“Basta,
smettetela! Dov’è?! Dov’è quell’oggetto infernale? Fatelo smettere!”
Nel
silenzio più totale si sentiva sempre lo stesso rumore. Limpido, continuo,
cristallino, un rumore che lo faceva diventare pazzo. Non sapeva di preciso
quando era iniziato, si ricordava solo che le sue mani si erano mosse da sole e
avevano spezzato un collo. Aveva visto la vita che abbandonava quel corpo nel
momento esatto in cui gli occhi si erano girati rivelando il bianco opaco. Aveva
provato uno strano senso di appagamento, ritrovandosi con la patta dei calzoni
rigonfia e quell’oggetto sotto il suo piede, rompendolo in mille pezzi.
“Quanti ne
hai uccisi?”
Una voce
ruppe per un istante quel rumore, una frazione di secondo. Poi di nuovo quello
stesso rumore.
“Smettila!
Smettila o giuro che ti ammazzo!”
Non
ricevette risposta se non quell’incessante rumore, un rumore che scatenava la
sua furia omicida. Era una reazione che nasceva dalle viscere della sua memoria.
Era stato quello stesso ticchettio che aveva sentito ogni volta che il suo
patrigno aveva aperto la porta della sua stanza e aveva abusato di lui, mentre
gli premeva una mano sul collo per non farlo urlare, lasciandolo agonizzante e
col suo seme dentro di lui, a marchiarlo, a sporcarlo.
“Dovresti
rispondermi, se vuoi che smetta.”
“Non lo so
quanti ne ho uccisi!”
Aveva
perso il conto quando si era ritrovato a uccidere la sesta o la settima
vittima, difficile dirlo. Una mattina, a sangue freddo, aveva fatto scorrere un
cappio intorno al collo della ragazza che aveva amato e l’aveva impiccata al
ramo di un albero per nascondere i segni dello strangolamento. Ne aveva
squarciato le vesti mettendo a nudo la sua femminilità. L’aveva ammazzata
perché sapeva che così facendo avrebbe commesso un peccato – un peccato mortale.
“Oh, ma tu
lo sai. Sei destinato a morire, Uriel.”
“Non
potete! Non avete niente contro di me!”
“Allora
perché li hai uccisi? Te lo dico io, il perché. Loro ti ricordavano il tuo
patrigno, non è vero? Te lo ricordi di come abusava di te quasi ogni notte? Te
lo ricordi di come si svuotava dentro di te e di come premeva la mano intorno
alla tua gola quando eiaculava?”
“Tu… Tu
come sai queste cose?”
Il battere
martellante del suo cuore coprì per un istante quel rumore tanto odiato, mentre
la paura si impossessava del suo corpo, lasciandolo immobile e col fiato
sospeso. Solo una persona sapeva di queste cose: il suo patrigno.
“Ciao,
Uriel. Sei pronto a morire?”
La luce
della torcia illuminò per un istante il volto del suo patrigno che teneva con
una mano la torcia e con l’altra un orologio. Il cardine motore della sua paura
e della sua follia omicida.
“Il
prigioniero ha confessato, Mastro Slayer?”
Un breve
cenno del capo e Uriel venne portato via dalla sua prigione, spinto fuori e
legato a due alberi piegati e poi lasciati andare. Quella sarebbe stata la sua
condanna a morte. L’ultima cosa che sentì fu il ticchettio dell’orologio,
mentre le funi venivano recise.