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Autore: merty_chan11    23/10/2017    1 recensioni
Parole: 3.924
Oggi è il compleanno di Keith e non potevo assolutamente rimanere a mani vuote! La fanfiction è ambientata prima degli eventi della serie, e ripercorre principalmente tre momenti della vita del ragazzo. Non la considero propriamente una Sheith, ma sappiate solo che ci saranno dei momenti Pre!Kerberos.
Dal testo:
[...]
-Posso darti la mia- propose sollevando la vecchia tazza sbeccata.
-Anche se dovrai accontentarti solamente di metà cioccolata.
Nel frattempo, l’altro si era seduto accanto a lui, la scodella fumante tenuta in una mano.
-Non ho la minima intenzione di barattare mezza cioccolata zuccherata per un’intera cioccolata non zuccherata- puntualizzò Shiro portandosi la bevanda calda alle labbra. Un’espressione a metà tra il disgustato e lo sorpreso si disegnò sul suo volto.
[...]
Sconsigliata la lettura a tutti coloro che non gradiscono particolarmente l'angst!
Spero possa piacervi!
Genere: Angst, Fluff, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kogane Keith, Takashi Shirogane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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I bambini grandi non piangono
 
 



23 ottobre
Il rumore del camion dei traslochi riempiva l’aria, ma Keith era sicuro che non fosse il suono prodotto dal tubo di scappamento quello che ronzava nelle sue orecchie.
Poteva sentire gli occhi che pungevano, le lacrime pronte a riversarsi alla fredda luce del mattino e che a stento riusciva a trattenere.
Non voleva piangere.
Non quel giorno.
“I bambini grandi non piangono” gli aveva rivelato poco tempo prima il direttore dell’orfanotrofio. Non riusciva a togliersi dalla mente quel ricordo, l’espressione quasi disgustata che lo fissava dall’alto verso il basso come se non valesse nulla, i profondi occhi neri che lo squadravano da dietro le spesse lenti degli occhiali.
Keith ora di anni ne aveva compiuti appena sette. Era ormai grande abbastanza, ne era certo con tutto se stesso. 
Allora per quale motivo le lacrime continuavano a tormentarlo, come se fossero l’unica soluzione in grado di dissolvere tutta la sua tristezza? Non aveva ancora trovato una risposta. Probabilmente ne avrebbe scoperto il motivo quando sarebbe stato ancora più grande, si era detto per rassicurarsi e per non pensare al suo ennesimo fallimento.
Nessuno era venuto a salutarlo, quella mattina. 
Nessuno degli insegnanti, nessuno degli altri bambini. 
Non poteva biasimarli. 
Da un lato, Keith sapeva di non essere stato un bambino facilmente gestibile. L’aveva capito dalle occhiatacce che gli adulti riservavano unicamente a lui, mentre la loro bocca si tingeva di variopinte lodi per i suoi compagni. 
L’aveva notato dalla strana tensione che aleggiava in una qualsiasi stanza si trovasse con gli altri bambini, dai mormorii che si diffondevano da bocca a bocca. 
Sapeva di non essere benvoluto in quel luogo. Eppure una parte di lui voleva attaccarsi disperatamente a quella speranza, al fatto che lui contasse un minimo per tutti loro, anche se solo per poco tempo. Solo per potersi sentire accettato, almeno una volta.
Keith non era sordo ai commenti che vi erano sul suo conto.
“Quel bambino è troppo difficile” era diventata la frase preferita di chiunque.
Troppo difficile, troppo arrabbiato, troppo solo. 
Mai un complimento, mai una parola gentile. Mai una frase di conforto, nessuna di incoraggiamento. 
Per Keith c’erano solamente dardi scoccati che lo uccidevano lentamente giorno dopo giorno.
Si voltò verso l’orfanotrofio un’ultima volta, lo sguardo assente perso oltre la facciata di un blu ormai scolorito dell’enorme edificio.
Strinse la sua piccola borsa al petto, sperando, da un lato, che qualcuno uscisse fuori per venire a prenderlo, per dirgli “resta.” Ma niente di tutto questo accadde.
Nessun saluto, nessun “buona fortuna.” Nessun “tanti auguri a te” per lui.
Non ci sarebbe stata alcuna festa di compleanno, per il bambino più difficile di tutto l’orfanotrofio.
Una figura lo scortò delicatamente verso i sedili del camion, guidandolo verso un futuro che ancora faticava a immaginare.
“Non ci sarà nessuna festa di compleanno per te! Tutti ti odiano!” gli aveva urlato contro uno dei bambini più grandi, una settimana prima. “L’unica festa che faremo sarà quando te ne sarai andato!”
Poteva quasi sentirli, dentro la grande casa, cantare e ridere e ballare senza di lui.
Keith ora ne era certo. Non era lo scoppiettare del tubo di scappamento quello che sentiva nelle sue orecchie. No, era un rumore più tagliente, più acuto, più doloroso. 
Era lo spezzarsi del suo cuore a quell’ennesimo rifiuto.
Non appena il camion imboccò l’uscita del viale, Keith scoppiò a piangere.
 
 
22 ottobre
Keith era seduto accovacciato sul vecchio divano del piccolo cottage, la tazza scottante di cioccolata  in una mano e una calda coperta poggiata sulle sue spalle.
Gli piaceva tanto, quel luogo. 
Gli piaceva la calma che riusciva ad infondergli lo stare in mezzo al nulla, l’osservare il cielo stellato in compagnia dei soffusi rumori del deserto.
Un tonfo sordo seguito da un’imprecazione attirò la sua attenzione, facendolo voltare di scatto. Shiro era in piedi davanti alla porta d’ingresso, il contenitore dello zucchero disastrosamente rovesciato sul pavimento della terrazza.
Si voltò e vide Keith, e come in tutte le occasioni in cui i loro sguardi si incrociavano, sorrise.
-Penso che dovrò bere la mia cioccolata senza zucchero- constatò con una piccola punta di delusione nella voce. L’altro curvò le labbra verso l’alto, in un gesto spontaneo.
Sapeva quanto Shiro detestasse le bevande senza zucchero, e questo gli faceva tenerezza.
-Posso darti la mia- propose sollevando la vecchia tazza sbeccata.
-Anche se dovrai accontentarti solamente di metà cioccolata.
Nel frattempo, l’altro si era seduto accanto a lui, la scodella fumante tenuta in una mano.
-Non ho la minima intenzione di barattare mezza cioccolata zuccherata per un’intera cioccolata non zuccherata- puntualizzò Shiro portandosi la bevanda calda alle labbra. Un’espressione a metà tra il disgustato e lo sorpreso si disegnò sul suo volto. 
Deglutì in fretta e rumorosamente, strizzando gli occhi come se il contenuto della tazza non fosse cioccolata ma una qualche disgustosa medicina che era costretto ad ingerire velocemente.
Keith scoppiò a ridere e prese a sorseggiare la sua porzione.
-Come vuole lei, signore.
Shiro appoggiò la sua tazza sul pavimento, il viso tramutatosi in una maschera afflitta.
Keith si strinse nella coperta, portando le ginocchia più vicine al petto. Poteva percepire il calore del corpo di Shiro vicino al suo, il tepore della sua pelle in contrasto con il freddo del deserto.
-Oggi sono stato tradito ben due volte nel giro di due minuti- rimarcò la parola due come se fosse la parte più importante di quella conversazione. 
-Dalla zuccheriera e dalla cioccolata. Pensi che l’universo stia cercando di dirmi qualcosa?- 
Keith non riuscì a trattenere la sua risata. 
Con Shiro era tutto più semplice. Non provava più una piccola punta d’invidia nel vedere gli altri così a proprio agio con le persone. Adesso capiva anche lui cosa volesse significare quando essere spontanei non rappresentava un problema.
-Non penso che il karma esista, Shiro- rispose piano, mentre la mano dell’altro lo attirava sé. Keith poggiò la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi.
-Lo so. A volte dimentico che non sei superstizioso.
La voce di Shiro era calma e rassicurante, e alle sue orecchie arrivò quasi come una strana melodia.
Gli sarebbe mancato, tutto questo. Avrebbe sentito la mancanza dei loro interi fine settimana passati nel deserto, della cioccolata e del gelato notturni, dell’osservare le stelle insieme sotto la stessa coperta fino a quando uno dei due non crollava, esausto.
La missione di Kerberos sarebbe iniziata tra un mese esatto, eppure a Keith sembrava sempre che il tempo non fosse mai abbastanza, che mancasse solo un giorno al momento in cui avrebbe dovuto rinunciare a ciò.
Rimasero in silenzio, lo sguardo rivolto il cielo. 
Croce del Sud.
Centauro.
Compasso.
Keith passò in rassegna tutti i nomi delle stelle e delle costellazioni che Shiro gli aveva insegnato durante tutti quei mesi, seguendo diligentemente le linee immaginarie che i puntini luminosi disegnavano nel cielo.
Chissà come ci si sentiva, a stare così in alto. 
Non si rese conto di essere rimasto improvvisamente solo. Shiro si era alzato qualche minuto prima, lasciandolo in balia dell’immenso cosmo.
Era strano, quasi bizzarro, il modo in cui non staccare gli occhi dal cielo lo facesse stare bene. Era come se l’intero firmamento lo chiamasse ogni volta che alzasse lo sguardo, e gli tendesse una mano in attesa che lui la stringesse per essere portato lontano, via dalla Terra. Era quasi come gli stesse sussurrando “tu appartieni alle stelle.” 
Ma Keith sapeva fossero solo stupide, inutili fantasie.
-Scusa il ritardo- la voce di Shiro era ancora tranquilla, uno dei pochi suoni stabili nella sua vita.
Keith si voltò nuovamente verso di lui, rimanendo vagamente sorpreso da ciò che l’altro stava tenendo in mano. I nastri colorati del pacchetto regalo primeggiavano sul colore più scuro utilizzato per l’incarto principale. Non appena Shiro fu più vicino, i suoi occhi guizzarono curiosi sui motivi della carta, scoprendo numerosi piccoli pianeti dorati disegnati sopra uno sfondo blu scuro. Keith rimase abbastanza incerto sul da farsi, non riuscendo a capire perché Shiro avesse portato un regalo nel bel mezzo del deserto. Poi, la consapevolezza di quel gesto lo colpì come una ventata d’aria gelida.
“Oh.”
-Come facevi a…- il suo tono era tremante, incerto e sorpreso, i grandi occhi viola sbarrati in un’unica espressione interrogatoria. 
“Come facevi a sapere che oggi è il mio compleanno?”
Erano partiti quella stessa mattina, o meglio, la scorsa mattina, con il calendario che segnava il 22 ottobre. Doveva ormai essere mezzanotte inoltrata e lui non se n’era neppure reso conto. 
Shiro ridacchiò e gli fece l’occhiolino.
-In quanto uno degli ufficiali più prestigiosi dell’intera accademia diciamo che ho accesso ad alcune informazioni…riservate.
Si sedette di nuovo accanto a lui, lo sguardo illuminato da una sincera contentezza.
-Buon compleanno, Keith.
Shiro tese il pacchetto in avanti, aspettando che l’altro lo prendesse in mano.
Keith rimase immobile, totalmente spiazzato. 
Era abituato al fatto che nessuno si ricordasse del suo compleanno. C’erano sempre degli avvenimenti più importanti, in quella data. 
L’anniversario dell’uscita di una nuova canzone, la morte di un personaggio famoso. 
Un nuovo trasloco, una nuova famiglia.
Nessuno aveva mai avuto il tempo o l’intenzione di festeggiare il suo compleanno, di fargli gli auguri, di consegnargli addirittura un regalo. 
Nessuno, prima di Shiro. 
Shiro che ora era lì, davanti a lui, il suo pacchetto in mano ed un’espressione radiosa in volto. Shiro che era sempre occupato per questioni lavorative ma che aveva trovato il tempo per stare con lui, per comprargli il regalo, perché ci teneva, perché gli voleva bene. Ed era questo che le persone facevano quando si volevano bene.
Shiro che, nonostante i preparativi per la missione su Kerberos, stava festeggiando il suo compleanno come se non vi fosse ricorrenza più importante al mondo.
Keith prese il pacchetto tra le mani con un certo riguardo, temendo che potesse infrangersi da un momento all’altro.
Tolse i nastri colorati con delicatezza, facendo attenzione a non strapparli. Non voleva lacerare la carta come se nulla fosse, non dopo che Shiro aveva impiegato chissà quanto tempo per incartare. Anche quello era parte del suo regalo, l’impegno e l’accortezza che aveva utilizzato per impacchettarlo.
Tolse lentamente il nastro adesivo per poter aprire la scatola, buttando gli scarti sul legno della terrazza. Poteva sentire lo sguardo di Shiro su di sé, il calore del suo sorriso che lo accompagnava in quel gesto che avrebbe dovuto essere abituale. Ma per lui non era così. 
Era strano ricevere un regalo, era strano essere parte dell’attenzione di qualcuno fino a quel punto. Non aveva mai ricevuto, durante la sua breve vita, un privilegio simile.
Keith aprì la scatola per trovarvi dentro una giacca rossa, una di quelle utilizzate dai motociclisti per guidare i loro veicoli. I suoi occhi brillavano sotto la luce delle stelle, ammirando quel capo che stringeva tra le mani. 
Dopo un po’ si accorse che era lo stesso identico modello che aveva intravisto una sera, mentre erano in città, e che aveva guardato dalla vetrina con sguardo sognante.
Deglutì tentando di cacciare indietro le lacrime. Era solo un gesto, uno stupido e piccolo gesto che per chiunque non avrebbe significato nulla, ma per lui fu abbastanza. Non poteva credere che Shiro si fosse davvero ricordato di questo per lui.
Le maniche dell’indumento erano lunghe, forse perfino troppo per la sua piccola corporatura, ma non disse nulla. Era talmente felice da non riuscire a trovare le parole giuste per esprimersi.
-Ti piace?- la voce di Shiro interruppe il suo momento di ammirazione, il tono speranzoso di colui che non sa assolutamente che tipo di verdetto riceverà.
Keith prese a gesticolare con una mano, alla ricerca di una risposta.
-Ecco, è…è…- ma le parole non arrivarono, perché nessuna sarebbe stata in grado di esternare ciò che provava, di far comprendere a Shiro quanto gli piacesse.
-Ho capito, ho capito.
L’ufficiale ridacchiò, il sorriso ancora dipinto sul volto.
Keith fu grato per questo. Fu grato per il fatto che l’altro non lo tormentasse con stupide domande ma accettasse senza problemi anche ciò che non era in grado di pronunciare.
Era uno dei tanti tratti di Shiro che gli erano sempre piaciuti. Lui non forzava nessuno.  Sapeva ascoltare con tutto il suo essere e sapeva per certo cosa gli altri volessero comunicare anche senza l’uso delle parole.
Il contenuto della scatola non era ancora terminato. 
Keith prese tra le sue mani un piccolo cofanetto, mentre un verso strozzato uscì fuori dal suo corpo non appena vide l’oggetto luccicare.
-Non posso accettarlo- esclamò tutto d’un fiato, il cuore che batteva all’impazzata.
-E perché no?- chiese Shiro divertito.
Keith guardò prima il cofanetto, poi lui, poi nuovamente il cofanetto.
“Perchè queste sono le chiavi della tua fottutissima moto hover, moto che hai pagato con un intero stipendio, moto che ora stai dando a me e che io non posso accettare perché è un regalo troppo grande, dannazione!”
-Perchè è la tua moto, Shiro- rispose invece, gli occhi fissi sulle chiavi del veicolo. Ora capiva il perché della giacca. Non l’aveva comprata perché potesse usarla come un normalissimo indumento. No, Shiro l’aveva comprata perché la potesse indossare mentre guidava la moto. 
La sua moto.
L’ufficiale scrollò le spalle senza perdere il sorriso.
-Avevo già intenzione di regalartela per il tuo diciassettesimo compleanno quando decisi di comprarla- il suo tono era sincero e gentile -Non è mai stata mia, Keith, al contrario: è sempre appartenuta a te.
Il silenzio scese tra i due, interrotto solamente dai suoni del deserto.
Keith non seppe cosa rispondere. 
Di nuovo, non riusciva a trovare le parole giuste per esprimere quanto tutto questo significasse per lui. Si sentiva un ingrato, un egoista, e un completo idiota. Non era nemmeno in grado pronunciare un misero “grazie.” Eppure non sembrava quello il vocabolo perfetto, quello da usare in quell’occasione, lettere assemblate meccanicamente che ognuno avrebbe potuto dire.
Qualcos’altro dentro la scatola attirò la sua attenzione. Pensava fosse semplicemente il fondo del pacco, ma in realtà si rivelò essere la busta di una lettera con scritte sopra, in una calligrafia elegante, poche e semplici parole.
“A Keith, per i suoi 18 anni.”
Il ragazzo inarcò le sopracciglia, non riuscendo a comprendere appieno il senso dietro a quella busta. Si voltò verso Shiro che ora appariva stanco e triste.
-Probabilmente non sarò presente per il tuo prossimo compleanno- iniziò, le parole che sembravano uscire con fatica dalle sue labbra. Keith le soppesò una ad una, non lasciandosi sfuggire la nota di delusione nella voce dell’altro.
-Non so quanto tempo ci vorrà per la conclusione della missione. Forse un anno, un anno e mezzo. Forse addirittura quasi due anni.
Shiro sembrava enormemente dispiaciuto, come se la colpa della sua futura assenza fosse interamente sua. Come se lui avesse deciso di proposito di non essere lì per i suoi diciotto anni. 
Keith deglutì nuovamente mentre il familiare dolore pungente delle lacrime tornava a tormentarlo. Non voleva scoppiare a piangere in quel momento, non davanti a Shiro. Avrebbe semplicemente peggiorato la situazione, avrebbe aumentato la delusione dell’altro e non voleva rovinare quella serata tanto perfetta.
-Vorrei che aprissi quella lettera il giorno del tuo compleanno- un piccolo sorriso si increspò sulle sue labbra -Quando tornerò, andremo insieme in città e ti comprerò un vero regalo. E farai bene a rimanere a stomaco vuoto perché ho intenzione di spendere tutto il mio stipendio in torte alla fragola da dividere insieme!
Regalo.
Torte.
Sorrisi.
Fu troppo da sopportare.
Keith si precipitò tra le braccia dell’altro, la testa nascosta sulla sua spalla mentre lacrime e singhiozzi scuotevano tutto il suo corpo.
Sentì le braccia di Shiro stringerlo a sé con dolcezza, mentre una mano passava lentamente tra le sue ciocche corvine.
Tutto era finito rovinosamente in terra, dalla coperta alla tazza ormai vuota, dalla sua nuova giacca alle chiavi della moto. Solo la lettera rimaneva stretta nel suo pugno, un piccolo tesoro che avrebbe dovuto custodire avidamente per un anno prima di scoprirne il contenuto.
Le lacrime non cessavano di scorrere sulle sue guance, delle piccole gocce di pioggia che andavano a depositarsi sul maglione dell’altro.
“I bambini grandi non piangono” gli avevano detto, una volta. Ma Keith non era un bambino grande. Era un moccioso, un ragazzino solo che non era abituato a ricevere la gentilezza degli altri, le loro attenzioni, il loro amore.
-Shiro, io…- le parole erano interrotte dai singhiozzi, così forti che facevano male. Keith sentiva la sua gola bruciare per le troppe lacrime.
-Va tutto bene.
Shiro poggiò le labbra sulla sua fronte per un piccolo bacio, mentre le sue braccia continuavano a sorreggerlo e a cullarlo per calmarlo.
-Ho capito cosa volevi dirmi. Va tutto bene Keith- la sua voce era pacata, tranquilla e rassicurante. Come se niente avrebbe potuto prendere una brutta piega. Come se Shiro non stesse per partire su Kerberos e non stesse per lasciarlo da solo, di nuovo. Quelle parole, quel tono, gli fecero ancora sperare che sarebbe potuto essere felice, almeno per un po’.
Keith finì con l’addormentarsi tra le braccia di Shiro, il sonno che l’aveva colto di sorpresa. Accadeva sempre così quando scoppiava in una crisi di pianto. Le lacrime lo prosciugavano del tutto fino a portarlo allo sfinimento.
Non ricordò con chiarezza cosa accadde quel giorno. Ricordò solo di essersi addormentato e di essersi svegliato tra le braccia di Shiro, sul divano, mentre questo gli accarezzava i capelli e gli sorrideva. Ricordò di aver bevuto cioccolata senza tregua, di aver volato con la moto per ore con il vento che fischiava nelle sue orecchie, vento che lo faceva sentire vivo, reale. 
Keith poté quasi avvertire il suo cuore ricomporsi. Aveva passato un’intera vita da solo, un’intera vita ad allontanare il pensiero di poter trascorrere una giornata simile con qualcuno che lo amava, che ci teneva. Un qualcuno che lo facesse sentire protetto e benvoluto. Eppure ora era tutto reale. Erano reali la sua giacca e la sua moto, era reale la lettera che Shiro gli aveva dato per i suoi diciotto anni. 
Adesso il petto faceva meno male. Le ferite rimanevano, ne era conscio. Non poteva cancellare interi mesi di delusioni in una giornata. Ma quelle poche ore erano bastate a dargli la speranza che quelle non sarebbero state le ultime. 
Avrebbe aspettato Shiro in eterno per poter rivivere un giorno così magico.
Era stato uno dei compleanni migliori della sua vita.
 
 
“Caro Keith,
volevo iniziare col dirti che mi dispiace che tu abbia ricevuto solo questa lettera come regalo per il tuo diciottesimo compleanno. Avresti meritato molto più di un semplice pezzo di carta, molto più di poche parole scarabocchiate su un foglio bianco.
Volevo esserci davvero per te in questo giorno.
So che probabilmente appena leggerai quello che sto per scrivere mi urlerai in faccia. Me lo meriterei, d’altronde.
Come ben puoi immaginare, ho accesso a diverse informazioni riservate su ogni cadetto dell’accademia. Ti prego di perdonarmi se sono andato a controllare la tua scheda, la tua storia. Ero troppo curioso, e mi rendo conto solamente in questo momento di quanto sia stato terribilmente egoista.
Immaginavo che la tua situazione non fosse simile a quella degli altri ragazzi. Eri differente, lo sei sempre stato, ma non come tutti ti hanno descritto.
Tu non sei un ragazzo difficile, Keith. 
Dimentica quello che ti hanno sempre detto, dimentica tutte le etichette che ti hanno affibbiato. Ho visto con i miei occhi di cosa sei capace.
L’ho visto quando sei entrato nel simulatore per la prima volta e hai battuto il mio record senza problemi, come se stessi facendo una passeggiata in riva all’oceano. L’ho visto nell’impegno che metti in qualsiasi cosa tu faccia, l’ho visto nella luminosità nel tuo sguardo quando per la prima volta hai volato con la moto ed era come se ti fossi finalmente sentito a casa, come se ti fossi sentito finalmente sciolto da ogni vincolo.
E l’ho visto anche quando discutevi con i tuoi compagni, quando le accuse ti colpivano ingiustamente ma tu non rispondevi per correttezza. Oppure quando ti infuriavi e davi di matto perché sentivi dentro rabbia, incomprensione.
Non sei un ragazzo difficile Keith. Sei una persona normale, con le proprie emozioni, le proprie insicurezze, le proprie sofferenze che trascini dentro di te da anni.
Mi dispiace che nessuno abbia capito quale sia il tuo vero valore. Non dare la colpa a te stesso per questo. Spesso è difficile andare oltre le apparenze. Spesso non si ha nemmeno la voglia di provarci.
Non vedo l’ora di poter tornare dalla missione su Kerberos e di poterti riabbracciare. Sono sicuro che al mio arrivo ti sarai già diplomato. Andremo in città a festeggiare e a comprare il tuo regalo di compleanno.
Spero che tu possa essere felice, almeno oggi.
E vorrei che non scordassi mai che puoi sempre contare su di me, qualsiasi cosa accada. Sarò sempre il tuo primo sostenitore. 
Buon compleanno Keith.
Tuo,
Takashi”
 
 
Keith aveva iniziato singhiozzare alla sola vista della calligrafia di Shiro, per poi sentire il suo cuore spezzarsi leggendo le ultime righe.
“Sono sicuro che al mio arrivo ti sarai già diplomato.”
Le lacrime scorrevano con prepotenza lungo le sue guance, mentre i raggi del sole facevano capolino dalla sporca finestra del cottage nel deserto.
Keith non era riuscito a chiudere occhio nemmeno quella notte. Troppi pensieri che riempivano la sua mente, troppa curiosità per leggere la lettera che Shiro gli aveva dato esattamente un anno prima.
Pochi mesi fa avrebbe preferito bruciare quella busta, strapparla. Buttarla dove non l’avrebbe mai più rivista.
Ma era una delle poche cose rimaste donategli da Shiro, e non ci era riuscito. Non poteva farlo, non a lui, non all’uomo che aveva sempre creduto nelle sue capacità e che era riuscito ad accettarlo per come si presentava.
“Sarò sempre il tuo primo sostenitore.”
Keith pianse a lungo e da solo nel divano della casa, il sole che splendeva forte come se preannunciasse una bella giornata.
Il suo corpo era scosso da violenti tremiti, i singhiozzi che laceravano perfino la sua anima. Non era mai capitato che una crisi di pianto lo riducesse in quelle condizioni. Sembrava che stesse per infrangersi un mille pezzi a causa del dolore, per quella bruciante sensazione che sentiva nel petto.
“I bambini grandi non piangono.”
Ma i bambini grandi sanno chi sono, sanno qual è il loro posto nel mondo. I bambini grandi hanno qualcuno che li sostiene, che li incoraggia giorno per giorno, hanno un posto in cui tornare e che possono definire casa.
Keith non era un bambino grande.
Keith era un ragazzo solo, senza una famiglia stabile, una dimora fissa. Un ragazzo che pensava di aver trovato un qualcuno che lo amasse, un luogo in cui tornare e sentirsi protetto, accettato. 
Keith era un ragazzo a cui tutto il suo mondo gli è stato tolto in un lampo, senza che avesse tempo di metabolizzare, di sapere come affrontare il dolore.
Keith era solo e piangeva, nel deserto, dove nessuno poteva sentirlo. Dove nessuno poteva aiutarlo. 
Ci sarebbe mai stato qualcun altro che avesse avuto il volere di tendergli una mano, indicargli il suo futuro come Shiro aveva fatto? 
No. 
Non ci sarebbe mai stato.
Perché Shiro era unico, una di quelle persone che nascono una volta ogni cento anni e che muoiono troppo presto, facendo sprofondare ogni cosa nel disordine totale. Faceva male pensare al suo corpo freddo, privo di vita, circondato dal gelo dello spazio.
Keith era un ragazzo la cui sola esistenza gli provoca dolore. Gli toglieva il fiato, l’energia, la sua forza per andare avanti.
Keith non era un bambino grande, e aveva tutto il diritto di scoppiare a piangere.
Perfino il giorno del suo compleanno.










N.d.A.
Innanzittutto, volevo iniziare con il ringraziare con tutti coloro che sono arrivati fin qui e hanno terminato di leggere la fanfiction! Non potete nemmeno immaginare quanto sia infitamente grata per questo^^
Inizialmente avevo delle idee differenti per questa storia. Ci sarebbe dovuto essere stato tutto il team Voltron nella conclusione, e non ci sarebbe dovuta essere la parte su Shiro e Keith Pre!Kerberos. Invece diciamo che tutto è degenerato nell'angst XD
Spero che nonostante ciò la one-shot vi sia piaciuta, ho cercato di impegnarmi il più possibile per concluderla^^
Grazie nuovamente a tutti coloro che leggeranno, decideranno di lasciare una recensione o seomplicemente daranno un'occhiata veloce al tutto!
Buona serata,
Merty
  
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