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Autore: Old Fashioned    17/10/2017    19 recensioni
Londra, 1887. Nel posto di Polizia di Whitechapel cominciano a verificarsi misteriosi incidenti che colpiscono, uccidendoli invariabilmente, gli agenti veterani.
Sarà una recluta con sei mesi di servizio, Alistair MacLeod, a cogliere una sinistra coincidenza che accomuna tutti i decessi, e a decidere di indagare. Tra segreti inconfessabili, omertà e pericoli, scoprirà una terribile verità.
Seconda classificata al contest "Magiche Feste" indetto da Dollarbaby sul forum di EFP e giudicato da E.Comper
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tarocchi 2 Capitolo 2


Alistair MacLeod pensò che quella era la notte più tranquilla che avesse mai trascorso in servizio. Non che avesse chissà quale casistica al suo attivo, ma da quando era montato non aveva praticamente fatto altro che alzarsi di tanto in tanto per andare a mettere un po’ di carbone nella stufa.
Guardò fuori dalla finestra. Nel cono di luce del lampione stavano turbinando enormi fiocchi candidi, regnava il gran silenzio tipico delle nevicate.
L’orologio del campanile batté due rintocchi gravi e uno più acuto. L’agente bevve un sorso del tè che nel frattempo si era preparato e prese a scrivere sul registro. Gli unici suoni che si udivano nella stanza erano lo scricchiolio della penna sulla carta e il raro cigolio della sedia.
A un certo punto, MacLeod udì distrattamente il rumore della porta che si apriva e dei passi leggeri che si avvicinavano. Prima ancora di alzare la testa dalla pagina che stava compilando, fu investito da un’ondata di freddo che gli penetrò fin dentro le ossa. Alzò lo sguardo e dovette farsi forza per non sussultare: di fronte a lui c’era una signora anziana e vestita a lutto, con un gran cappello velato in testa. “Buona sera,” salutò compita, con una voce che sembrava lo sfiato di un vecchio mantice.
Il giovane deglutì e rabbrividì per il freddo. Salutò a sua volta e chiese: “Che cosa posso fare per voi, signora?” Nel frattempo cercava di scrutare in viso la misteriosa visitatrice, ma sotto gli strati di tulle riusciva a distinguere soltanto un ovale bianco con due aloni neri in corrispondenza degli occhi.
La signora tentennò il capo, giunse sul petto mani che anche sotto i guanti si intuivano magrissime e disse: “Sto cercando l’agente Jackson, per favore.”
MacLeod sentì il cuore saltargli un battito. “Come… come avete detto, signora?”
“L’agente Reginald Jackson,” ripeté gentilissima la misteriosa avventrice. “Per favore,” soggiunse poi, facendo un passo avanti e incurvandosi appena verso il giovane poliziotto.
Questi si trovò involontariamente ad arretrare. Prese comunque la penna e la intinse nel calamaio. “Le vostre generalità, signora… gentilmente...”
L’altra inclinò appena la testa da un lato.
“Come vi chia...” Una porta che si apriva lo fece letteralmente saltare sulla sedia. Si girò verso la provenienza del rumore e vide arrivare L’agente Brennan che disse: “MacLeod, vuoi che stia io al registro per un po’?”
“Aspetta,” rispose il giovane, poi si girò, ma la vecchia signora era scomparsa. Alzò gli occhi sulla porta d’ingresso e vide che si stava chiudendo lentamente.
In un attimo saltò in piedi, infilò il pastrano e accese la prima lanterna che gli capitò a tiro, poi si lanciò con quella in mano all’inseguimento della donna. “Coprimi per un po’!” urlò dalla soglia al collega, quindi si immerse nella notte silenziosa senza nemmeno aspettare la sua risposta.


Tra l’oscurità e la fitta nevicata, la vecchia signora era scomparsa alla vista, ma erano ancora ben distinguibili le sue impronte.
MacLeod cominciò a seguirle. Allungò il passo con l’intento di raggiungere l’anziana donna, ma ella sembrava essersi dissolta nel buio.
La lanterna illuminava solo le sue tracce, che serpeggiavano sicure tra i vicoli di Whitechapel. Il poliziotto aumentò l'andatura, certo che avrebbe in breve sopravanzato la vecchia signora, ma non fu così: per quanto corresse, c’erano solo le orme a condurlo, ed ebbe la sensazione che come le briciole di Pollicino lo stessero portando a perdersi dentro la foresta.
Proseguì per un po'. I suoi passi suonavano soffici sul manto di neve fresca, rompendo un silenzio misterioso e carico di attesa.
L'agente arrivò a un vecchio magazzino intorno al quale erano state erette delle impalcature. Lì lo strato di neve si assottigliava fin quasi a scomparire, e le impronte si perdevano. Il poliziotto fece girare la lanterna tutt'intorno: le tacce lasciavano supporre che la vecchia signora fosse entrata nell'edificio.
“C'è qualcuno?” chiese a voce alta. “Signora? Siete qui?”
Non gli giunse risposta.
Fece qualche altro passo, che all'interno del magazzino vuoto si riverberò in decine di echi, poi di nuovo sollevò la lanterna e fece scorrere il fascio di luce lungo le pareti, rivelando impalcature che le coprivano completamente.
“Signora?” chiamò di nuovo.
Il campanile batté tre rintocchi, e quando si ristabilì il silenzio, MacLeod si rese conto che da una delle impalcature proveniva uno sgocciolio. Volse il fascio di luce in quella direzione, rivelando una pozza rossa che si allargava sul pavimento.
Si avvicinò: colore, odore e consistenza non davano adito a dubbi. Alzò lo sguardo per scoprirne l'origine, e il respiro gli si mozzò in gola
L'unica cosa di lui per lunghi secondi fu sicuro, fu che si trattava di un agente di Polizia. Dopo aver fatto alcuni profondi respiri guardò meglio, e si accorse che era Reginald Jackson.
“Reggie...” mormorò, mentre una sensazione di freddo glaciale lo invadeva.
L'agente aveva una corda da cantiere attorcigliata a una gamba e pendeva a testa in giù come una mezzena nella bottega del macellaio, dondolando lentamente. Sul cranio aveva una profonda ferita, dalla quale sgorgava il sangue che si stava raccogliendo sul pavimento. Gli occhi spalancati e vitrei facevano capire che era morto.
Interpretarlo come un incidente sarebbe stato facile: l'agente era salito per qualche motivo sulle impalcature, nel buio aveva finito per mettere il piede nella corda di una carrucola, se l'era attorcigliata alla gamba e aveva perso l'equilibrio, sbattendo poi la testa da qualche parte nella caduta.
Diventava però sempre più difficile credere che quelli fossero solo incidenti.
“Signora?” chiamò di nuovo, “Siete qui?”
Fece un giro tutt'intorno allo stabile: le impronte arrivavano, ma non ripartivano.
“Signora?”
Controllò ovunque, compatibilmente con le possibilità di una donna anziana e in abito lungo di arrampicarsi su malsicuri ponteggi di legno, ma non trovò anima viva. In quel magazzino c'erano solo lui e il corpo del povero Jackson.
E una pervasiva, angustiante sensazione di essere osservato, così intensa che un paio di volte aveva spinto il giovane agente a girarsi di scatto come per sorprendere qualcuno alle sue spalle.


§


“È un maledetto schifo!” accolse la notizia James Wyndham. “Reggie era un agente esperto, con vent'anni di servizio alle spalle. Come accidenti ha fatto a cadere da quel ponteggio?” Si girò verso MacLeod e in tono velenoso chiese: “Non è che gli hai dato una spintarella tu, moccioso?”
“E dai, Jim!” lo richiamò Kelsey.
“Il moccioso sta facendo troppe domande, secondo me c'entra qualcosa,” ribatté imperterrito il veterano.
Campbell lo prese per un braccio come per invitarlo alla calma. “Sai bene che il ragazzo non c'entra niente,” gli disse in tono significativo. “Sai bene che il problema non è lui.”
L'altro lo fissò teso e rosso in viso, ma pian piano si rilassò e riprese a respirare normalmente. Si girò verso i colleghi riuniti a capannello e chiese: “Dobs, ce l'hai ancora quella fiaschetta?”
“Sì, certo, James.”
“Dà qua.”
L'interpellato gli porse il recipiente, Wyndham lo stappò, fece girare tutt'intorno uno sguardo come di sfida e se lo portò alle labbra.
Bere in servizio era un'infrazione grave, ma Kelsey preferì voltarsi dall'altra parte.
L'altro vuotò la fiaschetta, poi la restituì al legittimo proprietario, rivolse un'altra occhiata storta a MacLeod e disse: “Beh, il giro di ronda non si fa da sé. Sarà meglio che vada.”
Senza aggiungere altro, si buttò il pastrano sulle spalle, si calcò in testa il casco e uscì sbattendo la porta.
Nel silenzio che l'agente si era lasciato dietro, echeggiò la voce mite di Webster: “C'è da capirlo, poveretto. Reggie era suo amico.”
“Era amico anche di tutti noi,” replicò ruvido Lynch, “eppure nessuno sente il bisogno di fare il melodramma.”
Dal capannello degli agenti si levò una voce: “E comunque, non penso proprio che sia l'amicizia con Reggie il problema.”
Tutti si voltarono in quella direzione. Le braccia dietro la schiena, Woods disse: “Andiamo, lo sapete tutti di cosa stiamo parlando. Volete scommettere con me su chi sarà il prossimo?”
Nessuno rispose. Gli agenti si dispersero anzi brontolando e ognuno tornò alle proprie occupazioni.
MacLeod cercò di captare lo sguardo di Campbell in una muta richiesta di spiegazioni, ma il collega gli girava ostinatamente le spalle.


§


MacLeod si affacciò alla porta dell'archivio. “È permesso?”
Webster gli rivolse un'occhiata indecisa. “Ah... ehm... Certo, certo. Vieni pure.” Rimase a guardarlo con aria irresoluta.
“Avevi da fare, Paul? Ti disturbo?”
“Ecco, non proprio...” L'archivista dardeggiò intorno uno sguardo apprensivo.
“Vuoi che torni dopo?”
“Beh...”
Il giovane si ritirò in buon ordine. Andò alla ricerca di Campbell. “Hai un minuto?” gli chiese una volta che l'ebbe trovato.
“Certo, per che cosa?”
“Andiamo a bere un po' di tè,” gli disse l'altro, quindi lo prese familiarmente sottobraccio e lo condusse nella stanza riservata agli agenti, che in quel momento era vuota.
Quando furono entrati, chiuse la porta, quindi preparò due tazze e ne fece scivolare una verso il collega, che nel frattempo si era seduto al tavolo. Campbell continuava a fissarlo senza dire nulla, ma il suo sguardo faceva chiaramente capire che sapeva benissimo quale sarebbe stato l'argomento della conversazione.
Alla fine, MacLeod chiese: “Cos'è successo sette anni fa?”
L'altro sollevò le sopracciglia. “Diciamo che sei uno che non si perde in chiacchiere.”
“Io sono un novellino e non so nulla,” fu la risposta, “ma non sono stupido, Charles. Qui c'è qualcosa che nessuno dice, ma che tutti sapete benissimo.”
“Tu sei qui da nemmeno sei mesi,” replicò Campbell, in tono insolitamente aggressivo, “e lavori con gente che a momenti è in servizio da quando sir Robert Peel[1] andava ancora al college. È normale che ci siano cose che sanno tutti tranne te.”
Sullo stesso registro, MacLeod ribatté: “Certo, ma di solito, quando chiedo qualcosa che non so, tutti me la spiegano. Quando si parla degli agenti morti, invece, nessuno apre bocca. Anzi, mi prendo anche degli insulti.”
“Lo credo bene, per molti qui dentro i colleghi sono come la famiglia. Se tu perdessi un fratello, ti farebbe piacere che l'ultimo dei novellini ti venisse a chiedere se per caso è morto perché aveva commesso qualche irregolarità sul servizio?”
“Con la differenza che qui non siamo parenti.”
“Ma è come se lo fossimo. In servizio bisogna potersi fidare ciecamente gli uni degli altri. Bisogna essere certi che i compagni ci copriranno le spalle, a prescindere da qualsiasi cosa.” Tacque per qualche secondo, poi chiese: “Tu pensi che i colleghi possano fidarsi di te, con tutto il casino che stai facendo?”
MacLeod lo fissò negli occhi. “E io, posso fidarmi di loro? Posso essere sicuro che non piegheranno le norme di servizio a loro uso e consumo quando se ne presenterà la necessità?”
“Adesso non esagerare,” disse Campbell. “A sentire te, sarebbero peggio dei Fratelli della Costa.”
Il più giovane non rispose. Si limitò a sorbire il tè in silenzio. Fu solo dopo aver vuotato la tazza che chiese: “Che cos’è successo a Malcolm O’Hanigan?”
Campbell lo fissò negli occhi. “Niente.”
“Senti, Charles,” disse il primo, “i tuoi colleghi, la tua famiglia, per dirla in un modo che ti piace, stanno morendo uno dopo l’altro. Sei anche tu in quella lista. Che cosa aspetti a fare qualcosa?”
“Non c’è niente da fare.”
“Ma in nome di Dio, perché?”
“Non puoi capire,” tagliò corto Campbell. “Hai troppo pochi mesi di servizio, non sai nulla, hai in testa solo norme e regolamenti, e ti rifai a quelli come al Vangelo. Non capisci che sono più importanti l’esperienza sul campo e la fiducia nei colleghi.” Si interruppe, emise un sospiro, poi concluse: “Lascia perdere, Alistair. Non c’è niente che tu possa fare.”
Detto questo si alzò, depose sul tavolo la tazza ancora piena e uscì chiudendosi la porta alle spalle. MacLeod rimase seduto per un po’, forse sperando che l’altro tornasse sui suoi passi, poi si alzò, rimise via le tazze e riempì nuovamente il bricco dell’acqua calda.


Per andare nell’archivio, MacLeod attese che Webster uscisse a pranzo. Il collega era un uomo assai abitudinario: tutti i giorni smontava dal servizio alla stessa ora, andava nel pub dall’altra parte della strada, consumava un sandwich o una fetta di pasticcio, e poi, dopo mezz’ora esatta, rientrava in centrale.
Non appena Webster ebbe fatto il suo ingresso nel locale, MacLeod si diede un rapida occhiata intorno, constatò che nessuno lo stava osservando e si infilò nell’archivio.
Ringraziò che nei giorni precedenti il collega gli avesse mostrato l’ubicazione di tutti gli schedari, e andò subito ai fascicoli degli arrestati alla ricerca di quello di O’Hanigan, già aspettandosi che fosse infilato in qualsiasi posto tranne il suo.
In realtà non faticò particolarmente a trovarlo, ma una volta che lo ebbe posato sul tavolo e aperto, ebbe un’amara sorpresa: il suo contenuto consisteva in fogli bianchi. Qualcuno aveva rimosso tutto il resto. Rimaneva solo il frontespizio, sul quale si trovavano scarne notizie anagrafiche: data di nascita, indirizzo e cose del genere. Copiò tutto su un foglio, quindi rimise al suo posto il fascicolo.
Abbandonò l’archivio con il suo magro bottino. Per svolgere le indagini aveva a disposizione l’ultimo indirizzo noto di O’Hanigan, la sua data di nascita e il nome di sua madre: Catriona O’Hanigan. Il nome del padre non era noto.
Andò alla mappa del quartiere che si trovava nella sala principale: la casa che stava cercando era situata nella zona più miserabile di Whitechapel, vicino a una conceria di pelli che giorno e notte ammorbava l’aria con i miasmi dei processi di lavorazione. In quel posto, dicevano i suoi colleghi, non andavano nemmeno i cani randagi, in primo luogo perché se no sarebbero finiti anche loro nella conceria, e poi perché lì la gente era talmente miserabile che nei rifiuti non c’era nemmeno il più misero avanzo da contendersi.
Si annotò il posto, quindi andò dal sergente Kelsey e disse: “Signore, chiedo il permesso di uscire.”
Il graduato, che stava compilando delle carte, alzò lo sguardo e lo fissò scettico. “Tu? Da solo?”
“Devo controllare l’indirizzo di un sospettato, signore,” fu la risposta, proferita nel tono più innocente che MacLeod riuscì a tirare fuori.
L’altro si raddrizzò, poi appoggiò le mani sul piano della scrivania come per puntellarsi. Infine disse: “Senti un po’, lo sai che tu sei la preda ideale di qualsiasi grassatore, delinquente e teppista del quartiere, vero? Hai scritto in fronte ‘novellino’, scommetto che sei più ingenuo della mia nipotina di sette anni.”
“Ho già imparato molto, signore,” insisté il giovane.
Il graduato emise un sospiro. “E va bene. Vedi di non rendere ridicolo il corpo di Polizia.”
“Sissignore. Grazie, signore.”
“Ora va’, lasciami lavorare.”


MacLeod si incamminò verso l’indirizzo che si era annotato. Man mano che procedeva, i dintorni si facevano sempre più degradati. Frotte di bambini magri e cenciosi, chi col moccio al naso, chi con la testa rasata a zero per scongiurare infestazioni di parassiti, sedevano sulla soglia di spelonche buie.
Alcuni inseguivano schiamazzando una palla di stracci. Un ragazzino più grande ne spintonò un altro, che si muoveva sostenendosi con una stampella, e lo mandò a rotolare sul marciapiede. Il poliziotto fece per intervenire, ma non appena si mosse verso di loro, i bambini si dileguarono in ogni direzione come ratti sorpresi in un granaio. La stampella rimase abbandonata al suolo.
Mentre l’agente si guardava intorno stupefatto, uscì da una delle porte una donna che poteva avere l’età sua madre. Aveva i capelli grigi raccolti in una crocchia e un abito dall’ampia scollatura, che lasciava vedere il seno vizzo. Sorrise mettendo in mostra pochi denti giallastri.
“Hai un penny, bel giovane?” gli chiese.
“Signora, sono un poliziotto,” le ricordò MacLeod.
“E non hai niente in mezzo alle gambe?” chiese lei, piazzandogli una mano esattamente nella parte che aveva menzionato.
L’agente fece un salto indietro e si allontanò inseguito dalle risate inframmezzate a colpi di tosse della prostituta.
Controllò che il borsellino fosse ancora al suo posto, quindi proseguì per la sua strada.
L’aria frattanto andava facendosi pesante, caliginosa e gravata sempre più del tanfo della conceria. Resistendo all’impulso di mettersi il fazzoletto su naso e bocca, MacLeod si chiese come fosse possibile vivere in quel posto. L’odore di carbone delle altre fabbriche, in confronto, poteva quasi essere considerato un profumo.
La neve caduta negli ultimi giorni aveva già assunto una tonalità giallastra, malata. Corde per il bucato tese attraverso i vicoli sostenevano miseri panni che a loro volta si impregnavano di quel veleno.
In giro non c’era nessuno, probabilmente gli adulti erano al lavoro nella conceria e i bambini chissà dove.
Nell’aria vi era un silenzio raggelante, i suoi passi risuonavano cupi sul selciato sconnesso.
Trovò infine la casa che cercava. Si trattava di un piccolo edificio isolato, situato al centro di quello che restava di un giardino. L’abituro era buio, lugubre, con le pareti annerite e scrostate dalle intemperie, chiaramente disabitato. Le persiane erano tutte serrate, su quelle del piano superiore erano state inchiodate delle assi disposte a X.
Il piccolo appezzamento recintato che lo circondava conteneva ormai solo qualche sterpo secco. Gli alberi probabilmente si erano già da tempo trasformati in legna da ardere per qualcuna delle abitazioni vicine, e delle statue rimanevano solo i basamenti.
Il poliziotto spinse il cancello arrugginito, che cedette stridendo sui cardini, quindi percorse il vialetto invaso dalle erbacce e salì i tre gradini che conducevano alla porta d’ingresso.
Abbassò la maniglia coperta da uno strato di polvere e l’uscio si socchiuse.
MacLeod aggrottò le sopracciglia. Dentro c’era una densa penombra, odorosa di polvere e muffa. Non si udiva il più piccolo rumore.
“C’è nessuno?” chiese.
Non giunse risposta.
“Polizia,” riprese l’agente a voce più alta, “Sto cercando la signora Catriona O’Hanigan.”
Di nuovo, non ottenne risposta.
Fece un passo indietro e si guardò intorno, ma la zona continuava a essere, o ad apparire, completamente deserta.
Scrutò ancora una volta all’interno. Alla luce che penetrava dalla porta, intravide qualche mobile coperto da lenzuola ormai ingrigite.
“Signora O’Hanigan?”
Ancora una volta, gli rispose solo un silenzio corposo, che gli evocò l'attesa paziente di un ragno. Aprì adagio la porta e si trovò a posare i piedi su un pentacolo che era stato tracciato con la vernice rossa direttamente sul pavimento, proprio davanti alla soglia.
A parte questo, lo colpì il fatto che dall’ingresso che stava contemplando non era stato asportato il più piccolo oggetto. Eppure la porta era aperta, e il quartiere versava in uno stato di povertà a dir poco spaventosa.
Era tutto lì, portacenere, quadretti alle pareti, persino il vaso da fiori con ancora dentro un mazzo di ortensie polverose. Sul tavolino c’era addirittura un cofanetto che conteneva dei bonbon di zucchero. Possibile che a nessuno dei bambini miserabili che aveva incrociato fosse passato per la mente di appropriarsene?
Notò che le specchiere appese ai muri erano tutte velate.
Rabbrividì: in quella casa c’era un freddo terribile, che penetrava nelle ossa. Forse perché era stata chiusa per tutto quel tempo. Si guardò intorno: gli occhi ormai si erano abituati alla scarsa luce, e man mano riusciva a cogliere sempre più particolari di quello che stava osservando. Appeso a una parete c’era il ritratto fotografico di una donna, l’agente si chiese se fosse Catriona O’Hanigan. Era una signora di mezz’età, olivastra, con uno chignon corvino e uno scialle frangiato sulle spalle, che in una mano teneva un mazzo di carte dall’aspetto antico, mentre l’altra era chiusa a pugno e puntata contro il fianco. Posava orgogliosamente sullo sfondo di un carrozzone dalla forma cilindrica, trainato da due robusti cavalli pezzati.
Lo colpì il suo sguardo: duro, imperioso, magnetico. Sembrava seguirlo mentre si spostava nella stanza. Dava l’idea di una volontà selvaggia, disposta a qualsiasi cosa pur di raggiungere lo scopo.
Tutt’intorno al ritratto, direttamente sulla parete, erano stati tracciati dei segni che l’agente riconobbe come celtici, ma ai quali non seppe dare un significato.
Sul pavimento, proprio sotto la fotografia, c’erano un polveroso mozzicone di candela e delle foglie accartocciate.
Esplorò altre stanze: dappertutto vi erano mobili coperti da lenzuola. Di tanto in tanto si imbatteva in pentacoli o altri simboli, perlopiù incisi con uno strumento acuminato sugli infissi delle finestre.
Salì una scricchiolante rampa di scale e raggiunse il piano superiore. Si guardò intorno, ma riuscì a scoprire ben poco: l’unica fonte di luce proveniva dalle fessure tra le persiane, il che permetteva giusto di distinguere i contorni delle cose. Intravide una camera da letto, con lo specchio come sempre coperto, e un bagno dall’altra parte del corridoio. Percepì una generica impressione di qualcosa che non era come sarebbe dovuto essere, ma prima che potesse anche solo analizzare meglio la strana sensazione, un richiamo lo fece sussultare: da fuori una voce femminile chiamava: “Signor poliziotto! Siete lì dentro, signor poliziotto?”
Il tono aveva una strana nota di apprensione.
“Signor poliziotto?”
La persona che lo stava chiamando doveva trovarsi sulla porta di casa.
MacLeod tornò al piano di sotto. “Eccomi!” disse. “Dove siete, signora?”
Sulla soglia c’era una giovane donna con le maniche rimboccate e le mani arrossate allacciate in grembo. Aveva un abito grigio e una cuffia bianca, dalla quale usciva qualche ciocca castana. Pur non osando fare un passo all’interno, stava allungando il collo per guardare dentro.
“Eccomi,” ripeté l’agente raggiungendola.
Ella sussultò all’udire la sua voce, quindi emise un sospiro di sollievo. “Dio sia lodato!” esalò. “Sta calando il sole. Presto, venite fuori.”
“Cosa?”
“Vi ho visto entrare, sapete? Stavo lavando i panni e mi sono detta: ‘Gwen, quell’agente si sta cacciando proprio in un bel pasticcio.’ Ho lasciato stare il bucato e sono venuta a cercarvi. Dove eravate finito? È un po' che vi chiamo, stavo cominciando a preoccuparmi.”
L’agente le rivolse un lieve sorriso, quindi le disse: “Vi ringrazio molto per la vostra premura, signorina, ma non dovete preoccuparvi: sono un agente di Polizia, posso affrontare qualunque malvivente.”
La ragazza scosse la testa. “Ho, no. No. Non ci sono malviventi là dentro, solo fantasmi. Nelle notti senza luna si sente la strega che urla, sapete?”
“Che strega?”
La giovane donna rivolse uno sguardo alla casa, che nella caligine dell’imbrunire s’era fatta più che mai sinistra e incombente. “Andiamo via,” mormorò. “Non vorrei che ci sentisse. Poi mi manda il malocchio.”
“Ma chi?”
“La Papessa Nera. Ma non dite che ve l’ho detto io, mi raccomando.”
“Chi è la Papessa Nera?”
La ragazza si morse il labbro. Senza rispondere scese i gradini e ripercorse a passo svelto il vialetto, quindi si fermò sul cancello. “Venite, signor poliziotto, presto!”
MacLeod la raggiunse. “Chi è la Papessa Nera?”
L’altra prese un gran respiro e aprì la bocca come per rispondere, ma in quel momento echeggiò poco lontano una voce che chiamava: “Gwen! Gwen! Vieni qui subito!”
La ragazza quasi sussultò. “È mamma. Devo andare.” Fece per incamminarsi, ma dopo un istante si fermò e si girò di nuovo verso di lui: “E andate anche voi, fatemi questa grazia. Sta venendo buio.”
“Volete dirmi perché, signorina? Cosa...”
Ma la giovane donna stava già correndo via. “Andate!” gli gridò prima di scomparire in un portone. Subito dopo si udì il rumore di chiavistelli che venivano tirati.


§


MacLeod rientrò al posto di Polizia quando ormai i primi lampioni erano accesi. Inspiegabilmente, si sentiva stanco morto e indolenzito ovunque, come se avesse svolto qualche lavoro pesantissimo. La sensazione di freddo che aveva percepito all’interno di quella casa non voleva abbandonarlo.
“Forse con una buona tazza di tè andrà via,” disse fra sé e sé, appendendo il pastrano all’attaccapanni.
Si avvicinò alla stufa e tese le mani per scaldarsele.
“Alla buon’ora!” esclamò il sergente Kelsey alle sue spalle. “Credevo che ti avessero venduto al circo.”
“Scusate, sergente,” mormorò il giovane.
“Dove sei stato, eh?” Poi, imitando il suo tono di voce: “Devo controllare l’indirizzo di un sospettato… dove abitava, questo tizio, in Cina?”
“Nossignore.”
“Beh, che non ti venga in mente mai più di andare a zonzo per mezzo pomeriggio come se fossi ai giardini pubblici. Siamo poliziotti, qui, non perdigiorno.”
“Sissignore.”
Si sentì una porta sbattere: il sergente se n’era andato.
Con un sospiro, MacLeod si lasciò cadere su una sedia accanto alla stufa e chiuse gli occhi. Mentre si trovava in quello stato di torpore, udì delle voci nella stanza attigua.
“Dà qua, Dobbins. Un goccio è quello che mi ci vuole, con questa storia.”
“Siamo in servizio, Jim.”
“E piantala, con lo stramaledetto servizio.”
Ci fu qualche secondo di silenzio, durante il quale si udirono il rumore di un oggetto metallico che veniva manipolato, e poi passi che si allontanavano, quindi risuonò di nuovo la voce di Wyndham. MacLeod non riuscì a capire bene, perché l’agente se ne stava andando, tuttavia gli parve che dicesse: “Io non voglio essere il prossimo.”
Poi la stanchezza finalmente lo vinse, ed egli si addormentò profondamente.


Quando riaprì gli occhi era tarda notte. I suoi colleghi l’avevano lasciato dormire, o più probabilmente non si erano nemmeno accorti che lui era lì sulla sedia.
Si guardò intorno stirando le membra intorpidite, aggiunse un po’ di carbone alla stufa e fece qualche passo nella stanza in penombra. Prestò un orecchio distratto a un agente, forse Woods, che nella stanza attigua stava raccogliendo una denuncia. Colse le domande di rito: quando, quanti erano, cos’hanno portato via…
Poiché nessuno faceva caso a lui, andò alla ricerca del bricco dell’acqua e lo mise a scaldare, poi si sistemò di nuovo accanto alla stufa e prese a riflettere su tutta la faccenda.
Sette anni prima, un tale di nome Malcolm O’Hanigan era morto in circostanze misteriose. Gli agenti che avevano preso parte al suo arresto stavano a loro volta morendo uno dopo l’altro, apparentemente a causa di terribili incidenti. Prima di ogni decesso, compariva presso il posto di Polizia una vecchia signora vestita a lutto, che chiedeva dell’agente che sarebbe morto e poi scompariva, letteralmente senza lasciare tracce.
C’era di che farsi venire il mal di testa. Chi era la signora? E come faceva a sapere chi sarebbe morto, se quelli che accadevano erano incidenti, e quindi, in quanto tali, per definizione imprevedibili?
Emise un sospiro sconsolato. Per quanto sir Robert Peel si fosse industriato a rendere scientifico il mestiere del poliziotto, ogni agente aveva ben chiaro che nel servizio c’era anche un aspetto irrazionale, che nulla aveva a che vedere con scienza o statistica. Non si trattava del celebre istinto da poliziotto, era piuttosto una messe di fatti inspiegabili, leggende e superstizioni che venivano tramandati perlopiù a bassa voce, con allusioni o giri di parole, nelle lunghe notti di servizio.
Il sergente Kelsey in persona, poliziotto anziano con anni di esperienza alle spalle, giurava sulla testa dei suoi figli che una volta il cadaverino di un bimbo ucciso aveva riaperto gli occhi, l’aveva fissato e gli aveva rivelato chi era stato a strangolarlo, poi era tornato a un gelido rigor mortis.
Tra gli agenti che pattugliavano le rive del Tamigi era diffusa la convinzione che nelle notti di luna piena una bestia scivolasse fuori dai sotterranei che si trovavano sotto i vecchi docks e si aggirasse per i vicoli intorno al fiume, cosa che veniva invocata per spiegare l’aumento dei ritrovamenti di cadaveri in quei periodi.
Un agente di nome Marsh sosteneva di averla anche vista. “Da qui a lì, com’è vero Dio!” raccontava, normalmente a beneficio delle giovani reclute, “era grossa come un pony, puzzava come una fogna e aveva in bocca un braccio umano!”
Kirkpatrick, un irlandese in forza al distretto di St. James, aveva un’autentica collezione di simili fenomeni, dalle voci degli appestati che si lamentavano sotto Haymarket – appestati morti nel seicento – ai ratti posseduti dal demonio che si gettavano da soli nel fuoco e bruciavano vivi.
Il rumore dell’acqua che bolliva distolse il giovane agente dagli episodi soprannaturali. Preparò la teiera, aggiungendo foglie anche per i ragazzi del turno di notte, vi versò l’acqua calda e attese.
Nel frattempo il pensiero corse di nuovo alla vecchia signora. Chissà, forse era davvero la Morte, che veniva ad annunciare la sua decisione di portarsi via questo o quell’agente.
Pensò che indubbiamente sarebbe stata un’ottima storia per spaventare le reclute – le altre reclute – ma che la presenza dell’anziana doveva per forza avere una spiegazione logica.
Fece mente locale: degli otto agenti che avevano partecipato all’arresto, quattro erano già morti. In forza al distretto di Whitechapel rimanevano Wyndham e Campbell, mentre degli altri due, tali Taggart e Adamson, non aveva mai sentito parlare.
Raccolse la teiera e raggiunse i colleghi.
“Ah, ma sei qui!” lo accolse Woods. “Credevo che fossi smontato due ore fa.”
“Veramente mi sono addormentato,” confessò il giovane.
“Uhm,” commentò l’altro, alzando con fare teatrale le sopracciglia. “Addormentato in servizio? Male. Malissimo. Vi perdono unicamente perché avete portato del tè caldo, agente MacLeod, ma che non si ripeta più.”
Recuperò una tazza da un cassetto della scrivania e gliela tese affinché fosse riempita. “Ci voleva,” sospirò poi, stringendola fra le mani. A voce più alta chiamò: “Gordon, vieni qui. Il ragazzo ha portato del tè.”
Si udirono lo scricchiolio di una sedia e lo scorrere del cassetto dello schedario, poi anche l’agente Lynch si avvicinò con una tazza in mano. “Ah, bello caldo come piace a me,” apprezzò notando la teiera fumante.
MacLeod sogguardò i due e per un attimo ebbe quasi la tentazione di chiedere loro che fine avessero fatto Taggart e Adamson: il clima era disteso, la situazione tranquilla. Sembrava il momento ideale.
Rinunciò al proposito. Chiunque, compreso Campbell, col quale era sempre stato più in confidenza, cambiava faccia al solo nominare la faccenda di O’Hanigan, e al posto di sorrisi e battute, comparivano facce scure e risposte sgarbate, peraltro di nessuna utilità per la faccenda, giacché il più delle volte erano solo insulti diretti a lui.
Riempì di nuovo la propria tazza e annunciò: “Beh, penso proprio che dopo questa me ne tornerò a casa.”
“Perché? Non vuoi restare qui con noi?” gli chiese Lynch.
“Ti facciamo scrivere le deposizioni dei cittadini,” intervenne Woods.
MacLeod scosse la testa. “Grazie, ma sono di turno anche domani notte, vorrei cercare di dormire un po’.”
“Non è quello che hai fatto fino ad ora?”
“E dai,” disse Lynch, “lascia stare il giovanotto. Altrimenti poi non ci porta più il tè.”
“Già, hai ragione,” considerò l’altro. Poi, rivolto a MacLeod: “Va’ pure a letto, ragazzo. Sogni d’oro.”
Il giovane raccolse la teiera ormai vuota, quindi tornò nella stanza attigua. Si chiuse la porta alle spalle con cura, accese una lampada ed entrò nell’archivio. Andò agli schedari che contenevano le note personali degli agenti, poi rimase a fissarli esitante. Quella era una violazione grave. Fino a quel momento non aveva fatto nulla di diverso da ciò che qualsiasi altro poliziotto avrebbe potuto fare per indagare su un caso. Andare a mettere le mani nel fascicolo personale di colleghi, invece, peraltro senza alcun permesso, non era decisamente un’azione consentita. Non senza motivi gravi.
Aprì il primo cassetto.


Alla fine delle sue ricerche scoprì che sei anni e mezzo prima, ovvero circa sei mesi dopo la faccenda di O’Hanigan, Alfred Taggart aveva chiesto il congedo e aveva cambiato lavoro. La faccenda era piuttosto strana, perché le sue note caratteristiche e il suo stato di servizio erano impeccabili, il che significava che di sicuro sarebbe stato candidato a una fulgida carriera nella Polizia. Però, a quanto pareva, se n’era andato in fretta e furia, adducendo come motivazione solo questioni personali.
Nel fascicolo trovò un indirizzo, lasciato per eventuali comunicazioni. Se lo annotò ripromettendosi di andare a fare due chiacchiere con l’ex collega il prima possibile.
Clifford Adamson gli riservò qualche sorpresa in più.
A quanto pareva, l’agente era impazzito. In un rapporto risalente a circa tre mesi dopo la faccenda di O’Hanigan, lesse che Adamson aveva avuto un accesso di mania furiosa che aveva richiesto l’intervento di otto colleghi per essere contenuto. Nel corso di tale episodio, egli aveva più volte ripetuto che una donna, da lui definita Papessa Nera, parlava dentro la sua testa. Nessuno era riuscito a dare un senso alle farneticazioni del disgraziato, che una volta ridotto con fatica all’impotenza era stato immediatamente trasportato al Bethlehem Royal Hospital.
MacLeod rimase perplesso: anche Adamson era un agente scelto. Mai un problema, mai un richiamo. Invidiabili nervi saldi.
Ed era finito pazzo al Bedlam.
Se era ancora là, ovviamente. Poiché non poteva chiedere ai colleghi, decise che sarebbe andato a controllare di persona il giorno dopo.
Sistemò tutto, uscì dall’archivio e si richiuse con cura la porta alle spalle. “Beh, io penso che ora me ne tornerò a casa,” annunciò a voce alta, a beneficio dei colleghi nell’altra stanza.
“Sogni d’oro, piccino!” gli giunse la risposta di Lynch, alla quale fece seguito la risata di Woods.


§


Gli infermieri che lo accolsero erano due: un tanghero mal rasato e corpulento e un piccoletto con la faccia da faina.
“Venite per lo spettacolo?” s’informò il primo.
MacLeod aggrottò le sopracciglia. “Che spettacolo?”
“I pazzi,” rispose l’altro, col tono di chi sta parlando del tempo. “Comincia fra dieci minuti. Posso farvi un buon prezzo, se volete.” Tirò fuori una tabacchiera di latta, ne trasse una presa di tabacco da fiuto, se la pose sul dorso della mano e la inalò. Fatto questo lo fissò come se non stesse aspettando altro che il suo assenso.
“Non vedete che sono un poliziotto in uniforme?” gli fece notare invece l’agente.
Per nulla impressionato, l’altro replicò: “Vengono qui nobildonne e ministri, se è per questo.” La tabacchiera tornò nella tasca. “Allora, questo spettacolo?”
“Insomma, basta. Sono qui per parlare con un medico.”
Intervenne a questo punto il piccoletto: “Lascia, Bob.”
L’altro, che vedeva sfumare il guadagno, lo guardò storto. “Cosa?”
“Bob, guarda le mostrine: è di Whitechapel.”
“Ah.” Il tanghero annuì come se l’informazione spiegasse tutto. Tornò a rivolgersi all’agente: “Allora voi lo spettacolo lo vedete gratis tutti i giorni, nevvero?”
“Fatemi parlare con un dottore,” ripeté MacLeod per tutta risposta.
“Sì sì. Venite con me,” brontolò l’uomo. “Sta attento al pubblico,” raccomandò al collega prima di allontanarsi.
“Certo, Bob.”
I due si inoltrarono nelle profondità dell’istituto. Man mano che si allontanavano dalla zona di degenza, le grida dei furiosi si facevano sempre più fioche, e l’unico rumore che si udiva, a parte i passi, era il tintinnio del mazzo di chiavi che Bob portava in cintura.
“Perché siete qui, se non vi interessa lo spettacolo?” chiese di punto in bianco l’infermiere.
“Mi servono informazioni.”
“Su cosa?”
MacLeod si voltò verso di lui e lo squadrò con espressione severa. “Dite un po’, non vedete che sono un agente in servizio?” chiese per la seconda volta.
Al solito poco impressionato, l’altro alzò le spalle. “Sì, lo vedo. Ma sapete, il vecchio Bob lavora qui da più tempo di qualsiasi dottore, e sa tutto di tutti.”
Per quanto ancora di poca esperienza, il giovane agente capì che l’adozione della terza persona preludeva probabilmente a proposte di trattative commerciali. “E il vecchio Bob cosa vorrebbe per le sue informazioni?” chiese, rimpiangendo che non ci fosse con lui qualcuno come Campbell o Woods, che si sarebbe cucinato quell’insolente secondino di alienati come un pollo allo spiedo.
“Il tabacco da fiuto che ho qui è di cattiva qualità, mi fa venire la tosse.”
“Ah, capisco. Ne vorreste di migliore, giusto?”
“Come siete perspicace. Si vede proprio che siete un investigatore.”
MacLeod si frugò in tasca e ne estrasse di che comprare un buon tabacco. Porse la cifra all’infermiere. “Ecco qui. E ora le informazioni, per favore.”
L’altro contò i soldi, annuì soddisfatto e disse: “Ma certo, signor poliziotto. Venite con me.”
Si spostarono in una stanza che poteva essere un gabinetto di consultazione, con una scrivania, un lettino e alcune sedie. Lungo una delle pareti si trovavano armadietti dalle ante in vetro, con dentro strumenti medici.
Bob si accomodò alla scrivania e fece cenno all’agente di prendere posto su una sedia. “Ditemi pure,” lo incoraggiò, assumendo il tono del dottore che raccoglie i sintomi del paziente.
“Sto cercando un mio ex collega,” esordì MacLeod, “che è stato portato qui quasi sette anni fa dopo aver avuto un accesso di mania furiosa in servizio.”
L’altro annuì. “Ah, certo. Lo sbirro.” Captò lo sguardo torvo dell’agente e si corresse: “Il poliziotto. Volevo dire il poliziotto, naturalmente. Adamson.”
“Proprio lui. È ancora qui?”
“Certo,” fu la risposta, proferita col tono dell’ovvietà.
“Come si comporta?”
“È tranquillo. Dice solo che una donna gli parla nella testa, ma per il resto non crea problemi.”
“Vorrei parlargli.”
L’infermiere si appoggiò all’indietro sullo schienale come se avesse ricevuto la più strana delle richieste. “Parlargli, dite?” chiese dopo un po’, grattandosi perplesso la testa.
“Precisamente.”
“Però non volete vedere lo spettacolo, giusto?”
“No, non voglio vederlo.”
“Questo è curioso, sapete? Rifiutate di vedere gli alienati, cosa che rappresenta uno spettacolo istruttivo e divertente, ma pretendete di parlare a tu per tu con uno di essi. Io sono confuso.”
Il poliziotto si protese verso di lui. “Ascoltatemi bene, Bob,” parlava lentamente, scandendo le parole. “Io non voglio vedere lo spettacolo, non mi interessa l’alienazione mentale. Ho solo bisogno di parlare con il signor Clifford Adamson per un’indagine. È chiaro?”
L’altro lasciò passare qualche secondo, infine rispose: “Ah. Certo. Potevate dirmelo subito, comunque.”


Il parlatorio ricordava quello della prigione di Newgate: una stanza dalle pareti imbiancate a calce, il pavimento di mattonelle grigie e un tavolo al centro, con due sedie, una da una parte e una dall’altra.
Da un lato della stanza accedevano i visitatori, dall’altro i ricoverati, che una volta seduti venivano assicurati con una catena a un anello che si trovava sul pavimento, per evitare che facessero del male a qualcuno se venivano presi da un accesso di mania furiosa durante il colloquio.
MacLeod era già seduto a uno dei due lati del tavolo quando udì lo scatto metallico di una serratura, e subito dopo il cigolio di una porta. Alzò gli occhi e vide che due infermieri stavano accompagnando verso di lui un uomo alto e magro, con una zazzera scomposta di capelli bianchi e il mento ispido. Gli occhi erano due biglie inquiete che si spostavano in continuazione. Si posarono anche su di lui, indugiando sulla sua uniforme, soprattutto sulle mostrine.
L’uomo non disse nulla, ma ebbe un’esitazione, tanto che i due infermieri dovettero spingerlo avanti.
“Buon giorno, signor Adamson,” lo salutò MacLeod con fare incoraggiante.
L’altro non rispose. Si sedette sulla sedia e si lasciò incatenare all’anello del pavimento senza opporre resistenza, poi continuò a fissarlo con espressione tesa.
L’agente si rivolse agli infermieri: “Potreste lasciarci soli, per favore?”
Uno dei due tentennò. “Ma veramente...”
“Sono un poliziotto,” disse il giovane.
“Lo vedo, signore, ma non è consentito dal regolamento… sapete com’è...”
MacLeod era una recluta, ma era perspicace. “Andate a bere una pinta,” disse, mettendo qualche moneta in mano all’infermiere, “voi e il vostro collega. Quando tornerete indietro, io avrò già finito e potrete riportare il signor Adamson in corsia.”
“Molto bene, signore, faremo come dite. Una mezz’oretta può bastare?”
“Sì.”
“Molto bene signore. A dopo.”
I due uscirono chiudendosi con cura la porta alle spalle.
Una volta che lui e Adamson furono soli, MacLeod ripeté: “Buon giorno, signore.”
L’altro fece un cenno con la testa.
“Mi chiamo Alistair MacLeod,” proseguì il giovane agente, “e sono qui per un’indagine.”
L’uomo non rispose.
“Hayes, Jackson, Pierce e Banks sono morti,” lo informò allora il poliziotto, “Se questo vi dice qualcosa.”
L’altro rimase impassibile. Passarono lunghi secondi, infine con voce incolore disse: “Lo so.”
“Come lo sapete?”
“La Papessa Nera me l’ha detto. È tanto che me lo ripete: sette anni, e poi comincerà la vendetta. Ora il momento è arrivato.”
I due si fissarono negli occhi. MacLeod fece fatica a sostenere lo sguardo dell’altro, spalancato su abissi di follia senza nome. “In nome di Dio,” gli disse alla fine, “Almeno voi volete raccontarmi finalmente quello che è successo? Nessuno in Centrale ne vuole parlare.”
Adamson annuì grave, ma non rispose.
“Per favore,” insisté il giovane poliziotto.
L’altro rimase immobile, lo sguardo assorto nella contemplazione di qualcosa che probabilmente solo lui vedeva.
Passò in quel modo quasi un minuto, mentre in sottofondo di sentivano sferragliare lontano di catenacci e un fioco echeggiare urla.
Infine, con voce assente, Adamson cominciò a raccontare: “Malcolm O’Hanigan era il peggior criminale di Whitechapel. Era una persona malvagia, corrotta, che provava piacere nell’infliggere sofferenze alle creature inermi. Una delle cose che faceva più spesso era raccogliere orfani per la strada, portarseli a casa facendo loro credere che li avrebbe nutriti e avrebbe offerto loro rifugio, e poi torturarli fino alla morte. Non immaginate quello che faceva alle donne, soprattutto se giovani e belle. È ancora in giro Beth Senza Faccia?”
“Quella poveretta che vende i fiori vicino alla chiesa del Sacro Cuore?”
“Non era senza faccia, una volta. Anzi, era bella come un angelo, tutti erano innamorati di lei. O’Hanigan le ha tirato addosso dell’acido.”
“Ma perché?”
Adamson alzò le spalle. “Per divertimento, perché non sapeva cosa fare. Per il gusto di rovinare qualcosa di bello.”
“Capisco.”
L’uomo scosse la testa. “No, non potete capire. O’Hanigan rubava, compiva rapine, taglieggiava. Voi non immaginate quanti piccoli negozianti abbia ridotto sul lastrico. Sembrava che lo facesse apposta, per il gusto di rovinare delle famiglie.”
“Ma perché un delinquente del genere non era in prigione?” non poté fare a meno di chiedere MacLeod.
“Sua madre,” rispose l’altro.
“Cosa?”
“Non era O’Hanigan il più cattivo della famiglia. Sua madre era una zingara irlandese e una strega. Si faceva chiamare la Papessa Nera. Per quanto fosse ormai invalida e costretta a letto, tutti ne avevano il terrore, e per paura delle sue ritorsioni, sopportavano le malefatte del figlio senza denunciarlo. Anche molti poliziotti la temevano, motivo per cui spesso facevano finta di non vedere, quando si imbattevano in Malcolm O’Hanigan intento a combinarne una delle sue.”
“Ma che cosa poteva fare questa Papessa Nera di così terribile?”
Adamson lo fissò negli occhi, quindi con l’aria di dire qualcosa di ovvio spiegò: “Entra nei sogni, ti parla nella testa, fa succedere incidenti.”
“Che cosa?”
“Avete capito benissimo. A me parla tutte le notti, nei sogni. È stata lei a farmi impazzire.”
L’agente rinunciò a tirare in ballo la razionalità: ormai si erano addentrati in un territorio che era decisamente molto lontano da essa. “Perché a voi?” si limitò a chiedere.
“Perché sono stato io a spingere tutti gli altri a fare quello che abbiamo fatto.”
“Ovvero?”
L’uomo sospirò, si passò una mano fra i capelli scarmigliati. Il suo sguardo si spostò di nuovo verso un punto all’infinito, tanto che il più giovane si sentì in dovere di chiedergli: “Va tutto bene, signor Adamson?”
L’altro ebbe un sorriso amaro. “No, nulla va bene.” Poi, dopo una pausa, riprese: “A un certo punto, eravamo tutti stufi di tollerare che O’Hanigan facesse il bello e il cattivo tempo, e così io proposi di arrestarlo e di fare in modo che gli capitasse un incidente, per così dire.”
“Cioè volevate ucciderlo?”
“Proprio così.”
“Senza processo, senza niente?”
“Giustizia.”
MacLeod scosse la testa con veemenza. “Oh, no. Questa non è giustizia. È assassinio.”
Per nulla toccato da quella manifestazione di sdegno, l’altro rispose: “Se voi aveste veduto come riduceva quei poveri orfani, non parlereste certo di assassinio.”
“Andate avanti,” disse soltanto l’altro.
“Lo arrestammo. Avreste dovuto sentire come strepitava: non riusciva a crederci. Ci minacciava, tirava in ballo sua madre, ma noi avevamo deciso che non ci saremmo lasciati piegare. Non quella volta.”
“E poi?”
“Lo abbiamo ammazzato. A calci e pugni, per fargli provare un po’ di quello che si divertiva a infliggere alle sue vittime. All’ora del lupo, il corpo è finito nel Tamigi, con un peso legato al collo.”
Il giovane agente deglutì. Lo sguardo del suo interlocutore era diventato talmente feroce che fu tentato di farsi indietro. “E la madre?” chiese semplicemente.
“Ci siamo occupati anche di lei. Ci ha pensato Wyndham, con un cuscino in faccia.” Emise un sospiro, lo sguardo lentamente si spense. “Ma ovviamente uccidere il corpo della strega non è servito a nulla,” concluse sconsolato.
“Che intendete dire?”
“È ancora viva. Mi parla nella testa, mi promette vendetta. E io so che arriverà, prima o poi. Non c’è modo di fermarla.”
MacLeod avrebbe voluto chiedergli altro, ma in quel momento il chiavistello della porta alle sue spalle scattò e l’infermiere si affacciò dicendo: “Tempo scaduto, agente.”










[1] Fondatore della moderna Polizia Britannica.





   
 
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