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Autore: creeptica    23/10/2017    0 recensioni
In un futuro dove la tecnologia ha preso il sopravvento sull'uomo ed il potere lo ha omologato rendendolo schiavo della monotonia, egli si trova rinchiuso in un ambiente che non gli appartiene, sottomettendosi a ciò che la propria volontà cerca di ribellare inutilmente. La ribellione è una reazione che in pochi conoscono e questi pochi sono allontanati dalla società perché ritenuti pericolosi per l'ordinario che dirige la società del futuro. Cosa succede se però questa piccola rivolta si trasforma in un viaggio che porterà alla scoperta di verità mai svelate?
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1: Poison Souls.
Fissava le grigie e spoglie mura e lo sguardo rimaneva immobile su quella macchia, l’unico elemento che si differenziava nella fredda cella, mentre la mente girovagava per luoghi in cui le sbarre non potevano impedirle la libertà. Ogni minimo dettaglio assimilato fino a quel momento le passava per la mente ma non era altro che una ripetizione incessante di una esasperata monotonia che superava la sua stessa pazzia.

Tra quelle immagini, la sua mente ne riproduceva una in particolare,  ricordava che erano passati due anni e dodici giorni dall’avvenimento ma non ricordava quanto tempo avesse trascorso in quella stanza, in quelle ristrette pareti. Ma d’altronde cos’è il tempo quando le accecanti luci artificiali accompagnano ogni tuo passo o movimento? Il tempo si è estinto, il tempo ormai è un mito legato al passato, legato a coloro che non potevano permettersi queste tecnologie. Il sole gli è compagno, è una leggenda anche lui, non lo si sente più sulla pelle o tanto meno gli uomini ora ne vedono il suo splendore, ne è rimasta solo qualche nozione o qualche sensazione provata da altri, che si apprende dagli astratti ologrammi.

Non sapeva se ripudiava più quelle mura, quella società, quella falsa gentilezza fotocopiata su ogni individuo o quello che addirittura le era ancora sconosciuto.

Sentiva di essere diversa dagli altri, lo sapeva benissimo, ma la diversità era un ostacolo per il futuro, per l’evoluzione o meglio, per ciò che le autorità volessero che il progresso fosse. Ecco perché era lì, imprigionata nella sua stessa mente.

Quella tuta grigia che le arrivava fino al collo, stretta dai tondi bottoni che proseguivano fino alla fine della vita, non le faceva altro che ricordare quanto ormai nessuno spiccasse, erano tutti uguali, nessuno voleva il cambiamento. I suoi stessi indumenti le opprimevano il corpo, la testa, i pensieri e la stringevano a respingere ciò che realmente sapeva di essere. Quel grigio sbiadito della sua uniforme non era altro che la rappresentazione del macabro che nascondeva tutto il sistema.

Le facevano credere di essere anormale, di essere nata con una mente malata che aveva sviluppato solo teorie anomale per demolire ciò che stranamente non le piaceva: era una paziente di pazzi e finti psicologhi che miravano solo a distruggere ciò che era diverso e ciò che ostacolava il loro apparente compiacimento. Inesperti uomini che avevano giocato a credersi i creatori del mondo ed ora erano pronti ad essere orgogliosi di proclamarsi gli architetti del futuro e programmatori di nuovi sogni e innovative realtà. Più si avvicinava il tanto elogiato progresso e più imminente era la scomparsa della stessa ed autodistruttiva umanità.

Piccoli aggeggi luminosi prima ostentavano la bellezza inesistente della vita allora condotta, condividendola con persone del quale anche nome era sconosciuto ed ora la bellezza la si può trovare solo nell’aprire gli occhi il mattino e sperare un giorno di riuscire a respirare quella natura da tanto ignorata ed ormai distrutta come l’animo di chi era destinato ad ammirarla.

Keira non si arrendeva, la sua capigliatura inusuale ne era solo una piccola dimostrazione del percorso che aveva affrontato per la libertà che a tutti era sempre stata negata, ma era consapevole di non essere l’eroina o colei che avrebbe dovuto salvare la sua gente da questa vuota esistenza, non lo desiderava neanche, sognava di scoprire ciò che impedivano a tutti di conoscere.
Libertà? Cosa ne può sapere una giovane ragazza rinchiusa dalla nascita e da generazioni in una enorme struttura in cui niente aveva i colori, i sapori, gli odori e in cui le idee non esistevano. Gli Xodòmyc, così chiamavano le enormi strutture che proteggevano l’intera umanità dalla vita e dai grandi pericoli che potevo nuocere alla loro monotonia

Era proprio questa sorta di stato di incoscienza che desiderava spezzare, era stanca e sapeva che il mondo stava aspettando solo lei.
Le rimaneva pensare, riflettere, con il solo scopo di non sottomettersi.
Ogni tanto la sua testa ciondolava, ogni tanto la bocca si incurvava in un sorriso compiaciuto, ogni tanto i suoi pugni sbattevano al muro ed ogni tanto Keira piangeva rabbiosa.

Ai suoi occhi appariva tutto così tremendamente grigio, un grigio che bisognava contrastare, un grigio capace di farla impazzire. Nulla si distingueva in quella cella e niente riusciva a farle esternare tutte quelle sensazioni che desiderava tanto assaporare.

Così rideva, piangeva, stringeva le lunghe unghie sul palmo della mano fino a vedere il rosso accecante del sangue scorrerle sull’intera mano. Lo osservava per ore sorridendo, senza mai stancarsi di quella scena.

La sua mente, nonostante tutto, riusciva sempre a ripudiare l’omologazione ed a distruggerla con ogni sinistra forma di creatività che quel poco che aveva attorno le suscitava. La stanchezza non era un ostacolo per lei, la superava creando scene che bramava di vivere, mentre dondolava ripetutamente su se stessa, tenendo rigidamente strette le ginocchia al petto.

Passava così le sue giornate, esternandosi sempre dalla realtà che altri avevano imposto di proporle, fin quando non cadeva in un totale oscuro sogno, nel quale la sua immaginazione non poteva raggiungerla, ma veniva abbattuta dal totale nulla.
L’anticonformismo era un difetto nella società, difetto che si era quasi totalmente eliminato con ogni tipo di metodo funzionante ma quello di Keira persisteva e tutte le strategie e torture provate fino ad ora su di lei si dimostravano un fallimento.
Lo stridulo rumore del codice inserito per sbloccare la cella la distolse però dai suoi pensieri, il flash blu, che indicava l’apertura della porta, le fece strizzare gli occhi ed una volta riaperti vide le ombre delle guardie, che come da routine, si avvicinavano con le grosse siringhe e le pasticche da ingerire.

Senza nessuna contestazione o opposizione, Keira sollevò lo sguardo e seduta dal suo piccolo angolo li squadrò dall’alto al basso.

 - Mi stai sfidando, ragazzina? – urlò un grosso uomo, strattonandola e afferrandola violentemente dal braccio per farla alzare dal pavimento.  L’unica replica che ricevette fu il sorrisetto di Keira, che tratteneva una risata, mentre alzando un sopracciglio scuoteva la testa.

La burbera e possente figura le strinse ancora il braccio, le afferrò subito dopo il secondo, la voltò con una rapida spinta di schiena, e spostando la presa sui gracili polsi riuscì astringerli entrambi con un’unica mano. La fece avanzare davanti alla branda, buttandole calci sulle caviglie, per poi applicarle una pressione sulle spalle tale da farla ricadere su di essa.

Keira cercava di mantenere la calma, di rimanere in silenzio, non era quello il momento per dimostrare loro che non aveva paura, è sempre meglio che il nemico sottovaluti il suo futuro avversario, pensava.

La guardia che le stava accanto si avvicinò con un ghigno sul viso, si riusciva ad intravedere a pieno la sua felicità nell’avere un minimo di potere in quel vuoto sistema, un ridicolo omuncolo guidato come una marionetta. Le afferrò gli spettinati capelli dalla nuca e tirandoli le sollevò il viso per permettere la visione al più esile dei tre, che impugnava la siringa dalla quale iniziava a sgocciolare il liquido azzurrino. Le accarezzò la pallida guancia. Keira deglutì e chiudendo gli occhi tratteneva ogni possibile espressione di disgusto e ribrezzo che poteva suscitare quel gelido guanto sul suo viso.

- La nostra fanciulla sta resistendo più del previsto. – affermò, rivolgendosi alle massicce figure.

Le si avvicinò ulteriormente al visto, spostò il dito dalla guancia alla bocca e ne scrutò l’interno sollevando le labbra. Continuò ad esaminarle il volto e sempre con lo stesso dito andò tirare verso il basso la pelle sottostante all’occhio per individuare ogni possibile cambiamento.

Il tutto avveniva con la totale indifferenza della ragazza, che cercava di non concentrarsi sulle strette prese delle guardie, sui polsi doloranti o sulla ripugnante faccia di colui che affermava essere il suo medico.
- Non ci dici nulla, Keira? Stai perdendo la tua vivacità? – continuava a dire l’uomo col camice  con l’intento di provocarla.

Il silenzio dominava per tutta la cella, interrotto solo dalle risatine dei due violenti villani alle battute provocatorie, fin quando uno di questi rispose – L’ha persa quando le hanno impedito di fare la sgualdrina in giro! –
Nessuna reazione rispose a quell’offensivo termine, le risatine degli uomini continuavano mentre la totale apatia e non curanza di Keira li urtava profondamente.

L’altro aggiunse – Forse se le diamo quel che desidera la apre la bocc… -
- Taci, bigotto. Per quanto questa giovane sia un fallimento non siamo qui per deriderla, o almeno, non ora. Dobbiamo seguire il programma, abbiamo anche molto altro da fare e perdere tempo significherebbe disobbedire a coloro che vogliono solo il nostro bene. Avrà tutto il tempo per pensare allo squallore che rappresenta nel nostro perfetto mondo. – aggiunse il dottore prima che l’altro finisse di completare la frase.

I due si ammutolirono, abbassarono la testa e osservavano il vecchio conficcare la siringa sul collo della ragazza. 

- Buonanotte, Keira. Il tuo ultimo giorno si avvicina sempre più. – queste parole echeggiarono nella mente della ragazza, abbandonata sul letto. I suoi occhi pian piano si serrarono autonomamente, l’udito percepiva a malapena i passi che si dirigevano verso l’uscita, fin quando i suoi sensi si annullarono completamente e sprofondò in un sonno del quale non riuscirà a ricordare neanche le conseguenze.
Entrò un ulteriore gruppo di uomini nella cella durante il totale stato di incoscienza di Keira, capitanato da una donna dal lungo camice che le si fermava al polpaccio, la quale dettava tutte le istruzioni per portare a conseguimento gli esami quotidiani.
Adagiarono il corpo sulla barella, trasportarono quest’ultima dinanzi un’ampia sala: ogni angolo era riempito da un macchinario diverso, dei quali, al primo sguardo, era incomprensibile comprenderne il reale uso; una serie di bisturi, lame e coltelli di ogni ampiezza e lunghezza era adagiata su un panno bianco, sfregiato da diversi buchi; un grande lampadario circolare, nascondeva una luce eccessivamente abbagliante che illuminava tutta la stanza, facendo anche notare quelle macchie sbiadite di sangue sulla serie di guanti e camici usati. Al centro della stanza completamente bianca campeggiava un gigantesco lettino, dal quale penzolavano delle grosse cinghie e su questo fu posto il corpo di Keira.
L’intenzione della dottoressa era l’avere il permesso di eseguire una completa lobotomia che andasse ad esaminare ed a curare i difetti che per lei la sua paziente presentava, ogni giorno predisponeva ogni strumento sul piccolo banco vicino al lettino, al fine di conseguire quel successo che sentiva di meritare.
- Il soggetto è troppo interessante per essere sottoposto così velocemente ad un omicidio mentale, se così possiamo definirlo. – sostenevano i suoi superiori.
Così, prese il bisturi e stufa della solita proceduta, iniziò ad incidere rapidamente un prolungato taglio che si estendeva su tutto il braccio, rimosse i tre chip già innescati ma nuovamente frantumati in più pezzi dall’organismo. Estraendoli uno alla volta, ordinò all’assistente di appuntare gli specifici circuiti rotti e le probabili condizioni e motivazioni che avevano portato alla loro distruzione. Il suo uomo più affidato li sigillò accuratamente in delle bustine trasparenti e si diresse personalmente a consegnarli ai laboratori appositi.

Indossò degli specifici occhiali, dalle lenti ampie e scure, ed impugnando un minuscolo laser inserì i nuovi, fondendoli con i muscoli dell’arto. I chip erano più robusti dei precedenti ed anche in quantità maggiore, neanche la dottoressa conosceva il loro reale scopo, si limitava ad eseguire gli ordini come tutti.
Richiuse la ferità tradizionalmente, ricucendola con dei punti, i medicinali rigeneranti non avevano alcun effetto su Keira, come i chip più volte tentati di applicare.  Questo lasciava che il suo corpo fosse disegnato da numerose cicatrice, sparse in ogni parte, perfino sul viso.

Al risveglio Keira si ritrovò nella stessa posizione in cui prima gli uomini l’avevano abbandonata, accasiata sul freddo pavimento, ed ancora stordita, quando aprì gli occhi notò solo una nuova ferita, più grande ed evidente rispetto le altre. La sfiorò delicatamente e sentì il dolore percuoterle tutto il braccio, talmente acuto che le fece scendere una lacrima.

- Non sono debole. Non sono debole. Non sono debole. – continuava a ripetere sussurrando mentre il suo intero corpo tremava.

Aveva il desiderio di urlare, di sfogare tutta la sua ira, di scoprire quello che questi scienziati pazzi si divertivano a fare ma si limitò a deglutire ed a continuare a progettare la sua vendetta, mentre quel sorrisetto sadico le spuntava sul viso.
- Divertitevi pure con i vostri fottuti distintivi e camici…- si lasciò scappare una breve risata e poi riprese a dire tra sé e sé  – sarà poi bello divertirsi quando il vostro sangue sarà sulle mie mani. – borbottò, accentuando quel precedente ghigno.

Quell’espressione soddisfatta sparì completamente quando percepì dei passi, che non miravano ad arrivare alla sua cella ed i suoi occhi si spalancarono quando un urlo femmineo invase i corridoi.

Si avvicinò il braccio ferito alla bocca, afferrò con i denti il filo che congiungeva il taglio e tirando con tutta la forza che aveva in corpo aprì la ferita, dalla quale il sangue si precipitava a scorrere con estrema velocità. Corse vicino la porta. Urlò a squarciagola. Il sangue colava così velocemente da aver superato la porta stessa e si era trapelato sul corridoio, quando la guardia lo vide spalancò l’entrata della cella.

Keira stava per perdere i sensi per l’eccesso di sangue perso, ma prima di svenire, quando sorpassò l’entrata, vide per la prima volta il corridoio che delimitava la prigione e notò una serie di porte accanto alla sua; davanti a lei c’era ora una figura snella e bionda che le si mostrava sfocata, troppo sfocata, e quando i suoi occhi si strizzarono per focalizzarla si fece tutto buio.

La guardia che teneva la bionda bloccata tra le sue braccia, vide il corpo accasciato a terra della ragazza e si rivolse al collega – Muoviti, non possiamo perderla. Sicuro che non abbia visto nulla? –
E l’altro risposte – Sono sicuro, è svenuta prima di uscire dalla sua cella. Penso che questa misera pazza si sia fatta male da sola. Meglio che la porti dalla dottoressa, non avrebbe dovuto svegliarsi ora. Gli altri non lo hanno fatto. –

L’anticonformismo non era un difetto che caratterizzava solo Keira.
   
 
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