Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: _Pulse_    29/10/2017    2 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Buongiorno e ben ritrovati! Siete arrivati giusto in tempo per il matrimonio del secolo! O forse qualcosa o qualcuno riuscirà a rovinarlo?
La battaglia tra Sherlock e Arsène sta per iniziare... Chi avrà la meglio?
E Geneviève e John faranno da spettatori o avranno altro a cui pensare?
Scoprirete tutto quanto leggendo questo capitolo ;-)
Ringrazio infinitamente le meravigliose anime che commentano sempre e anche i lettori silenziosi.
Buona lettura e mi raccomando: scegliete il team vincente! :D

Vostra,

_Pulse_



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11. Team Arsène VS Team Sherlock


«Non venite a supplicarmi, quando Arsène Lupin vi ruberà tutto!», gridò ancora Sherlock mentre veniva scortato fuori dalla proprietà da un paio di guardie.
John li seguì mesto, col collo stretto tra le spalle, e alcuni paparazzi appostati fuori dal castello li fotografarono. Il dottore sospirò: non ci voleva proprio una pubblicità del genere.
Il cancello in ferro battuto venne chiuso e il detective afferrò le sbarre, infilandoci in mezzo il viso per rivolgersi ancora al padre dello sposo: «State facendo un grosso sbaglio!».
John gli posò una mano sulla spalla. «Sherlock... Andiamo via».
«Ecco cosa succede a chi prova ad essere gentile! Perché dici sempre che dovrei esserlo più spesso?».
«Perché è giusto così. Dai, almeno ci abbiamo provato».
Il consulente investigativo lasciò andare il cancello e diede le spalle al castello, dirigendosi verso il taxi a cui aveva chiesto di aspettarli. In fondo aveva previsto una situazione del genere, ma avrebbe tanto voluto sbagliarsi. Una volta che riuscivano ad arrivare in anticipo!
Sherlock si sporse verso l'autista per dare la loro destinazione: «Alla stazione».
«Torniamo a casa?», domandò allora il dottor Watson.
«Tu vai», lo corresse il detective, con un pugno davanti alla bocca e gli occhi persi fuori dal finestrino, dove non c'era altro che campagna. «Io rimango qui fino a domani. Il signor Devanne mi chiamerà, eccome se lo farà, e io voglio guardarlo in faccia quando ammetterà che avevo ragione».
John scosse il capo, consapevole che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Quindi cambiò argomento: «E Geneviève? Cosa devo fare con lei?».
«Se puoi, rimani con lei al 221B. Altrimenti portala a casa tua».
«Non era questo che intendevo. Pensi... pensi dovrei dirglielo?».
Sherlock ci rifletté per qualche minuto, poi si arrese: «Non lo so, John».
Il dottore tamburellò le dita sulle ginocchia, guardando a sua volta fuori dal finestrino.
Ripensò al modo in cui si era rifiutata di seguirli fino al castello di Thibermesnil: aveva detto che se suo padre l'avesse vista arrivare con loro avrebbe potuto fraintendere e che non voleva che pensasse che avesse gà deciso di unirsi al Team Sherlock. John pensava che forse, quando le avrebbero rivelato che lui e Rosie facevano parte della famiglia, allora non avrebbe più avuto dubbi. O almeno lo sperava. Ma quando dirglielo? E soprattutto, come? John non ne aveva la più pallida idea.
Quando l'aveva vista dopo la confessione di Sherlock aveva fatto la figura dell'ebete, per non dire del pervertito, continuando a fissarla. Non era sua intenzione, ma ora che sapeva che era la nipote di Mary non aveva potuto fare a meno di cercare in lei somiglianze con la moglie.
Per fortuna non era il momento per rivelarglielo, ma temeva che se anche si fosse presentata l'occasione perfetta avrebbe faticato a trovare il coraggio necessario.
Il taxi si fermò alla stazione dei treni da cui li aveva prelevati, ma solo John scese dal mezzo.
Cercò lo sguardo di Sherlock e gli chiese: «Sei proprio sicuro di voler rimanere?».
Il detective annuì con un breve cenno del capo, allora il dottore chiuse la portiera e guardò il taxi prendere la strada verso il paese.

John non era tornato subito al 221B.
Dopo un respiro profondo varcò le porte scorrevoli del London Bridge Hospital e si diresse verso la reception. Sapeva che l'orario di visita era terminato, eppure aveva deciso di fare comunque un tentativo: non poteva ancora rivelare la verità a Geneviève, ma poteva e doveva incontrare la sorella di Mary, prima che fosse troppo tardi.
Fece appena in tempo a ricambiare il sorriso cortese dell'infermiera dietro il bancone quando l'uomo che aveva visto accompagnare la ragazzina fuori dalla sala da té del Savoy gli posò una mano sulla spalla, invitandolo a seguirlo con voce gentile.
Senza dire una parola entrarono nell'ascensore e John unì le mani dietro la schiena, a disagio.
«Pensavo dovesse stare sempre al fianco di Lupin», ruppe il silenzio ad un tratto.
L'uomo non si scompose. In effetti, se non avesse risposto avrebbe dato l'impressione di non aver sentito una parola, come se il dottore non esistesse. Probabilmente per lui non c'erano altri che il suo padrone.
«Io eseguo gli ordini, nient'altro. Mi è stato detto che c'era la possibilità che lei passasse e di rimanere nei paraggi».
Arsène aveva previsto che Sherlock gli avrebbe confessato del loro "legame di parentela" e che lui avrebbe sfruttato la prima occasione disponibile per incontrare tutto ciò che rimaneva della famiglia di sua moglie. Nulla di cui stupirsi.
Finalmente le porte dell'ascensore si aprirono, rivelando loro un lungo corridoio illuminato dalle luci al neon ed immerso nel silenzio. Se non fosse stato per l'inserviente che, poco più avanti, stava lavando il pavimento già immacolato, John e il segretario di Arsène Lupin sarebbero stati completamente soli.
Seguì l'uomo coi baffi davanti ad una delle tante stanze private e il cuore gli si fermò nel petto nello scorgere la donna all'interno: la malattia aveva reso smunta la sua carnagione ed impigrito i suoi occhi verdi, ma la somiglianza con Mary era impressionante.
John deglutì e dopo un cenno dell'uomo al suo fianco bussò piano alla porta, quindi l'aprì ed entrò.
La donna si soffermò a guardarlo con espressione stupita, fino a quando non fece tutti i collegamenti del caso e spense il piccolo televisore appeso nell'angolo della stanza.
«Non pensavo sarebbe venuto», esordì, abbozzando un sorriso triste.
«Se vuole che me ne vada...».
«No. Rimanga, la prego».
John annuì col capo e si sedette sulla sedia accanto al letto. La sorella di Mary gli porse la mano e il dottore, dopo un attimo di esitazione, la strinse.
«È un vero piacere conoscerla, dottor Watson».
«Chiamami John».
Clotilde sorrise nuovamente, portando sul materasso le loro mani intrecciate.
«Allora, John, raccontami di Mary. Voglio sapere tutto».

Una volta sul bordo del marciapiede, John alzò la testa verso le finestre del primo piano e vide le luci accese, perciò ipotizzò che Geneviève fosse ancora sveglia. Entrò e andò subito dalla signora Hudson, a cui aveva affidato le cure di Rosie. La donna però le disse che dopo cena l'aveva presa Geneviève, così che lei potesse farsi una maschera di bellezza.
Il dottore provò una certa ansia mentre saliva le scale e il suo cuore perse un battito quando non vide nessuno né nel salotto né nella cucina. Che fosse come aveva detto Sherlock? Non c'era da fidarsi di una Lupin?
Esaminò il resto dell'appartamento e alla fine, una volta nella stanza di Sherlock, sospirò vedendo Geneviève sdraiata sul letto accanto a Rosie, a cui teneva un braccio intorno alla vita per far sì che non rotolasse giù muovendosi. Entrambe dormivano pacificamente.
John sorrise, quasi commosso da quella visione, e fu più forte di lui: estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scattò una foto. L'avrebbe fatta vedere a Clotilde la prossima volta che si sarebbero visti.
Parlare con lei di Mary era stato facile, quasi terapeutico, e prima di lasciarla riposare le aveva promesso che sarebbe tornato presto, anche con Rosie.
La bambina era troppo piccola perché potesse in futuro ricordarsi della zia, ma era giusto che si conoscessero.
Tornato in salotto raccolse dal pavimento qualche gioco, poi si sedette sul divano e chiuse anche lui gli occhi, addormentandosi all'istante.

***

Se per John i paparazzi fuori dal castello erano stati una seccatura, per Sherlock erano stati una manna dal cielo. Mentre li inondavano con i loro flash, infatti, aveva sentito un paio di loro esclamare: «Beh, se questa notte non dovessimo riuscire a fotografare la sposa almeno avremo le foto di Sherlock Holmes da vendere!».
Era stato facile, a quel punto, dedurre che la sposa sarebbe arrivata al castello quella notte. Miss Nelly Underdown era di Chicago, perciò era stato ancora più facile dedurre che fosse tornata a casa qualche settimana prima delle nozze per stare con la sua famiglia e allontanarsi dalla stampa inglese. Poi era bastata una breve ricerca su Internet per scoprire l'orario in cui sarebbe atterrata, anche perché c'era un solo volo proveniente da Chicago.
Sherlock, dopo aver lasciato John alla stazione, aveva fatto solo finta di andare in paese. Una volta girato l'angolo, infatti, aveva detto all'autista di portarlo subito in aeroporto, dove avrebbe atteso la signorina Underdown.
L'aereo atterrò con qualche minuto di ritardo, ma Sherlock aveva già preso il suo posto da un pezzo.
Individuò immediatamente la vecchia fiamma di Lupin: con la sua figura ben proporzionata e il suo bel volto, circondato da una cascata di lucidi capelli neri, spiccava tra tutti gli altri passeggeri.
La guardò avvicinarsi insieme ai genitori al nastro trasportatore per recuperare i bagagli e sorrise quando lei iniziò a rendersi conto che, giro dopo giro, della sua valigia non c'era traccia. Si stava giusto lamentando con la madre quando Sherlock, nella sua uniforme da addetto della sicurezza, si avvicinò.
«La signorina Underdown?», le domandò.
La ragazza lo fissò confusa coi suoi grandi occhi neri. Ora che la guardava da così vicino, Sherlock non poteva negare la sua bellezza.
«Sì, sono io. C'è qualche problema?».
«Mi pare di capire che non sia riuscita a trovare il suo bagaglio».
«Infatti non c'è».
«Questo perché il nostro personale, quando l'ha recuperato dalla stiva dell'aereo, l'ha trovato con il lucchetto scassinato. Non sappiamo quando o come sia successo, ma per prassi dobbiamo assicurarci che non le manchi nulla. In caso contrario, potrà sporgere denuncia. Se mi vuole seguire...».
La ragazza tranquillizzò i genitori, dicendo che non ci avrebbe messo molto. Quindi seguì Sherlock in uno degli uffici della sicurezza e vide immediatamente la sua valigia sul tavolo al centro della stanza.
«Ma... Non capisco, il lucchetto non è stato scassinato», esclamò, per poi irrigidirsi e voltarsi lentamente verso l'uomo che, una volta tolti cappello e occhiali, riconobbe come Sherlock Holmes, il famoso detective.
«Mi scusi se mi sono permesso di portarla qui con l'inganno, ma non c'era altro modo», le disse.
«Che cosa vuole?».
«Che mi ascolti».
Si avvicinò di un passo e la donna continuò a fissarlo, immobile. A parte lo shock iniziale, mostrava un coraggio e una forza non comuni. Iniziava a capire perché Arsène si fosse innamorato di lei a tal punto da farsi arrestare. E per questo stesso motivo sperava che, grazie al suo aiuto, lasciasse perdere il colpo che aveva in mente.
«Ho ragione di credere che Arsène Lupin si sia aggiunto alla lista degli invitati del suo matrimonio. Penso si trovi già a Thibermesnil, in questo momento. Ha intenzione di derubare Georges Devanne, forse perché è l'occasione perfetta o forse perché nel profondo non sopporta che lei si sia innamorata di un altro uomo dopo di lui».
Nelly strinse i pugni lungo i fianchi, esclamando: «Non conosco alcun Arsène Lupin».
«Non c'è bisogno di fingere con me, non sono un poliziotto», disse Sherlock, con un vago sorriso sulle labbra. «Tutto ciò che voglio è impedire ad Arsène di portare a termine uno dei suoi colpi. E dato che il padre del suo futuro marito mi ha cacciato, mi rivolgo a lei. O forse preferirebbe che il matrimonio andasse a monte?».
«Certo che no», ringhiò, avanzando di un passo. «Che cosa vuole che faccia?».
Sherlock sorrise eccitato. «Coglierlo sul fatto».

***

Alle tre, col castello immerso nelle tenebre e nel silenzio, Arsène entrò nella cappella dove si sarebbero celebrate le nozze.
Un po' piccola per i duecenti invitati, tanto che solo i parenti e gli amici più intimi degli sposi avrebbero avuto l'onore di assistere coi propri occhi all'unione delle famiglie Devanne e Underdown.
Il ladro avrebbe voluto dissacrare quel luogo, scaravoltare le panche e prendere a picconate l'altare, ma si trattenne.
Seguito dai suoi uomini, raggiunse la pietra tombale di uno dei fondatori di Thibermesnil e si mise all'opera.

Seguendo le indicazioni lasciate dal bisnonno di Georges fu facilissimo entrare nel salotto della torre Guillaume. Così facile che quasi non ci provò alcun gusto. Ma se ne dimenticò non appena iniziò ad indicare cosa andava preso e che cosa no. C'erano oggetti troppo grandi o troppo pesanti per essere trasportati lungo il passaggio sotterraneo e con rammarico Arsène ci rinunciava.
I lavori di sgombero non durarono molto, una quarantina di minuti appena. Arsène però si attardò ad osservare le teche nei vani delle finestre, ammaliato da quegli oggetti preziosi, piccoli capolavori di un'arte così delicata. Decise che se ne sarebbe occupato di persona - voleva avere lui l'onore - e dopo essersi infilato i guanti bianchi, con estrema cura raccolse e sistemò nelle valigette gli orologi e i gioielli.
«Capo, noi abbiamo finito», sussurrò uno dei suoi uomini.
«Bene», mormorò Arsène, senza perdere la concentrazione. «Andate. Fate il percorso che abbiamo concordato, ma per precauzione tenete accesa la radio sulla frequenza della polizia, come al solito. Io vi raggiungerò con la moto».
I suoi uomini sparirono dietro l'entrata del passaggio segreto, lasciandola socchiusa perché un filo di luce illuminasse il pavimento di legno, e Lupin rimase solo col suo lavoro di minuzia e pazienza, ma che svolgeva con la passione del migliore degli amanti.
Si fermò di colpo quando sentì il pomello della porta del salotto ruotare lentamente. Chi diavolo poteva essere a quell'ora di notte?
Con passo felpato andò a nascondersi dietro la porta ed attese. Questa si aprì e una figura snella, di donna, entrò cautamente nel salotto. Arsène riconobbe immediatamente il profumo, i suoi lucidi capelli neri, il modo in cui si portò le mani alla bocca quando si accorse degli oggetti mancanti.
«Nelly», sussurrò, non riuscendo a trattenersi.
La ragazza si girò di scatto e lo guardò, al buio. I suoi occhi erano lucidi, velati di lacrime, e il lieve tremore delle sue mani venne nascosto alla bell'e meglio quando strinse i pugni. Anche la sua espressione si fece dura, severa, e Arsène ebbe coscienza di come doveva apparire ai suoi occhi in quel momento, colto sul fatto.
Mai nella sua vita si era sentito così in colpa. Sentì le gambe cedergli, mentre tutta la sua sicurezza evaporava: per la prima volta in vita sua, quell’appellativo che tanto adorava, “Ladro Gentiluomo”, lo disgustò. Come poteva definirsi in quel modo e non provare rimorso di fronte alla donna che aveva amato sulla Providence, a cui aveva pensato nelle lunghe ore trascorse nella sua cella?
Forse Mycroft Holmes aveva ragione: era un criminale come tutti gli altri.
«Nelly, mi dispiace tanto», sussurrò ancora, con il cuore pesante nel petto. «Domani, prima del matrimonio, tutto sarà rimesso al suo posto. I mobili saranno riportati...».
Lei non rispose, continuò semplicemente a guardarlo.
«Domani, ti prometto, tutto sarà rimesso al suo posto», ripeté.
Il suo sguardo lo stava uccidendo, piano ed inesorabilmente. Si allontanò dalla parete, le passò accanto senza avere più la forza di guardarla in viso e se ne andò com'era entrato, dimenticando persino la valigetta di preziosi lì dove l'aveva lasciata.

***

«Dottor Watson? Dottor Watson, si svegli».
John aprì gli occhi e quasi sobbalzò sul divano, trovandosi davanti il volto rigato di lacrime di Geneviève.  
«Che... Che cosa c'è? Perché piangi?».
La ragazzina non doveva essersene resa conto, perché si passò le mani sulle guance e si guardò le dita umide, sorpresa. Non le importò però e tornò a guardarlo in viso, sollevando il cellulare che aveva in mano.
«Mia madre...».
«Non dire altro».
John si alzò di scatto, all'improvviso lucidissimo, e mentre infilava a Rosie il giubbottino, svegliandola inevitabilmente, chiamò un taxi. Quindi scesero cercando di non svegliare la signora Hudson ed invitarono il tassista ad andare il più veloce possibile.
Una volta al London Bridge Hospital fu ancora il segretario di Arsène Lupin ad accoglierli e a ragguagliarli sulle condizioni di Clotilde, la quale era stata portata d'urgenza in sala operatoria per un'insufficienza respiratoria. Quindi un'infermiera li aveva fatti accomodare in sala d'aspetto, dicendo loro che li avrebbe tenuti informati, ma Geneviève non ne voleva sapere di sedersi. Passeggiava nervosamente davanti a lui e Rosie, passandosi a tratti le mani nei capelli e a tratti sul volto. Non l'aveva mai vista perdere il controllo in quel modo, ma era anche vero che non dimostrava spesso i suoi quindici anni.
John si alzò a sua volta e con Rosie appesa al collo andò al distributore di bevande, prese un té che dall'aspetto sembrava acqua sporca e glielo portò. La ragazzina prese il bicchiere caldo e lo fissò, inebetita, prima di riprendere a piangere.
Il dottore la fece sedere e con un braccio intorno alla schiena di Rosie e l'altro intorno alle sue spalle la lasciò sfogare ed accolse tutte le sue lacrime in silenzio.
Quando parve calmarsi – o più semplicemente si ritrovò senza forze – Geneviève gettò un'occhiata all'uomo coi baffi, seduto davanti a loro ed intento a sfogliare una rivista come se stesse aspettando il suo turno dal dentista, e sussurrò: «Nessuno la obbliga a stare qui».
«No, infatti. Ma nessuno dovrebbe stare da solo in situazioni come queste, lo so per esperienza».
A quelle parole l'uomo sollevò appena gli occhi dalle pagine patinate, per poi riabbassarli con indifferenza.
Geneviève invece guardò John con quei suoi occhi verdi, specchio di quelli di Mary, ora arrossati per il pianto ma ugualmente bellissimi, e riuscì persino a rivolgergli un piccolo sorriso.
«Grazie, dottor Watson», mormorò, tornando a posare la testa contro la sua spalla.
«Chiamami John», rispose accarezzandole i capelli. Si fermò quasi subito però, timoroso di star oltrepassando un confine per cui non era ancora pronto. Non voleva affezionarsi, non prima di vedere come avrebbe reagito alla verità.
Rosie gli diede la scusa perfetta, iniziando a lamentarsi per il sonno. Si alzò ed iniziò a cullarla, con la sua testa sulla spalla, e guardò la ragazzina dall'alto dicendo: «Vuoi che chiami tuo padre?».
Prima ancora che la ragazzina potesse aprire bocca, il segretario di Arsène Lupin rispose: «Il padrone mi ha ordinato di chiamarlo solo in casi di emergenza e le informazioni che possediamo al momento non valgono una chiamata».
John strinse i denti, indignato davanti a tanta freddezza. Dov'era finita la sua umanità?
«Mi ascolti bene, lei...».
«Inoltre», lo interruppe l'uomo, alzando il capo dalla rivista per incrociare il suo sguardo e rivolgergli un sorriso derisorio, «il suo interesse è del tutto ingiustificato. Quale legame la unisce a madmoiselle Geneviève o a sua madre, dottore?».
La rabbia gli contrasse ancora di più i lineamenti del viso e John sentì i denti dolere, tant'era la forza con cui li aveva serrati. Quell'uomo sapeva tutto e si stava divertendo a sue spese, magari solo per ingannare il tempo.
«Adesso basta», intervenne Geneviève, tirando su col naso. «Nemmeno tu fai parte della famiglia e voglio che te ne vada».
«Sa che non posso farlo», rispose l'uomo coi baffi. «Lei e sua madre siete sotto la mia protezione».
La ragazzina si alzò dalla poltroncina e col volto arrossato gridò: «Non mi interessa! Vattene da qualche altra parte, non ti voglio qui».
I loro sguardi si diedero battaglia per qualche altro secondo, poi il lacché di Arsène Lupin sospirò e lasciò cadere sul tavolino la rivista che aveva sfogliato solo per metà. Si portò una mano poco sopra il ventre e piegò il capo in un inchino frettoloso prima di dirigersi verso la reception.
Geneviève rilassò le spalle e si lasciò cadere di nuovo sulla poltroncina alle sue spalle, una mano a coprirle metà del viso.
«Davanti a lui non l'avrei mai ammesso, ma... ha ragione», confessò, lasciando John di stucco. «Preferisco avere delle risposte prima di contattare mio padre. E poi... non credo che apprezzerebbe, se dessi il suo numero privato al migliore amico di Sherlock».
Il dottore rifletté qualche secondo, ma non trovò niente con cui controbattere. Se magari Geneviève avesse saputo la verità sul suo conto, allora forse avrebbe potuto avere voce in capitolo. Al momento, invece, non gli restava che pregare perché Clotilde superasse la crisi.
«E va bene», disse alla fine. «Puoi tenere un attimo Rosie? Vado a prendermi un caffè, sperando che non sia come il té».
Riuscì a farla sorridere di nuovo e John si allontanò, impensierito.
Approfittò di quel viaggio al distributore per mandare un messaggio a Sherlock. Erano le cinque e mezzo del mattino, ma sapeva che l'avrebbe letto: dormiva poco e male quand'era sul campo. Sperava soltanto che riuscisse a fermare Lupin e a portarlo lì, dove sua figlia aveva bisogno che fosse.

***

Sherlock, seduto nella piccola camera d'albergo che aveva affittato per la notte, aveva atteso il sorgere del sole senza chiudere occhio.
I pensieri che avevano affollato la sua mente erano stati tanti, ma due in particolare avevano continuato a ripresentarsi, assillandolo: Molly Hooper e Irene Adler.
Due donne, l'una l'opposto dell'altra, entrambe finite nel suo cuore. Com'era potuto succedere?
Aveva detto ad Arsène che si sarebbe occupato personalmente di Irene, ma non aveva la più pallida idea di cosa fare. Doveva chiamarla, chiederle perché avesse assoldato Arsène invece di parlarne con lui? Oppure fare finta di niente, evitando così che agisse ancora più di impulso? Perché era questo che lo preoccupava... Se Irene avesse deciso di intervenire in qualche modo, guidata dalle emozioni, avrebbe potuto ferirlo – ma ci era abituato – e soprattutto ferire Molly, la donna per cui l'aveva lasciata.
Più i minuti passavano, più l'idea di affrontarla attecchiva nella sua mente. Ad un certo punto aveva persino preso il cellulare tra le mani, ma la chiamata che aveva ricevuto gli aveva dato altro a cui pensare.
«Aveva ragione, l'ho colto in flagrante. Mi ha promesso che domani, prima del matrimonio, tutto sarà rimesso al suo posto», gli aveva detto miss Underdown, controllando la voce perché non risultasse rotta dal pianto.
Se conosceva bene Arsène – e pensava di conoscero piuttosto bene – c'era il novantanove percento di possibilità che sarebbe rimasto fino a quel momento, mantenendo la sua copertura come invitato. Non poteva andarsene prima di aver dimostrato al suo vecchio amore di saper ancora mantenere una promessa.
Le cose sarebbero potute andare molto diversamente se avesse ricevuto lo stesso messaggio che aveva ricevuto lui da John intorno alle cinque e trenta. La madre di Geneviève era finita in sala operatoria e si trovavano in ospedale, ad attendere notizie. Arsène avrebbe potuto fare ritorno a Londra in quel caso, ma John aveva aggiunto un post scriptum: “Lui non lo sa”.
Certo, Geneviève non aveva voluto disturbarlo prima di sapere in che condizioni riversava la madre. Quella ragazzina... Una continua sorpresa.
Perciò, finché Arsène sarebbe stato a Thibermesnil, nemmeno lui poteva tornare a Londra. Se anche l'avesse fatto sarebbe stato inutile, perché non poteva fare nulla di concreto per Geneviève. Se John gliel'avesse sentito dire probabilmente l'avrebbe rimproverato, dicendogli che poteva starle vicino, ma Sherlock non era il tipo.
Ultimo motivo, ma non meno importante: voleva far patire le pene dell'inferno all'uomo che non aveva voluto ascoltarlo e gli aveva sbattuto la porta in faccia.
Sorrise, sentendo il cellulare vibrare una, due, tre volte. Sette del mattino, numero sconosciuto. Poteva essere solo una persona.
Al quarto squillo silenzioso, rispose con estrema calma: «Il signor Devanne, immagino».
L'uomo dall'altra parte rantolò, dovendo dire ad alta voce: «Avrei dovuto darle ascolto».
«Lo so».
«Ci aiuterà, signor Holmes?».
«Aiutarvi? Per quale motivo? Ormai il furto è avvenuto, non posso più sventarlo».
«Potrebbe... Ecco, trovare degli indizi...».
«Arsène Lupin non lascia mai inidizi».
«Il passaggio segreto, allora! La prego, signor Holmes... faccia almeno luce su come è riuscito a portare via tutta quella roba!».
Sherlock sospirò internamente, socchiudendo gli occhi.
«E va bene», rispose alla fine, lasciandosi conquistare dalla curiosità.

Il furto avrebbe dovuto restare un segreto, ma la voce si era già sparsa tra i paparazzi, forse avvertiti da una guardia che voleva un po' di soldi facili, da una cameriera che odiava pulire i panni sporchi dei Devanne o forse da un amico di Georges, geloso della sua eredità o della sua futura moglie. Non si sarebbe stupito, se fosse partito tutto dallo stesso Arsène Lupin!
L'arrivo della polizia e successivamente di Sherlock Holmes, quella volta accolto col tappeto rosso, dissiparono ogni dubbio.
Il detective venne subito portato nella torre Guillaume, spoglia ormai dei pezzi di maggior valore. Lì trovò l'ispettore a cui era toccato il caso e la famiglia al completo, tutti in vestaglia, compresa la bella Nelly Underdown. I loro sguardi si incrociarono un istante, ma finsero di non conoscersi quando vennero presentati. Prima di arrivare, infatti, le aveva mandato un messaggio perché non parlasse con nessuno né di lui né del suo incontro con Lupin, onde evitare ulteriori scandali. Lei aveva risposto che non l'avrebbe fatto comunque: non voleva rovinare del tutto il matrimonio.
«Signor Holmes!», piagnucolò, disperato, il giovane Devanne. «È tutta colpa mia!».
Guardò la sua futura sposa e imbarazzato aggiunse: «Ieri sera, dopo cena, ho bevuto un po' troppo e ho iniziato a parlare a sproposito. Horace Velmont mi ha fatto domande veramente specifiche sul passaggio segreto. Dev'essere lui! Lo sapevo di non averlo invitato!».
Sherlock non poté trattenere un sorriso divertito. Arsène doveva conoscere bene il suo pollo, se era certo che non avrebbe suscitato sospetti fino a fatto compiuto.
Quindi iniziò ad esaminare la grande sala della torre, ormai quasi completamente spoglia. Notò subito la valigetta lasciata su una delle teche, mezza piena. Arsène doveva averla lasciata lì dopo essere stato interrotto da Nelly.
Davanti alla monumentale libreria gli saltò all'occhio la mancanza di un libro, ma poteva essere stato preso da un ospite che amava addormentarsi leggendo.
«Lì c'era il Thibermesnil Chronicles», lo contraddisse il padre di Georges. «Un libro che racconta come è stato costruito il castello, i suoi ospiti...».
«All'interno c'era anche una planimetria molto dettagliata dei sotterranei», aggiunse miss Underdown. «Ma incompleta. I volumi in origine erano due e si diceva che solo possedendo entrambe le planimetrie era possibile individuare il passaggio segreto».
Finalmente qualcuno che diceva le cose importanti!
«Okay, quindi Lupin aveva in mente di fare un colpo da diverso tempo. Come sospettavo. Ha visto l'occasione del matrimonio e l'ha colta».
«Signor Holmes, quello che ha detto Nelly è vero, ma solo i membri della famiglia Devanne sapevano come accedere al passaggio».
«Ah! Allora mostratemelo!».
Georges si passò una mano sul collo, imbarazzato. «In realtà... il mio bisnonno non fu in grado di tramandare il segreto, morendo all'improvviso. Ha lasciato solo degli indizi, segnati sul retro di quella... La foto!».
Tutta la famiglia si spostò davanti alla mensola dell'imponente camino e si guardarono scioccati. Sherlock e Nelly si scambiarono un'occhiata e il detective avrebbe voluto chiederle che ci trovava in degli stupidi del genere - forse Arsène aveva ragione ad essere tanto offeso - ma decise di non mettere naso in questioni di cuore.
«Ieri sera, sotto l'influenza dell'alcool o più probabilmente di qualche droga, Georges deve aver indicato quella stessa foto a Lupin, il quale ha potuto risolvere l'enigma. Qualcuno sa dirmi esattamente che cosa c'era scritto?».
«Certo», esclamò il signor Devanne. Si schiarì la gola e con tono quasi solenne disse: «"T.G. L'ascia volteggia nell'aria che freme, ma l'ala si apre, e si va verso Dio. 2-6-12"».
Sherlock si voltò verso le finestre e visualizzò gli indizi di fronte a sé, come appesi al soffitto da fili invisibili.
Lui non aveva i libri con le planimetrie, ma quella sigla, T.G. non poteva che indicare la torre in cui si trovavano: Torre Guillaume. Quindi, com'era ovvio, uno degli ingressi del passaggio si trovava in quella stanza.
La citazione doveva riferirsi ad una specie di meccanismo, ne era sicuro, ma furono i tre numeri a fornirgli finalmente la soluzione.
Sherlock fece una mezza giravolta e sorridendo puntò l'indice verso la libreria.
«Di che cosa vanno fieri i signori Devanne, più di ogni cosa? Del loro buon nome. E come sono conosciuti nei circoli?».
«I signori di Thibermesnil», rispose Nelly, abbozzando un sorriso.
«Ho bisogno di una scala!».
E la scala fu portata in men che non si dica. Sherlock salì i primi gradini, ma poi ci ripensò e finse di cedere l'onore al giovane rampollo, il quale, desideroso di riscattarsi, accettò il compito con entusiasmo.
Una volta di fronte alle grosse lettere in rilievo che componevano il nome Thibermesnil, il detective gli disse: «Afferri la lettera H e provi a vedere se si gira, in un verso o nell'altro».
Georges eseguì e la lettera si girò di centottanta gradi. La sorpresa colse tutti i presenti, eccetto Nelly e Sherlock. Certo, il detective aveva piena fiducia nella sua intuizione, ma Nelly? Che quando aveva sorpreso Lupin avesse visto l'ingresso del passaggio e non gli avesse detto nulla per constatare di persona quanto tempo ci avrebbe messo a risolvere il mistero? Oppure, inconsciamente, voleva proteggere il Ladro Gentiluomo?
«E poi, signor Holmes?», chiese un trepidante Georges.
Miss Underdown incrociò il suo sguardo ed arrossì, deviandolo, e Sherlock riprese a guidare l'ereditiero: «Ora la R. Non girerà come la H, dovrà tirarla verso di sé e poi spingerla in avanti».
Dopo diversi tentativi, la lettera si ritirò nel frontone con uno scatto interno.
«Perfetto, ora deve spostarsi per raggiungere l'ultima lettera, la L. Fin'ora non ho sbagliato, perciò credo proprio che questa si aprirà come uno sportello».
Tutti trattennero il respiro, ispettore compreso, e Georges tirò fino a quando la L non rimase attaccata al frontone solo per la linea inferiore. Nello stesso momento, tutta la parte della biblioteca situata tra la prima e l'ultima lettera della parola Thibermesnil ruotò su se stessa, rivelando l'oscuro sotterraneo.
Georges, troppo sbigottito per capire cosa sarebbe successo, venne travolto dalla porta segreta e cadde giù dalla scala. Nessuno però se ne curò, impegnati a fissare il buio tunnel di pietra.
«Settant'anni», mormorò il signor Devanne, tamponandosi la fronte sudata con un fazzoletto. «Settant'anni che cerchiamo e lei e Lupin in dieci minuti...».
«Signor Devanne, non tutti sono idonei a decifrare enigmi», gli disse Sherlock, anche se avrebbe voluto essere più scortese. «La seconda, la sesta e la dodicesima lettera. L'H gira, l'R freme e la L si apre».
«Ma Arsène Lupin arrivava da fuori, giusto? Come lo spiega questo?», gli chiese l'ispettore. Allora parlava!
Il consulente investigativo scese un paio di scalini ed estrasse una torcia elettrica da una delle tasche interne del cappotto. La puntò in alto e sorrise, trovando le lettere all'inverso e il nudo meccanismo di apertura.
«Ha fatto proprio come noi, ma all'incontrario», rispose, per poi accucciarsi ad esaminare delle macchie scure sul pavimento. Ne toccò una e dato che non era passato molto tempo dall'effrazione la trovò ancora fresca.
Si portò le dita sotto il naso e sorrise, ammirato: «Ah, Arsène, non mi deludi mai! Sapeva che il passaggio non veniva aperto da almeno settant'anni, così si è portato dietro dell'olio per lubrificare gli ingranaggi».   
Nelly si sporse all'interno del tunnel, ignorando i rimproveri della suocera, ed incrociando nuovamente lo sguardo del detective esclamò beffarda: «Ci si poteva arrivare».
Sherlock ricambiò e le porse la mano. «Andiamo?».
La ragazza lo affiancò ed iniziò a scendere le ripide scale di pietra senza timore, curiosa di sapere dove sarebbero sbucati. Georges allora, appena ripresosi dalla rovinosa caduta, volle conservare il poco onore che gli era rimasto e li seguì.
Scesero per diversi metri - e quarantotto scalini esatti - fino a ritrovarsi in un corridoio polveroso, scavato nella roccia.
Qualcuno aveva il respiro tremante e non era Nelly, perciò Sherlock si voltò verso Georges e lo trovò pallido, con le braccia stese verso le pareti.
«È claustrofobico?», gli domandò.
«Non lo so... Forse».
Nelly allora affiancò il fidanzato, facendogli mettere un braccio intorno alle sue spalle. Sorridendo amorevole gli accarezzò il volto, e Sherlock fu costretto a distogliere lo sguardo. Forse lo amava davvero, pregi e difetti. Era un uomo fortunato, quel Devanne.
Alla fine del corridoio si ritrovarono davanti ad un'altra ripida scalinata, che quella volta dovettero salire in fila indiana. Ora capiva perché Arsène non avesse portato via tutto: questioni di spazio.
Sherlock si immobilizzò, ritrovandosi davanti ad una parete di nuda roccia.
«Non è possibile. Deve essere qui».  
«Signor Holmes, è stato strabiliante, ma se tornassimo indietro...».
Nelly azzittì il futuro sposo, guardando il detective tastare la pietra in lungo e in largo. Poi vi posò contro l'orecchio e solo allora, alzando lo sguardo, scorse una fessura tra la parete e il soffitto. Lì nascosto c'era lo stesso meccanismo rovesciato della biblioteca.
Quella volta fu Sherlock ad eseguire i passaggi e fece un passo indietro quanto la pietra davanti a loro oscillò. A quel punto, con l'aiuto di Georges, la spinse di lato e si ritrovarono nella cappella, dove il parroco e i chirichetti, riuniti davanti all'altare, li fissarono ad occhi sgranati.
Tutto era già stato addobbato per il matrimonio e un intenso profumo di fiori li stordì, specie dopo aver respirato l'aria ammuffita del passaggio segreto.
«Scusate, è in corso un'indagine», disse Sherlock, con un sorriso a trentadue denti sul viso.
Aspettò che Georges e Nelly uscissero dal sotterraneo, poi insieme richiusero la porta di pietra. Quella da cui li avevano visti uscire gli uomini di fede altro non era che la pietra tombale di uno degli antenati dei Devanne, forse colui che aveva fatto costruire il tunnel.
«Bene, il mistero è risolto», esclamò soddisfatto Sherlock, sfregandosi le mani.
«Ma gli oggetti rubati...», piagnucolò ancora Georges.
Il detective gli rivolse un'occhiata tagliente. «A che cosa le servono? Ha già tutto ciò di cui ha bisogno».
Georges guardò la donna che aveva al fianco e il suo sguardo si sciolse, ammettendo a se stesso che era proprio così.
«Vuoi comunque sposarmi, Nelly?».
Miss Underdown sorrise, sporgendosi per posargli un bacio sulle labbra. «Ma certo, zucca vuota. Ti amo per quello che sei, non per la tua ricchezza. Arsène Lupin non rovinerà il nostro matrimonio».
Sherlock abbozzò un sorriso e senza dire una parola si allontanò lungo la navata.
«Signor Holmes!», lo chiamò ancora Nelly.
Si fermò davanti alle porte aperte, col sole che allungava la sua ombra sul pavimento di marmo.
«Ci farebbe piacere se rimanesse. Per ringraziarla».
Sherlock annuì con un breve cenno del capo e se ne andò senza più guardarsi indietro.

***

Il padre della sposa aprì nuovamente la portiera dell'auto dai vetri oscurati e si sporse all'interno. Gli invitati rimasti fuori dalla cappella allungarono invano i colli per vedere in anteprima il vestito bianco.
«Tesoro, sono le undici», le disse, guardando l'orologio che portava al polso.
Nelly sospirò, delusa, e fece per allungare una mano perché l'aiutasse a scendere, ma il nugolo di paparazzi fuori dal castello si agitò quando il grande cancello si aprì per lasciar entrare tre camion della FedEx.
«Che cosa diavolo...?».
Il signor Underdown chiuse la portiera e raggiunse i signori Devanne, i quali rimasero senza parole quando i fattorini aprirono il retro dei loro mezzi per mostrare credenze, arazzi, quadri... insomma, tutto ciò che era stato rubato quella notte.
«Ho mantenuto la mia promessa».
Nelly trasalì voltandosi verso l'autista della limousine. Attraverso lo specchietto retrovisore incrociò gli occhi verdi di Arsène Lupin.
Il Ladro Gentiluomo aprì la bocca, forse per discolparsi, per cercare delle scuse, per mostrare la sua vita in ciò che aveva di audace e di grande. Ma la richiuse, consapevole che avrebbe soltanto peggiorato le cose. Un sorriso venato di tristezza piegò le sue labbra sottili.
«Ah, sembra ieri che viaggiavamo sulla Providence. Ti ricordi le ore trascorse sdraiati al sole, a bordo piscina? E quella sera al ristorante, quando per te rubai una rosa dal mazzo del nostro vicino di tavolo?».
«Avrei dovuto capirlo già allora, che razza di uomo eri».
«E invece mi sorridesti, arrossendo. Voglio che tu sappia che quello che c'era tra noi era vero, Nelly. Io ti amavo; ti amo ancora. Vorrei non essere ciò che sono, ma...».
Nelly deviò il suo sguardo, con gli occhi lucidi di lacrime. Arsène sospirò e rimase in silenzio, deciso a non farsi ulteriore male: non l'avrebbe mai accettato, ora che sapeva la verità.
La portiera si aprì ancora e il padre di Nelly la guardò entusiasta, dicendo: «Tutto! È stato riportato tutto!».
«Bene, mi fa molto piacere», rispose lei, sorridendo.
«Tesoro, ti senti bene? Stai piangendo».
Nelly scosse il capo, asciugandosi la lacrima che le era scivolata sulla guancia, fuori dal suo controllo. «Sì, sto bene. Sono solo felice, papà».
L'uomo parve rincuorato e finalmente prese la mano della figlia per aiutarla a scendere dall'auto. A braccetto, iniziarono a percorrere la lunga passerella che li avrebbe portati fino all'altare.
Arsène si addossò contro lo schienale del sedile, guardando la sua Nelly convolare a nozze con un uomo che non l'avrebbe mai amata in tutta la sua vita come l'aveva amata lui in quelle poche settimane.
Stava per scendere dall'auto e filarsela quando con la coda dell'occhio vide una rosa lì dove era seduta Nelly. Una rosa bianca, sfilata dal suo bouquet e lasciata sul sedile per lui, come regalo d'addio.
La prese tra le dita e scese dalla limousine, si appoggiò al tettuccio con i gomiti e chiudendo gli occhi se la portò al naso per respirarne il dolce profumo.
Perse la cognizione del tempo e furono le campane a riscuoterlo, facendogli riaprire gli occhi. E ciò che vide lo fece correre lungo i confini del giardino: Sherlock Holmes, probabilmente avvisato da Nelly. Ah, avrebbe dovuto prevederlo! Non era stato un caso che lo avesse colto sul fatto... Si erano messi d'accordo sin dal principio!
La rabbia lo fece correre ancora più veloce, tanto che lo staccò di diversi metri.
Il cancello di servizio che lui e i suoi uomini avevano scassinato per avere una seconda via di fuga era proprio davanti a lui, mimetizzato dalle siepi, perciò ci corse contro senza alcun timore. Quello che non aveva previsto era che Sherlock Holmes l'avesse preceduto, chiudendolo con un grosso lucchetto.
Ci sbatté contro come un allocco e si ritrovò steso sull'erba, col fiato corto e un atroce dolore al braccio destro. Fratturato, come minimo.
«Sei mio, Arsène!».
Il Ladro Gentiluomo scoppiò a ridere. «Vuoi approfittare di un uomo col cuore infranto, Sherlock? Non hai proprio alcuna decenza!».
Il detective gli saltò addosso e Arsène si difese come meglio poté. Rotolarono per un po' sull'erba, tirandosi pugni e ginocchiate, ma nessuno sembrava avere mai la meglio. Quando Sherlock estrasse un paio di manette, Arsène lo colpì con una testata sul naso e riuscì ad alzarsi.
«Quei bracciali non mi piacciono», esclamò, tirandogli un calcio nello stomaco che gli tolse il respiro. Poi si accovacciò su di lui, con un ginocchio puntato sulla sua gola.
«Inizio a capire perché ti porti dietro John», disse Arsène, mentre Sherlock si dimeneva nel tentativo di liberarsi. «Ti copre le spalle se le cose si mettono male, come in questo caso».
E fu proprio John a salvarlo anche quella volta, facendo squillare il suo cellulare. Arsène, senza fare complimenti, infilò una mano nella tasca destra del suo cappotto e fece per rispondere, ma un'altra chiamata, quella volta per lui, lo distrasse.
Il volto di Sherlock era ormai paonazzo per la mancanza di ossigeno, perciò Arsène allentò un po' il peso sulla sua gola mentre si portava entrambi i telefoni alle orecchie.
«Sono desolato, ma non è un buon momento».
Arsène ascoltò in silenzio, sentendo la terra inghiottirlo a poco a poco. Lasciò andare Sherlock e si sedette sull'erba, con gli occhi lucidi di lacrime. I cellulari gli caddero dalle mani e il detective prese il proprio per parlare con John.
«Arriviamo il prima possibile», rispose alla fine, con voce rauca.
Pose fine alla telefonata e guardò il Ladro Gentiluomo, col volto nascosto tra le ginocchia e la schiena squassata dai singhiozzi. Lo ferì profondamente vederlo in quelle condizioni, nonostante fino a pochi minuti prima l'unico suo desiderio era quello di mettergli le manette ai polsi.
Stipulando una tregua, si alzò e gli prese entrambe le mani per tirarlo su, scoprendolo ferito al braccio destro. Arsène tuttavia non fece una piega e si lasciò muovere come una bambola di pezza, e Sherlock lo condusse fino all'uscita principale, con le campane della cappella che suonavano a festa alle loro spalle.

Dopo un'ora e molte regole del codice della strada ignorate, entrarono insieme al London Bridge Hospital e chiesero indicazioni. In realtà fu Sherlock a chiederle, dato che Arsène si trovava ancora in stato di shock.
Corsero fino all'ala est, dove si trovava la sala operatoria in cui era stata portata Clotilde, e lì davanti trovarono il secondo in comando della banda di Lupin, John, Rosie e una Geneviève che aveva esaurito le lacrime, seduta sul pavimento con le gambe strette al petto. Non appena li vide in fondo al corridoio però si alzò e corse loro incontro, gettandosi ai loro colli contemporaneamente. Arsène ricambiò subito la stretta, affondando il viso tra i capelli biondi della figlia, mentre Sherlock esitò, imbarazzato e a disagio. Cercò lo sguardo di John, il quale gli sorrise mesto, annuendo. Allora il detective le avvolse la schiena con un braccio, finendo con la mano su quella di Lupin, il quale la strinse forte.
Sherlock, senza nemmeno rendersene conto, ricambiò la stretta e posò il capo contro quello di Arsène, respirando il profumo dei suoi capelli e sentendo una spiacevole fitta allo stomaco. Tuttavia non si allontanò: quel dolore, dopotutto, l'aveva salvato. 

   
 
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