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Autore: Sospiri_amore    31/10/2017    0 recensioni
TERZO LIBRO DI UNA TRILOGIA
Elena se ne è andata via da New Heaven appena finite le scuole superiori, da ragazza ha lasciato gli USA per l'Europa. Tutte le persone a cui ha voluto bene l'hanno tradita, umiliata e usata.
Dopo quattordici anni, ormai adulta, Elena incontrerà di nuovo le persone che più ha amato e odiato nella sua vita, si confronterà con loro rivivendo ricordi dolorosi.
Torneranno James, Jo, Nik, Adrian, Lucas, Kate, Stephanie, Rebecca più altri personaggi che complicheranno e ingarbuglieranno la vita di Elena.
Come mai Elena è tornata in America?
Chi è il padre di suo figlio?
Elena riuscirà a staccarsi dal passato?
Chi si sposerà?
Riusciranno i vecchi amici a trovare l'armonia di un tempo?
Elena riuscirà ad amare ancora?
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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OGGI:
Come un serial killer






... inizia nel capitolo precedente...

 

Nik si toglie il cappotto umido e lo appende proprio di fianco alla scrivania di Caroline.

«Ci sono messaggi per me? Mi ha cercato qualcuno?», chiede Nik alla sua segretaria.

Caroline gli allunga un paio di foglietti senza neanche degnarlo di uno sguardo.

Nik li prende bofonchiando qualcosa.

 

Entrambi entriamo nel suo ufficio.

 

«A volte la strozzerei. Da quando è così... così... è insopportabile». Nik butta i foglietti sulla sua scrivania cercando di recuperare la calma. «Scusa. Scusa per il mio atteggiamento, ma stamattina non ne va una giusta. Macchina bloccata nel garage per la neve e metropolitana stracolma. Tu come stai? Caroline ti ha dato il lavoro che devi fare?».

«Sì, mi sono messa nell'ufficio qui di fianco al tuo», gli dico ripensando alle battutine poco simpatiche sul mio peso che Caroline mi ha fatto stamattina.

«Perfetto... hai avuto qualche difficoltà?», mi chiede allungando le mani verso le mie e stringendole con trasporto.

«Sì. Cioè, no. Non ho avuto delle vere e proprie difficoltà, più che altro è una cosa molto lunga. Ascoltare tutte le conversazioni è piuttosto noioso», dico con sincerità.

Nik mi guarda sorpreso: «Passami le trascrizioni».

 

Passo il plico fitto di fogli che ho messo nella mia borsa.

Nik lo sfoglia.

Sorride.

 

«Non hai visto queste note?», mi chiede tamburellando le dita su piccole scritte fatte a matita sul margine del foglio.

«No. A dire il vero non ci avevo fatto caso. Che sono?».

«Indicano il minuto e i secondi precisi in cui parlano in italiano. Le ho messe io per facilitarti il compito», mi dice con candore come fosse la cosa più ovvia del mondo.

 

Arrossisco.

Mi sento molto stupida.

 

«Io... io... non avevo capito, scusa». Ho la sensazione che un filo di vapore esca dalle mie orecchie e che la mia faccia stia prendendo fuoco.

«Tranquilla, meglio aver chiarito subito», mi dice Nik sorridendo.

 

Ok. Perfetto.

Mi sembra di essere tornata al Trinity dove lui è il professore ed io l'allieva maldestra.

 

«Tornando a discorsi più importanti...». Nik si alza e controlla che sia chiusa la porta poi si accuccia vicino a me: «Dobbiamo capire di chi fosse quella limousine che hai visto. Potrebbe essere un buco nell'acqua, dobbiamo vederci chiaro».

«Non voglio commettere reati. Non posso rischiare. Quello che vuoi fare è contro ogni morale, io non me la sento, non entrerò nel loro ufficio di nascosto». Su questo non transigo, non voglio passare anni in galera per una sciocchezza simile.

Nik mi accarezza con dolcezza: «Non vorrei mai ti succedesse qualcosa di brutto, non ti preoccupare. Devi solo darmi una mano. Hai voglia di recitare una parte con me?».

«Che diavolo hai in mente, quanto fai quella faccia vuol dire che hai un piano in mente», gli dico divertita, ma allo stesso tempo preoccupata.

«Facciamo così, venerdì andiamo...».

Interrompo Nik.

«Venerdì vado a New Heaven da mio padre, passo il weekend con lui e tutti gli altri».

«Quindi questo fine settimana non passeremo un po' di tempo insieme?», mi chiede a bassa voce baciandomi il collo e accarezzando le mie cosce e i miei fianchi.

 

Mi irrigidisco, sa benissimo che sono molto sensibile al suo fascino. Seduta sulla sedia con lui in ginocchio davanti a me fremo.

 

«No. Mi dispiace. Nulla da fare, ho impegni con la mia famiglia».

«Se vuoi potremmo... adesso... io e te...», mi dice con fare malizioso.

 

Contegno, Elena.

Per quanto mi piaccia baciarlo questo non è il momento giusto.

 

«Torno nel mio ufficio a leggere le trascrizioni», dico allontanandomi da lui il più velocemente possibile. Afferrò i fogli sulla scrivania di Nik cercando di ricompormi.

«Perfetto. Quando vuoi io sono qui». Nik mi sposta una ciocca di capelli incastrandola dietro al mio orecchio. È a pochi centimetri da me, sento il suo respiro caldo scivolarmi sulle guance.

 

Non posso restare altrimenti so già come finirebbe.

 

Senza lasciarmi andare alle sue carezze esco dall'ufficio richiudendomi il più velocemente possibile alle spalle la porta.

 

Prendo fiato più volte.

Cerco di darmi un contegno visto che nel corridoio dello studio legale transitano un sacco di persone, avvocati e clienti.

 

Caroline è troppo impegnata a scrivere al computer per accorgersi di me, è così veloce che quasi quasi non riesco a vedere le due dita pigiare i tasti. Con aria seria osserva lo schermo, è così meticolosa e attenta che sembra un'altra donna da quella di stamattina.

Non voglio disturbarla.

Striscio contro il muro cercando di raggiungere il più velocemente possibile l'ufficio senza finestra. 

Mancano una manciata di centimetri.

Allungo la mano.

Sto per aprire.

 

Un rumore cadenzato di tacchi si interrompe poco lontano da me.

 

Non c'è neanche bisogno che mi giri a guardare, so benissimo di chi si tratta.

Rebecca.

Posso sentire il suo sguardo infuriato squadrarmi da capo a piedi.

Me la immagino con le braccia conserte e l'aria scocciata.

Sono sicura sia arrabbiata con me.

 

«Ciao Rebecca», dico senza girarmi.

«Mi spieghi perché sei sempre qui in ufficio? Dalla discussione che avevamo fatto un po' di tempo fa avevo capito che non ti volevi intromettere nella nostra vita. Qui lavoriamo, non perdiamo tempo. Sembra che tu ti diverta a metterci il bastone tra le ruote», dice con stizza cercando di controllare il volume della voce per non farsi sentire dai colleghi.

«A dire il vero non mi interessa ciò che fai. Sono qui per lavorare pure io. Ho avuto un problema nel mio ufficio, stanno ristrutturando, e Nik mi ha offerto questa stanza. Quella senza finestre», le dico indicando la porta vicino a me.

 

Sto mentendo.

Questa è la scusa concordata con Nik per non destare troppi sospetti.

In questo modo risulterà più credibile quando ritornerò nel mio ufficio a fare le traduzioni.

 

«E perché attacchi Jo e disturbi Stephanie a casa sua? Ha un figlio piccolo da accudire e una bimba che va a scuola, ha molte cose da fare, non hanno tempo di discutere con te». Rebecca minacciosa mi si avvicina, ha lo sguardo infuocato come una leonessa quando deve difendere i suoi cuccioli.

«Tanto per chiarire è stato Jonathan a cercarmi e parlarmi per primo. Io volevo solo fare una pausa con una tazza di te. Jo ha iniziato con le battute proprio come facevamo da ragazzi, peccato che io sia un po' cresciuta da allora. Non mi ha fatto ridere. Per niente».

Rebecca schiuma.

«Per quanto riguarda Stephanie sappi che l'ho incontrata per strada e lei mi ha chiesto di accompagnarla a casa. Io ho acconsentito, visto che aveva l'aria afflitta. Tutto qui». Con le braccia conserte la osservo senza abbassare lo sguardo. 

«Stephanie non è afflitta. Ha... ha una vita perfetta, ha un marito perfetto. Loro sono perfetti», dice con voce acuta e vagamente stridula. I capelli color miele paiono arruffassi, le vene sul collo sembrano ingrossarsi. 

«Credi quello che vuoi, ma a me non importa», le dico sbuffando.

«Non ti importa? Chissà com'è che sei sempre in mezzo ai piedi. Ammettilo, lo fai apposta. Ti diverti a far soffrire le persone. Jonathan e Stephanie hanno sentito molto la tua mancanza quando te ne sei andata, anche se non lo dicevano apertamente era chiaro che fosse così. Queste tue uscite e spacconate non fanno altro che peggiorare la situazione».

«Senza offesa, Rebecca, ma non me ne frega nulla se hanno o stanno soffrendo. Chiaro? Sono fatti loro. Ora ho da fare, devo andare a lavorare». Le parlo come fosse una bimba piccola, scandisco le parole con calma come se non capisse.

Rebecca mi guarda stranita, di certo non si aspettava una risposta simile:«Tu sei malvagia», mi dice schifata.

«Certo. Certo. Hai sempre ragione tu. Posso andare ora?», le dico con un sorriso finto e l'aria annoiata.

 

Rebecca sbatte il piede nervosa, non sa cosa dire.

Se potesse mi prenderebbe a sberle, sta muovendo nervosa le mani facendo tintinnare i suoi bracciali d'oro.

«Addio Elena». Rebecca, girando di scatto sui tacchi, se ne va.

 

Finalmente libera.

Non posso credere che quella arpia mi voglia far sentire in colpa perché me ne sono andata da New Heaven quattordici anni fa. Non deve assolutamente permettersi di impormi cosa debba pensare o meno. 

Sapevo che avrei dovuto avere a che fare con loro, ma non credevo mi avrebbero assillato in questo modo.

 

Basta.

 

Imbocco il corridoio.

Lascio i documenti a Caroline che non ha neanche il tempo di rispondermi con una battutina perché non la degno di uno sguardo.

Ascensore.

Fortunatamente è vuoto.

Arrivo in pochi secondi al piano terra.

Attraverso l'atrio e mi dirigo verso l'uscita.

La neve ha cessato di cadere, diversi mucchi bianchi e ghiacciati occupano i marciapiedi. Gli spazzaneve hanno fatto il loro compito e il traffico pare aver ripreso il flusso normale. 

Un soffio d'aria si infila dietro la schiena.

Mi copro cercando di respirare il più possibile aria fresca.

Tremo.

Il cielo bianco di nuvole bianche di neve pare più basso e vicino, la luce è così bianca che non riesco a capire che ore siano.

 

Prendo il cellulare.

Sono le 11.15.

 

«Un messaggio vocale?». Parlo da sola mentre noto un piccolo 1 lampeggiare sullo schermo.

Clicco e ascolto avvicinando l'orecchio all'altoparlante del cellulare.

 

-Elena, ho bisogno d'aiuto. Sto impazzendo. Non so più cosa fare. Tutto mi sembra così strano. Vieni. Vieni a casa mia appena puoi.-

 

Kate?

Perché Kate mi ha lasciato un messaggio del genere?

 

Corro subito verso la metropolitana sperando che i treni siano meno pieni e più puntuali. Provo a chiamare la mia amica, ma non risponde. 

Corro e telefono.

Telefono e corro.

La biglietteria è aperta e pare più libera di stamattina, anche i corridoi sotto terra sono più agevoli. Nessuna folla. 

Becco la linea gialla al volo, le porte si chiudono alle mie spalle per un soffio. Ansante per la corsa mi attacco ad un palo in attesa che il treno sotterraneo compia le fermate che mi distanziano dalla casa di Kate.

Con il cellulare in mano provo a chiamarla.

 

Niente.

Non risponde.

 

Merda, non so cosa possa essere successo, ma la cosa non mi piace per niente.

 

Con lo sguardo ben attento al cartellone luminoso che indica le fermate saltello sul posto come fossi pronta a spiccare il volo. In prossimità dell'arrivo mi piazzo davanti alla porta impedendo agli altri passeggeri di scendere per primi.

 

3.

2.

1.

 

Salto con un balzo felino sulla banchina della fermata, con una sgommata raggiungo le scale mobili che salgo a due a due. Corro per il corridoio che porta all'uscita e verso le scalinate.

Come una furia esco verso la strada.

Qui la neve è più alta, non essendo un quartiere centrale non sono passati ancora gli spazzaneve. Fregandomene del fatto che mi bagnerò completamente i pantaloni saltello nei mucchi ghiacciati come un coniglio in cerca della tana. I gestori e proprietari di locali, che con lunghe pale cercano di liberare il passaggio dalla neve, mi osservano incuriositi e divertiti allo stesso tempo. Vedere una donna muoversi in quel modo, goffamente e con il fiato corto, non è certo cosa da tutti i giorni.

 

Arrivo finalmente al portone del condominio di Kate.

Suono il campanello più volte.

 

Non risponde nessuno.

 

Mi cimento in una nuova raffica.

 

«C-chi è?». La voce di Kate arriva ovattata e metallica dal citofono.

«Kate? Kate, sono io, Elena. Ho ricevuto il messaggio, che succede?», le dico a voce alta.

 

Il portone di apre.

 

Percorro le due rampe ti scale a fatica. Ho i pantaloni inzuppati, le scarpe sono fradice. I muscoli delle gambe mi fanno male, in più sono completamente disidratata.

La porta dell'appartamento di Kate è socchiusa.

La spalanco e mi lancio dentro.

Le tapparelle sono abbassate e la poca luce che filtra dall'esterno non basta a illuminare. Cammino a tentoni calpestando pezzi e palle di carta. Sembra che la bufera di stanotte abbia fatto visita al l'appartamento della mia amica.

 

«Kate? Dove sei?», chiedo.

Un mugolio arriva dalla camera da letto.

Seguo il suono.

Mi muovo lenta perché ho paura di scivolare o far cadere qualcosa.

Un nuovo mugolio.

Apro la porta della camera.

La luce azzurra di un computer illumina la mia amica che, afflosciata a terra come un sacco di patate, mugola triste.

 

«Che succede? Kate!». Sono subito di di lei, la prendo per le spalle e la scuoto leggermente.

«Non so più cosa fare. Lo capisci, ho deluso Jane», mi dice con un filo di voce.

«Ma...». Non sto capendo.

Kate mi indica ciò che la circonda.

 

Decine di ritagli di immagini di abiti da sposa sono attaccati ovunque: alle pareti, alle sponde del letto, sulle ante dell'armadio. Abiti voluminosi, bianchi, ricamati, semplici, corti, lungi, a balze, colorati, ogni tipologia di abito possibile e immaginabile è in quella stanza.

Su ognuno di loro svetta la fotografia ritagliata del volto di Kate o Jane.

Articoli di giornale, appunti, liste e X rosse risaltano su alcune immagini.

 

Inquietante.

Molto, molto inquietante.

Sembra la stanza di un serial killer pronto a colpire.

 

«Ma che diavolo succede?», chiedo senza smettere di guardarmi intorno.

«Ho fallito. Io... io...», Kate scoppia a piangere.

«Io, cosa?». Esorto la mia amica a continuare.

«Io non so scegliere che abito da sposa comprare», dice con tono drammatico e mesto.

 

Stop.

Cosa?

 

«Aspetta. Aspetta. Tu mi hai chiamata, hai fatto tutta questa scena, hai conciato casa tua in questo modo per dirmi che non sai che cosa indossare il giorno del tuo matrimonio? È solo un abito da sposa». Sono basita, possibile che sia impazzita del tutto all'improvviso.

«Solo un abito da sposa? Lo prendo bianco o avorio?». Kate stacca l'immagine di due bellissimi abiti, identici, ma con una sfumatura di colore diverso. «Mi sta meglio lungo o corto? Essendo due donne dovremmo indossare la gonna entrambe? Velo o non velo? Decorazioni? Paillettes? Strascico?». La voce di Kate sta aumentando di volume. «Coroncina? Fiori? Tiara?». Stridii acuti escono dalle labbra di Kate. «Rose? Gigli? Margherite?». Con le mani nei capelli e lo sguardo spiritato si butta in ginocchio. «Cosa devo fare?», urla piangendo.

 

Trattengo a stento le risate.

Kate è impazzita del tutto.

 

«Forse dovresti andare in un negozio e provare dei vestiti. No?», le dico con calma cercando di farla ragionare.

«L'ho già fatto. Sono entrata in ogni boutique, negozio e centro commerciale di Boston e di New Heaven. Non c'è ne è uno che mi piaccia. Zero. Nulla. Mi sposo tra tre mesi. Sono in ritardo. Jane ha già il suo, mentre io...», mi dice sconsolata.

«Vedrai che il tuo abito c'è, dobbiamo solo trovarlo. Ok?», le dico mentre l'abbraccio stretta divertita del fatto che per una volta non sia io a creare i drammi, ma la mia amica. «Altrimenti potresti indossare un paio di jeans, una maglietta e delle infradito. Faresti sicuramente colpo, nessuno se lo aspetterebbe. Saresti molto chic».

 

Kate mi guarda per qualche secondo.

Un sorriso radioso non tarda ad arrivare.

 

«Cretina», mi dice.

«Oca», le rispondo.

 

Elena e Kate, le amiche perfette.

 
   
 
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