiese, gelido. «Se sì, ti lascerò andare. Con la consapevolezza che, la prima vittima del tuo egoismo, sarà proprio questo JungKook per cui ti agiti tanto. Altrimenti, potrai venire con me dalla zietta, calmarti ed elaborare pian piano l’intera situazione. Finché non potrai sederti accanto al tuo amico e tenergli la mano in silenzio. Confortandolo con la tua magnifica presenza, al posto di covare sentimenti che non dovresti. L’ultima parola è tua».
Il giovane guardò il suo amico con occhi ostili per qualche tempo. E l’altro resse il suo sguardo senza scomporsi, mortalmente serio. Trascorsero attimi di silenzio, nei quali i due parvero combattere una muta battaglia con due spade affilate. Finché, il biondo non abbassò il capo, sconfitto.
«Forza, portami via» mormorò, in un soffio. Ed HoSeok sorrise. Stringendogli la mano e trascinandolo nuovamente con sé.
«Sapevo che avresti fatto la scelta giusta».

 


 


 
I’ve been watching you, not only for today, but for the past few years.
I’ve never let go of you.
 
 

Kim SeokJin venne risvegliato dall’incessante suono di pianto umano. Aprì gli occhi con un diavolo per capello, domandandosi chi avesse tanto cattivo gusto da venire a frignare così rumorosamente a quell’ora, in un luogo di riposo. Caracollò fuori dalla casa, rendendosi conto che i gemiti provenivano proprio dall’edificio accanto al suo. Si permise di sporgere il volto oltre il muro, solo perché sapeva che i Jeon non sarebbero stati lì e che, al suo nuovo vicino, non sarebbe importato. Allora, vide un giovane sui vent’anni, con il volto accartocciato dal dolore. Inginocchiato di fronte al luogo in cui avrebbe dovuto esserci proprio quel Kim TaeHyung del giorno prima. SeokJin lo riconobbe. Passava lì di quando in quando, a portare dei fiori per quelli avrebbero dovuto essere stati i suoi nonni. Poteva individuare gli stessi lineamenti dei vicini, sul suo volto. I grandi occhi scuri, il naso importante e le labbra carnose. Per non parlare della conformazione fisica e di alcuni atteggiamenti innati. Come il vizio di tirare spesso su con il naso, a causa di una rinite ereditaria presente nel suo ceppo genetico da generazioni.  
Nel vedere la scena, decise di attraversare completamente la parte, ed affiancare il ragazzo. Guardò nella sua stessa direzione, e scoprì una foto in cui c’erano lui e l’altro teppistello. Sorridenti, giovani e pieni di vita. Dunque, SeokJin comprese che quello dovesse essere un suo caro amico. O un parente alla lontana. Eppure, non si somigliavano per niente, quindi decise di scartare la seconda ipotesi.
«Non saresti dovuto scappare via in quel modo, giorni fa» mormorò il giovane, rivolgendosi alla foto. «Se solo avessi fatto più attenzione, saresti ancora qui con me. Non avresti incrociato quella macchina, non sarei dovuto correre a sollevarti dall’asfalto freddo, guardandoti chiudere gli occhi» aggiunse, scoppiando nuovamente a piangere. «Mi dispiace per quello che ti ho detto. Non lo pensavo, e lo sai» disse poi, mentre la sua voce si spezzava. Un urlo di dolore piegò la giovane figurina su se stessa, mentre le sue dita artigliavano il freddo marmo, scivolando giù pian piano.
«Allora perché te ne sei andato?» Ululò, senza sollevare il capo.
SeokJin sbarrò gli occhi e tornò in fretta nella sua abitazione. Non sopportava le scene di prostrazione emotiva dovute alla perdita. Soprattutto, quando si trattava di individui giovani. E così, quella era stata la fine di TaeHyung. Il suo migliore amico doveva avergli urlato chissà cosa, spingendolo ad andarsene, andando incontro ad una fine prematura, probabilmente a causa di un incidente. Poveretto. E pensare, che lui l’avesse accolto tanto duramente, solo qualche ora prima. Ignaro di tutto quello che aveva dovuto passare prima di arrivare lì, e il trauma dovuto al Primo Risveglio. Si sentì un po’ in colpa, nei suoi confronti. Era solo un ragazzino, non avrebbe dovuto essere lì a quell’età. E, a giudicare dai singhiozzi, non lo pensava nemmeno il suo amico.
Si augurò che TaeHyung stesse dormendo pesantemente, o che fosse in qualunque altro luogo all’infuori di quello. Assistere ad una scena simile, avrebbe trasformato anche l’anima più pura, in uno Scacciato.


 

 
 

Because I didn’t know anything about pain,
Because my heart was the first to melt,
I find it so hard to smile or cry.
 
 

«Zietta, sei sveglia?»
HoSeok aveva praticamente urlato al di fuori di una spartana cappella dall’aspetto vissuto. Non aveva ancora lasciato la mano del suo amico, il quale sembrava appassito come un fiore senz’acqua, al suo fianco. Sapeva che separarlo da quel JungKook era stata un’azione senza cuore, ma non aveva potuto fare altrimenti. Lasciarlo di fronte ad un tale spettacolo, avrebbe significato perderlo per sempre. Soprattutto ad una distanza così ravvicinata dal Primo Risveglio. Stava facendo la cosa giusta, ne era certo. Zietta sapeva come ricucire i cuori infranti.
«Certo tesoro, entra pure!» Gli rispose una squillante voce femminile dall’interno. Il giovane si voltò verso il ragazzo accanto a sé, sorridendo.
«Vedrai, adesso andrà meglio» gl’intimò, ottenendo solo un debole cenno col capo in risposta. Si fecero strada all’interno del piccolo edificio e trovarono una signora di sessant’anni ad attenderli. Era placidamente seduta su una sedia, abbandonata in un angolo della grande stanza piena di luce solare. Si alzò e corse ad abbracciare stretto HoSeok, come se non lo vedesse da molto. Aveva il fisico robusto, sebbene fosse non molto alta. Corti capelli rossicci, sguardo furbo e acceso, con un benevolo sorriso sulle labbra sottili. I suoi erano tratti europei e vestiva con degli abiti risalenti agli anni novanta. Ricordava proprio una zia, pensò TaeHyung distrattamente. Quando gli occhi della donna si posarono su di lui, egli sollevò educatamente un angolo delle labbra, sebbene non avesse poi tutta quella voglia di farlo. Era per non sembrare impudente.
«E chi è, quest’altro trovatello?» S’informò, squadrandolo da capo a piedi. «Ha un’aria triste. Non dirmi che è stata colpa tua» disse ad HoSeok, puntandogli contro un minaccioso indice affusolato, dalla lunga unghia color rosso corallo. Il ragazzo scosse la testa, sorridendo.
«Un amico, zietta. Si è svegliato qualche ora fa, per la prima volta. Ed oggi era giorno di visite…» commentò, calcando sull’ultima frase e non aggiungendo più nulla, poiché la donna aveva cominciato ad annuire, con consapevolezza. Passò un braccio tornito attorno alle spalle di TaeHyung, stringendolo a sé. Aveva un buon profumo, che ricordava il borotalco. Lo fece sedere sulla sedia al suo posto, tirando fuori una seconda seduta dal muro ed accomodandosi accanto a lui. HoSeok si mise per terra, incrociando le gambe alla turca. Zietta si rovistò nelle tasche dello scuro pantalone palazzo ed estrasse delle caramelle. Erano del tipo Rossana, quelle a forma di parallelepipedo, dure fuori e con il ripieno di crema all’interno. Ella ne depose un paio nelle mani del biondo, che le guardò senza comprendere. Essendo coreano, ignorava l’esistenza di quei dolcetti. Li fissava come se li vedesse per la prima volta in assoluto.
«Mangiale» gli ordinò lei, accarezzandogli dolcemente la spalla. «Gli zuccheri aiutano sempre» sostenne, annuendo fra sé. TaeHyung fece come gli fu intimato, e cominciò a scartare la caramella, il cui involucro rossastro produsse un crepitio, che risuonò limpido fra le mura della cappella. Rendendosi conto della cacofonia, si arrestò immediatamente, guardandosi attorno con aria colpevole. Nello scorgere la sua espressione, HoSeok e Zietta scoppiarono a ridere.
«Che c’è, hai paura di una caramellina?» Chiese lei, continuando a ridacchiare.
«No» rispose il giovane, smarrito. «Il rumore…»
«Ma figurati!» Lo liquidò ella, con un gesto di mano. «Non c’è nessuno qui. Potresti anche metterti a ballare e saltare, come fa HoSeok. Nessuno direbbe nulla».
«I vicini?»
«Dormono. Non sentirebbero nemmeno le cannonate» minimizzò la donna. TaeHyung, rassicurato da quelle parole, completò la sua opera e si portò il dolcetto alle labbra. Era buono. Sapeva di crema. Non pensava avrebbe mai avuto la possibilità di riscoprire i sapori, in quello stato.
«TaeHyung non voleva venir via, prima. Sosteneva che il suo amico avesse bisogno di lui, in casa» intervenne HoSeok, interrompendo il breve silenzio che si era creato fra loro. Ella annuì, acchiappando l’amo che il ragazzo le avesse lanciato. Qualsiasi cosa, pur di distrarre quel povero giovane dal dolore della prima visita dopo il risveglio.
«Ascolta, caro. Immagina la vita come la permanenza in un albergo. Questo resort è il mondo. In cui, ognuno di noi ha una stanza. Come accade spesso, i residenti vanno e vengono. Ma le camere rimangono. Ecco, per quel tuo amico, la stanza che avevi occupato fino a quel momento, è rimasta vuota. Entrarci dentro farà molto male, per i primi tempi, perché ogni oggetto e angolo porterà il ricordo della tua presenza. E lui non potrà più avvertirla, questa presenza. L’unica cosa che tu puoi fare, è cercare di non dispiacerti per la tua sorte. So che è difficile, ma non sei stato tu a decidere di dover lasciare l’albergo. Diciamo che... ti hanno chiesto di andar via. O meglio, l’hanno domandato al tuo corpo» disse lei, stringendogli calorosamente una mano. «Ma l’idea di te è ancora lì. E, prima o poi, il tuo amico non sarà più così distrutto da essa. La stanza non sarà per lui fonte di dolore, ma simbolo di dolci ricordi. Come si guardano le vecchie foto d’infanzia sull’album fotografico. Allora, tu potrai tornare nella camera e stargli accanto. Posargli una mano sulla spalla, e sorridere insieme a lui dei bei momenti passati insieme. Senza rimpianti. In pace. Diventando per lui una magnifica presenza, il ricordo che solleva le sue labbra in un sorriso. Un motivo per essere felice di ciò che è stato, e non triste per quel che non sarà. Mi hai capito, tesoro?» Chiese, gentile. TaeHyung annuì.
Avrebbe voluto piangere, ma non poteva. Zietta lo comprese, e abbracciò stretta il giovane. Che si abbandonò con il capo sulla sua spalla, singhiozzando senza lacrime. Le sue parole erano state tutte vere, dalla prima all’ultima. Vedere JungKook gli faceva male tanto quanto lui potesse dispiacersi di non averlo più accanto a sé. La famigerata stanza vuota. In cui ogni angolo era pregno della sua presenza, delle sue abitudini. Ma la vita, per gli umani andava avanti. Col tempo, il suo amico avrebbe accettato quel cambiamento. Avrebbe cominciato a pensare ai ricordi senza piangere. Elaborandone solo il calore e la gioia della felicità condivisa. Avrebbe accettato lo stato delle cose. E allora, sarebbe entrato nuovamente nella stanza, senza piangere. Per incontrarlo ancora, sebbene lui non potesse vederlo. E trascorrere del tempo insieme, proprio come ai vecchi tempi, senza rancore e dolore.
TaeHyung pensò a quello e a molto altro, mentre Zietta gli accarezzava dolcemente la schiena come una mamma, cullandolo fra le sue braccia e dicendogli che sarebbe andato tutto bene. Assicurandolo che, come per HoSeok, casa sua sarebbe stata sempre aperta, per lui. Il giovane dai capelli d’arancia, aveva avuto ragione. Il biondo cominciava lievemente a sentirsi meglio.


 



 
 
We were seventeen and crazy, running wild, wild…
Can't remember what song it was playing when we walked in,
The night we snuck into a yacht club party,
Pretending to be a duchess and a prince.
 
 

Al calar del sole, TaeHyung ritornò nella sua dimora, certo ormai di non trovare nessuno, sui suoi scalini. Si sentiva piuttosto stanco, proprio come se non avesse dormito da giorni. Aveva trascorso l’intera mattinata con HoSeok e Zietta, ascoltandola narrare eventi della sua giovinezza da ricca scavezzacollo.
La donna veniva da una numerosa famiglia aristocratica, ed aveva moltissimi fratelli e sorelle sparsi in giro per la città. Di quando in quando, si facevano visita gl’un gl’altri, rievocando i bei vecchi tempi, o desinando tutti insieme grazie alle offerte di cibo dei loro cari ancora in vita. Ella aveva raccontato loro di un vecchio matrimonio, in cui, al buffet, avevano servito frutti di mare in tavola. In mancanza di strumenti con cui pulirsi le mani, Zietta le aveva affondate nel secchiello delle bevande, certa che nessuno se ne sarebbe accorto, rimediando al problema. E ottenendo di far ridere per ben dieci minuti i due ragazzi, proprio come i commensali al suo tavolo, allora. Ricordò anche di quando suo fratello si era vestito da donna, a Carnevale, facendosi passare per un’altra delle sue sorelle. E combinando una serie piuttosto ilare di guai. Zietta gli aveva dipinto una giovinezza così piena e frizzante, da allietare anche le anime più in pena.
Il biondo aveva pensato fin da subito che fosse lei, la vera magnifica presenza di quel luogo. Una persona affabile. Materna. Sempre pronta ad accogliere chi fosse in difficoltà, confortandolo con una parola dolce o le sue immancabili caramelle. Sapeva ascoltare, ed intervenire nei momenti opportuni. Soprattutto, sapeva cosa dire e in che modo comunicarlo, di modo che giungesse dritto al cuore di chi le stesse prestando l’orecchio.
Per HoSeok, Zietta era stata una nuova nonna, simile forse anche ad una madre. E si augurò che potesse diventare lo stesso anche per TaeHyung. Quell’anima giovane, non avvezza alle dinamiche della nuova dimensione in cui era stata catapultata, gl’ispirava una tenerezza infinita. Forse, la stessa che legava YoonGi a JiMin e viceversa. L’avvertiva affine, come spirito. Qualcuno con cui sarebbe andato d’accordo meglio degli altri. Ecco anche perché si fosse dato tanta pena per stargli dietro, e tirarlo fuori dalle prime insidie che la città potesse nascondere per i nuovi arrivati. Sentiva di volergli già bene, come ad un fratellino minore che tendesse sempre a cacciarsi nei guai. O al classico amico impacciato, che finiva sempre per inciampare sui suoi stessi piedi, rischiando di cadere ogni tre per due.
Dall’altro lato, TaeHyung si sentiva infinitamente grato ad HoSeok, anche solo per la sua semplice esistenza all’interno dei suo stesso circondario. Aveva fatto così tanto per lui, in quel poco tempo, che il biondo pensò che non sarebbe mai stato in grado di ripagarlo. L’unica cosa che poteva offrirgli, era la sua amicizia. E si sarebbe assicurato di non venire meno a quello strano ed inconsistente pegno che egli stesso aveva deciso di rendergli.
Appena fece per mettere un piede sul gradino della cappella, qualcuno richiamò la sua attenzione, con un educato schiarimento di gola. Il giovane si voltò, trovandosi dinanzi la figura dell’antipatico principe. La cui dimora era proprio accanto alla sua. Sospirò.
«Ascolta, se sei qui per litigare…» esordì, ma il ragazzo sollevò una mano. Riconducendolo al silenzio.
«In verità, sono venuto per scusarmi» rispose, inchinandosi profondamente. TaeHyung non poteva credere ai suoi occhi. Lo fissò, con circospezione. Faceva sul serio?
«Davvero?» Chiese, non credendoci nemmeno un po’.
«Sì» ribatté invece SeokJin, sinceramente pentito. «Quando hai detto di “essere un Kim anche tu”» ripeté, mimando delle virgolette con le dita, «non sbagliavi. A quanto pare, sei un mio diretto discendente e questo fa di te, parzialmente, un nobile».
Il biondo continuò a fissarlo, senza scomporsi.
«E allora?» Domandò, non comprendendo dove volesse andare a parare.
«Allora» ripeté il principe, già cominciando ad esasperarsi. «Vuol dire che non sono più indignato dalla tua presenza. Che sono, anzi, felice di averti come vicino di casa. E che nessuno mi mancherà di rispetto, sapendo che mi vivi accanto» decretò, sorridendo con affabilità. TaeHyung seguitò a guardarlo, per poi stringersi nelle spalle con noncuranza.
«Buono a sapersi» commentò, e salì anche l’altro gradino, dandogli le spalle.
«Ma come, e non rispondi con nulla?» Chiese il nobile, confuso da quell’atteggiamento indolente tipico dei giovani del ventunesimo secolo.
«Ho detto che va bene» ripeté il biondo, fermandosi sulla soglia della cappella.
«E basta?»
«E basta» gli rivolse un sorrisetto stanco ed entrò, sparendo dalla vista di SeokJin. Che moccioso impertinente. E poi, gli parve di udire la voce di sua madre. “Il tuo moccioso impertinente, zucca vuota”. Sospirò, allontanandosi dalla dimora, andando alla ricerca di suo cugino NamJoon. Magari, convivere insieme non sarebbe stato poi così difficile, dopo tutto. Infondo, erano sangue dello stesso sangue. Se ne andò, fischiettando.
Jung HoSeok, che aveva assistito all’intera scena da dietro ad un maestoso albero secolare, sorrise. Kim TaeHyung sarebbe diventato una magnifica presenza. Ne era più che certo.

 

 
 
Don't you see the starlight?
Don't you dream impossible things?

 


 







 
Allora, che ve ne pare, della mia storia? Questo vecchio felino se la sa ancora cavare, con le parole. Ma voglio dirvi di più. È passato un anno, dagli eventi che vi ho descritto nei due giorni appena trascorsi. Ed io, adesso, mi trovo nello stesso posto in cui tutto è cominciato.
Il sole è alto nel cielo, in una mattinata di novembre. Il clima è bizzarramente tiepido, non è ancora tempo di acciambellarsi di fronte al caminetto. Avanzo tranquillo, fino alla cappella Jeon. E vedo proprio lui, il figlio della mia padrona. JungKook. È seduto sugli scalini, con gli occhi chiusi. Sta ascoltando la musica. Probabilmente, uno dei brani che lui e il suo migliore amico condividevano, nella playlist creata da loro stessi. Mi arresto dinanzi alla sua figura e mi siedo, guardandolo. Sorride, è tranquillo.
Improvvisamente, dalla porta chiusa della cappella, emerge Kim TaeHyung. Con un’espressione serena sul bel volto, muove qualche passo, fino ad accomodarsi sul gradino, accanto a lui. Mi vede, e gli angoli della sua bocca si sollevano, con fare familiare. Era proprio lui, a prendermi in braccio ogni volta mi vedesse, costringendomi a farmi fare un giro indesiderato delle camere, artigliandomi alla sua spalla. Ma non gli porto rancore. Anzi. Quasi quasi, un po’ mi manca. L’osservo, mentre avanza e si siede accanto a JungKook. Poi, si porta un dito alle labbra, intimandomi di fare silenzio. Rimango fermo, spero che lui capisca che io abbia compreso le sue intenzioni. Allora, appoggia il capo sulla spalla del suo amico, chiudendo gli occhi. Sorridendo.
Mi allontano, in silenzio. Sento gli uccellini cinguettare. Nel mio passeggiare, supero una cappella piuttosto vecchia, dalla quale sento provenire delle risate. Scorgo il profilo di una donna sui sessant’anni, che conversa amabilmente con un giovane dai capelli di tramonto. Zietta e Jung HoSeok.
Continuo per la mia strada, senza fermarmi. Alla fine, non è cambiato nulla, qui. Il Popolo prosegue nella sua pacifica esistenza, e i nostri cuori si abituano alla loro presente assenza. Proprio come ha fatto anche JungKook. Finché, il ricordo non diventa un’immagine pronta a scaldarci il cuore. E ci rendiamo conto di avere delle magnifiche presenze, al nostro fianco.
Esattamente come quelle che hanno reso speciale questa storia.













 


  P l a y l i s t 
 

Park HyoShin - Wild Flower
Eddy Kim - Artificial Flower
Epik High - Décalcomanie
Taylor Swift - Starlight


 
#Yah!: non c'è molto da aggiungere a questa storia. La scrissi esattamente un anno fa, per una ricorrenza che mi ha inevitabilmente segnato la vita, e con la quale faccio i conti tutt'ora. Ad ogni modo, non è stata mia intenzione farne una one-shot triste, perché la persona alla quale è dedicata in primis, non l'avrebbe tollerata lacrimevole. Eccovi dunque una mia personale interpretazione di alcune condizioni di esistenza, visibili o meno che siano. Oggi non aggiornerò nessun'altra long che ho in corso, e confido nella vostra comprensione per tale scelta. Spero che MP vi abbia regalato almeno un sorriso, e che sia stata utile a voi almeno un pizzico di quanto fu (ed è tutt'ora) utile a me, un anno fa. Grazie come sempre a chiunque decida di dedicarle un pochino del proprio tempo <3
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS) / Vai alla pagina dell'autore: whitecoffee