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Autore: avocadodonald    27/10/2017    3 recensioni
“Sei un imbecille”. Le ragioni sarebbero tante.
Non ho mai controllato la mia voglia di pane tostato con burro d’arachidi.
Tanto meno le mie erezioni.
Ho spesso paura dei miei pensieri, è vero. Ci sono attimi in cui io stesso provo vergogna nell’immaginare.
Genere: Erotico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over, Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Scrivo per mantenere il controllo su me stesso.
Scrivo per controllare la mia mano.
Il mio corpo.
Ho sempre avuto difficoltà a fare ciò che la testa comandava. I pensieri gridavano, mentre io li vedevo annegare in un lago.
Non ho mai controllato la mia bocca, la saliva che scendeva in gola o lo sguardo.
Neanche quando ero sposato riuscivo a controllare il mio sguardo.
Né il desiderio di portare un sigaro tra i denti mordendolo fino a sfinirlo. Mangiarne avidamente la nicotina e la sua adrenalina, vuota.
Non ho mai controllato la mia voglia di pane tostato con burro d’arachidi.
Tanto meno le mie erezioni.
Ho spesso paura dei miei pensieri, è vero. Ci sono attimi in cui io stesso provo vergogna nell’immaginare.
Era in quel momento che aprivo la busta del pane prima abbottonarmi la camicia. O accendevo il sigaro mentre mettevo i boxer.
Poi ho iniziato a scrivere, sentendomi un dio nell’aver il controllo della mia mano.
Mentre la mia testa è troppo impegnata a comporre il suo monologo senza morale, la mano impara a starle dietro. Per puro mio gusto.
Scrivo quello che voglio e che non vorrei. Quello che mi fa godere nel rileggerlo. Scrivo solo quello che avrei paura di mostrare, perché mi imbarazza ed eccita da morire.
Amo scrivere perché ho il potere su me stesso.
Ed io amo essere un uomo di potere.
 
Credo di aver appena sognato un boccale di birra ghiacciata. Di quelle con la schiuma che ti riempiono la bocca.
E adesso devo fare pipì.
Apro gli occhi e non vedo nulla. Solo la finestra che ieri ho lasciato aperta.
Il cielo è incolore e insapore. L’aria fredda e tagliente. La sento nei polmoni, e sotto le lenzuola.
Il vuoto rimbomba nella stanza. Solo le lancette che corrono. E mentre penso di farle esplodere, loro corrono. E sono le sei.
“Sei un imbecille”. Le ragioni sarebbero tante.
Prendo il sigaro sul comodino e lo metto in bocca. Lo lascio spento.
Il pavimento è freddo sotto i piedi e la maglia nera che indosso mi copre appena le spalle.
Credo di aver messo su qualche chilo. Forse sarà il burro d’arachidi o l’aver smesso di fumare.
Metto le mani sui fianchi, sfiorandomi i boxer e ripromettendomi di comprare il sotto di un pigiama.
Gli occhi si abituano all’scurità della stanza. Le labbra premono sul sigaro cercando il sapore acido della nicotina.
Mi calmo. Allento la morsa. Rilasso il petto.
Vado verso la finestra sperando che a quell’ora del mattino nessuno mi veda mezzo nudo.
Abito al terzo piano di un palazzo grigio. Credo di amare questo colore. E questo numero.
Vedo la città vuota. La strada sembra così grande. Le macchine immobili e i balconi delle case di fronte perfettamente allineati.
Mi sembra di guardare la vetrina di una gioielleria. Tutto al suo posto.
Solo qualche ora e quel mondo si sveglierà. Sarà un frastuono di vetri rotti e macchine che si scheggiano tra loro. Rumori e odori nauseanti.
Mi accorgo di stare stringendo il sigaro. Respiro e chiudo la finestra.
Metto la camicia della sera prima. Bianca. E mi accorgo di aver perso un bottone.
“Cazzo”. È il bottone al centro del petto.
Adesso non so se chiudere il colletto fino alla fine e far finta di nulla, o lasciare quei due bottoni aperti negando di avere questi dieci anni in più.
Non ricordo più come ero quando ne avevo trentatré. Ricordo solo che a quell’età le camicie le trovavo stirate. Con i bottoni al loro posto.
Mi svegliava il profumo del caffè. E la finestra della stanza era chiusa.
Lo sguardo cade sul mio riflesso allo specchio.
Poi alle dita. Dovrei togliere la fede.
“Imbecille”.
Chiudo tutti  i bottoni. O almeno fin dove ne ho potere, e prendo una lametta.
Sistemo la barba e noto come piano si stia ingrigendo. Anche i capelli.
Mentre penso al mio pane tostato mi taglio la pelle, macchiandomi di sangue il colletto.
Non so perché ho l’innata capacità di sfregiarmi le labbra con una lametta, ma non riesco a tagliare il pane. Fette sempre troppo diverse. Poco simmetriche.
Dovrei cambiare la camicia ma decido che più tardi la butterò e ne comprerò un’altra.
Forse potrei fare semplicemente la lavatrice, ma non sono mai riuscito ad imparare.
Non ne avevo bisogno. Avevo Lei.
E ne avevo bisogno.
Metto i pantaloni grigi e stringo la cintura. Metto il gilet e le scarpe che comprano gli uomini della mia età. Chiudo l’orologio al polso. Mi sta stretto.
Continuo a guardarmi allo specchio.
Sembro un fantasma.
Il viso pallido, gli occhi scuri ed infossati.
Le spalle larghe, con l’addome non più così asciutto.
Mani grandi. Le dita lunghe…e la fede.
Per un attimo provo a immaginarmi senza.
E cosa le donne potrebbero pensare vedendomi fuori quella gabbia rotonda e dorata.
Ho dimenticato cosa significhi avere addosso uno sguardo che ti implori di essere mangiato.
Un seno che muore dal desiderio di sentire la mia pelle sfregarsi a lui, senza essere toccato.
Provare un’emozione è diverso dal viverla.
Ho paura di aver dimenticato come si vive.
La mano passa sul viso, scorre sulle fosse vicino la bocca. Sale sui capelli. Sospiro. Non so di cosa ho voglia. Non lo so ancora. Ma sono stanco di avere questo vuoto perenne. Mi gonfia il sangue d’ aria e non lo sento scorrere. Non riesco più a sentire il latte con la vodka bucarmi  lo stomaco prima di una riunione. Lo sento solo passare.
Il caffè non ha più il suo sapore. Aggiungevo un cucchiaino di zucchero prima. Adesso ne metto due e mezzo. Apprezzando quel piccolo attimo di diversità. Forse per poco. Forse dovrei mettere tre cucchiaini.
Prendo le chiavi della macchina e scendo velocemente i gradini. Il rumore dei passi rimbomba per tutto il palazzo.
Sono le sei e mezza e tutto tace. Tranne le mie scarpe. Sembrano bottiglie che continuano a rompersi.
Andrò al solito bar.
Guardo il mio riflesso su un cofano. "Abbottona ll colletto sporco di sangue, imbecille".  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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