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Autore: Sesquiplebe    23/10/2017    0 recensioni
{Prima fic a capitoli dopo secoli che non ne scrivevo una, spero che possa piacere e che non finisca cancellata per mano mia come le precedenti-}
La Repubblica che visse per pochi mesi.
"[...]C'è una differenza tra l'essere soldati e l'essere guerrieri: i primi obbediscono agli ordini di un generale senza obiettare, i secondi obbediscono ai valori, ai propri ideali, nonostante ciò comporti l'infrangere regole e ordini stabiliti."
{Personaggi: Feliciano Veneziano Vargas (Nord Italia, ooc), Lucia Costantina Vargas (Oc!Centro Italia/Italia Centrale), Lovino Romano Vargas (Sud Italia), Antonio Fernandez Carriedo (Spagna), Roderich Eldestein (Austria), Francis Bonnefoy (Francia), Feliks Łukasiewicz (Polonia), altri Oc}
ATTENZIONE:
Ci saranno Oc, alcuni creati per necessità, quindi chiedo venia se possono sembrare non proprio decenti. Comunque farò ricerche e tenterò di renderli più coerenti possibili alla nazione/città che rappresentano.
Genere: Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Francia/Francis Bonnefoy, Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L'oscurità della notte lentamente inghiottiva Roma e le sue strade avvolgendola in un leggero velo scuro, adatto a nascondere gli uomini in fuga dalla sventura. Nessuna persona osava uscire in quell'ora, solo i disperati, gli ubriaconi e i fuggitivi mettevano i piedi fuori dalle loro dimore tentando di fuggire da una dura realtà.
Giunta sera inoltrata, nel più grande silenzio, le porte della Basilica di San Pietro si spalancarono sorprendentemente producendo un fastidioso rumore cigolante che risuonò tra le colonne, lungo la via della sua salvezza. Indossava una semplice toga da prete, sporca e logora, così da confondersi con la folla inferocita. Tra le mani teneva stretto un crocifisso accarezzandone le perle argentate e pronunciando le ultime preghiere del rosario, quasi fosse il martire della storia. Accompagnato da due figure anch'esse travestite, camminò attraverso l'imponente colonnato a testa bassa, in caso in cui qualcuno passasse e disgraziatamente lo riconoscesse. Lì, alla fine del percorso, una lussuosa carrozza papale -identificabile dalle due chiavi incrociate di san Paolo oro e argento incoronate dal triregno ai lati- aspettava l'arrivo dell'ospite pronto per partire. I suoi accompagnatori aprirono la portiera aiutando, in maniera molto delicata, a far salire il viaggiatore all'interno del mezzo, il quale si sedette accanto un'ombra incappucciata. Quest'ultimo alzò gli occhi verso l'altro affinché si accertasse fosse il passeggero desiderato, dopo di che, appena questo si appoggiò al sedile, tornò a fissarsi le mani congiunte.
«Siete sicuro, Vostra Eccellenza?» domandò una voce maschile.
«Certamente, non ci sono altre soluzioni.» rispose deciso.
Dalla parte opposta due signori, un conte e una contessina, guardarono pietosi il soggetto preso in causa come se la situazione stesse davvero a cuore.
«Non vorrei essere irrispettosa e invadente, Sua Eccellenza Pio IX, ma ciò non porterà ad accentuare la furia della plebe?» Fu la donna a prendere la parola, assumendo un tono basso e sottomesso.
«Non si preoccupi, figliuola, ogni cosa verrà risolta a suo tempo.»
Nessuno proferì altro verbo, rimasero in silenzio per tutta la durata del viaggio, fatte eccezioni per alcuni discorsi futili e privi di importanza persino da essere raccontati.

Sui vespri del 25 Novembre il papa raggiunse sano e salvo Gaeta, accolto calorosamente nella fortezza della città da Ferdinando II. Un paio di guardie del corpo, fidati del re, scortarono il gruppo sceso dentro l'immenso edificio fortificato. Il castello dalla vista tipicamente medievale a causa della sua semplice estetica, si ergeva sopra un altopiano affacciato sul mare e circondato da altissime mura impenetrabili. Era talmente grande che pareva un infinito labirinto una volta varcato l'ingresso, se si escludevano le massicce torri attorno le difese e all'entrata, tutte coperte da cupole rosso aranciato. Poi un'altra, più alta, si innalzava dal centro della complessa struttura dominando l'intero paesaggio. Probabilmente si trattava di una vedetta, infondo rimaneva pur sempre una roccaforte nonostante ora fungesse da rifugio.
«Benvenuto Sua Eccellenza e benvenuto anche ai suoi compagni! Per me è un onore ospitarvi.» salutò Ferdinando quando intravide i quattro avvicinarsi a lui. Una volta abbastanza vicini si inchinò in segno di rispetto facendo cenno al ragazzo alla sua destra di compiere la stessa azione. Questo obbedì svogliatamente e, in un certo senso, contrariato, chinandosi di poco e levandosi in fretta.
«No signore, è mio l'onore di dimorare nella vostra casa. Vi ringrazio per l'ospitalità.» concluse, affrettandosi ad entrare. Di seguito il regnante si curò di porgere i saluti anche ai due nobili venuti.
«Conte Spaur! Sono felice di trovare pure lei qui. E vedo che avete portato vostra moglie.» la contessa sorrise timidamente, lasciando fosse il marito a parlare.
«Il piacere è tutto nostro! Pure io sono felice di vedere voi e il vostro adorato ragazzo.»
Sopraggiunse per quarto il personaggio misterioso, apparentemente sconosciuto sia a Ferdinando sia alla sua nazione poiché portava il viso chino e protetto da un cappuccio.
«Scusatemi, voi chi siete?»
In risposta, posò le dita sulla stoffa scadente e la calò rivelando la sua oscura identità.
«Oh mio Dio, perdonatemi Stato Pontificio.» si scusò, a prima vista dispiaciuto.
«Non importa, l'intento era quello. Mi sarei preoccupato se voi mi aveste riconosciuto, ciò significava che non sono stato capace di nascondermi bene. Noto con molto piacere che Lovino si trova con voi.» una piega soddisfatta apparve sul suo volto, portando lo sguardo a quello del Regno delle Due Sicilie.
«Io invece prego per una vostra immediata e improvvisa partenza da qui.» ribatté acidamente all'occhiata di sfida del chierico, tornando non curante del suo atto irrispettoso nel palazzo inseguito dal suo superiore affinché gli dia una giusta lezione per la sua mancata educazione. Pietro ignorò completamente il suo pseudo insulto, anzi, gli fece capire quale fosse l'effettivo stato del giovane: sull'orlo di una ribellione. Questa strana nuova ondata di libertà e indipendenza aveva infettato l'anima dei tre fratelli italiani riducendoli ad una condizione di totale pazzia, posseduti da chissà quale demonio. Necessitavano di cure, loro. Buone cure spirituali. Si riscosse dalle proprie riflessioni, riunendosi al resto nella sala da pranzo.

«Come ti è venuto in mente Lovino.» la tonalità ferma e gelida della frase lasciò intuire quanto il sovrano fosse stato infastidito, forse perfino più dell'insultato, dall'atteggiamento ribelle assunto durante il quel dannato rituale di accoglienza. Appoggiò mollemente la schiena alla porta della camera del disubbidiente sbarrandogli qualsivoglia possibilità di uscire, mentre piantava le sue orbite feroci in quelle fiere dell'italiano.
«Non osate darmi del fottuto tu, non sono il vostro schiavetto personale.» replicò Lovino furioso di fianco al letto a baldacchino, opponendosi al suo indiscusso sovrano. Il Borbone sospirò, incrociando le braccia e raddrizzando la posizione.
«Modera il linguaggio, ragazzino. Sono il tuo re e mi devi rispetto.» calcò appositamente la parola conclusiva irritando il giovane che, però, represse i suoi sentimenti istintivi: per quanto gli costava ammetterlo, quello era pur sempre il suo superiore.
«Arriverà un cazzo di giorno in cui tutto questo finirà.» L'altro si preparò a controbattere, tuttavia il bussare insistente e sgradevole di una domestica lo distrasse dalla formulazione di una giusta replica. Emise un lamento seccato sollevando la testa e successivamente spostandosi sbrigativo , girando il pomolo d'oro, si sporse all'uscio.
«Gli ospiti richiedono la vostra presenza, signore.» avvisò l'anziana in modo grezzo sparendo subito dopo non chiedendo nemmeno scusa per aver interrotto il loro discorso. A volte pensava che qualche nuova inserviente giovenciella beneducata non guastava affatto. Si volse, infine, in direzione del rimproverato, ancora lì immobile.
«Andiamo.»

Il salone superlativo dedicato ai pasti era totalmente spoglio, in armonia con l'aspetto spartano della rocca: nessun affresco, niente quadri di pittori celebri, né statue eleganti agli angoli, solo uno sconfinato bianco sporco. Dal soffitto scendevano tendaggi alternati rosso ed oro su cui era ricamato lo stemma della casata reale, unico ornamento in tutto il perimetro. Pio IX rimase pressoché schifato, troppo abituato alla vita sfarzosa papale. Ciononostante si accontentò, non importava il luogo se gli avesse salvato l'esistenza da una morte dolorosa.
La servitù, su ordine di Ferdinando, apparecchiò la tavola servendo di già i primi piatti affinché possano iniziare a mangiare anche in assenza del padrone di casa. Si accomodarono ai lati opposti intanto che il re e la sua nazione giungevano -domandando perdono per il ritardo- collocandosi l'uno al capo tavola e l'altro alla destra.
Le prelibatezze ricche proposte avevano rigorosamente seguito, come si soleva a Napoli, il libro “La cucina teorico pratica” di Ippolito Cavalcanti e furono cucinate da cuochi francesi o comunque eruditi in Francia -così assicurò il Borbone-. Durante la cena, degna di essere chiamata tale, cominciò a nascere un simposio proprio tra le ultime portate e il dolce, espandendosi, diventando sempre più vivo al termine. Molte discussioni esaminavano argomenti poveri o superflui -tra cui la loro giornata tipica e filosofie sul cibo-, dal valore talmente scarso da non necessitare alcun racconto.
«Al Nord gli austriaci hanno avuto da fare in questo anno, non credete?» tirò fuori Pio IX riflettendo sui recenti avvenimenti accaduti nell'Italia settentrionale e su questa vampata rivoluzionaria tremenda.
«Tra le cinque giornate di Milano, le ribellioni di Venezia e il Regno di Sardegna l'Austria pare averne di problemi.» continuò Ferdinando, in accordo col papa.
«Feliciano si sta dimostrando audace e coraggioso, non lo credevo capace di ciò.» Stato della Chiesa si soffermò sull'innaturale comportamento del ragazzo preso in considerazione, alludendo debolmente sia a Lucia che a Romano.
«E questo non è ancora il meglio di noi. Voi bastardi la pagherete.» recepito il messaggio velato l'italiano reagì subito attaccando sfrontatamente.
«Davvero? A quali moti siamo, i secondi o i terzi?»
«Ti frega? L'importante è non mollare mai.»
«Ma vi stancherete e, come sempre, tornerete alla vostra noiosa vita da falliti.»
«Sta' zitto, bugiardo!» la frase stizzì il siciliano. Si alzò all'improvviso non avendo resistito ad un altro insulto a lui e ai suoi fratelli, non avendo resistito alla fiamma ribelle infuocata nel suo petto, ardente di un desiderio vendicativo troppo violento. Sollevò il dito, mirandolo su Pietro.
«Tu, sarai il primo a morire tra tutti!»
Detto ciò diede le spalle agli altri se ne andò suscitando ira in Ferdinando sul punto di seguirlo e dargli la giusta punizione, però Pietro, rizzandosi in piedi, mise la mano davanti a lui arrestando la sua camminata.
«Ci penso io.»

Il ribelle sgattaiolò via da quella prigione superando, correndo più velocemente possibile, le difese invalicabili e rintanandosi fuori da lì, fuori dal dannato inferno in cui lo avevano scaraventato.
Non sopportava più tutto questo, lui.
Questa sensazione di oppressione e impotenza.
La sua evasione improvvisata lo guidò all'esterno della cinta muraria occidentale spuntando sul promontorio di Gaeta, dove si fermò. L'immenso paesaggio marittimo davanti a sé catturò il suo cuore invitandolo a tuffarsi in quella interminata vasta distesa blu notte, la cui innaturale calma si contrapponeva alla tempesta incontrollabile dentro se stesso. Osservò attentamente il fine ondeggiare delle piccole onde mosse da una docile brezza, la luna lontana riverberata sullo specchio d'acqua la cui splendida luce illuminava parte dei tetri abissi, le stelle, fiaccole celestiali, condottiere di uomini persi attraverso le tenebre, fare strada alla propria anima perduta nella via buia, e il meraviglioso cielo, l'oceano degli oceani, stendersi addormentato lungo il letto maestoso sotto di esso. La visione così toccante gli impedì di muoversi in altri posti incarcerandolo in una cella nella quale volentieri ci si sarebbe trattenuto. Si adagiò seduto sul verde prato ammirando lo scenario stupefatto, sollevato, d'un tratto nessun male parve più crucciargli. Perfino dei dolori, delle pene infernali, della sua guerra contro tutti, s'era dimenticato.
Perché, chiese infine.
Perché, la libertà appariva tanto distante alla sua vista.
Benché sapesse, che la risposta non sarebbe mai giunta.
E mentre lui si smarriva in quel paradiso una persona, oscurata dalla notte, sedette al fianco suo rimirando il panorama proteso di fronte ai suoi occhi. Ci vollero minuti interi affinché ricominciasse ad aprir bocca, intrappolato anch'egli nella vastità della scena.
«Sai, c'è stato un tempo in cui credevo davvero nella felicità e nella libertà raggiunta per mezzo di Dio. Poi ho visto ciò che è capace di fare il demonio.»
Il ragazzo ancora non parlò, troppo impegnato a godersi il momento, in seguito si degnò a proseguire la chiacchierata.
«Io ho visto uomini venir divorati dal potere, e teste di cazzo incapaci di gestirlo. Non venitemi a dire che voi sapete cos'è il male ed io no.»
«Non era questo che intendevo, Lovino. Dico che io e te non siamo poi così diversi.»
«Sarà, però siete voi ad averci mollato nella lotta.»
Pietro sospirò profondamente, riconobbe il fatto a cui si riferiva.
«Ho dovuto farlo, ho dovuto.»
«Questo non giustifica la vostra fuga.»
«Ad essere sincero, il mio vero problema, è che non sono mai stato bravo in guerra, e non mi piace.»
«Nemmeno io e i miei fratelli siamo portati, e non ci piace, eppure siamo a qui a farci in sei.» replicò più furioso Lovino.
«No, non è vero. Voi siete nati per combattere. Non per fare guerra, certamente, non siete macchine per uccidere. C'è una differenza tra l'essere soldati e l'essere guerrieri: i primi obbediscono agli ordini di un generale senza obiettare, i secondi obbediscono ai valori, ai propri ideali, nonostante ciò comporti l'infrangere regole e ordini stabiliti. Io non sono né l'uno né l'altro, rappresento solo il politico che manda i suoi soldatini ad ammazzare. A causa di questi veri motivi, vi ho mollato nel mezzo della battaglia. A causa di questi motivi, voi sapete combattere ed io no.»
Il siciliano restò muto. Non trovava le giuste parole da formulare e non comprendeva questo suo atteggiamento: se fosse davvero sincero o stesse solamente recitando una parte, come tutti. Si alzò da terra rivolgendogli lo sguardo, azione mai compiuta fino a quel momento.

«Vado nelle mie stanze, si congela qui. Venite con me?»
Pietro, allora, imitò i suoi movimenti e ritornarono nella grande rocca.
«Lo sai, vero? Se venissi attaccato sarai costretto a difendermi.»
«Si vedrà.»
Concluso il dibattito, entrambi si diressero nelle rispettive camere, incerti sul domani.

  
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