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Autore: luna moontzuzu    07/11/2017    1 recensioni
Le pareti bianche asettiche lo soffocavano in quei corridoi infiniti dalle mille porte.
Lo stringevano come il paradiso che ormai da anni aveva perso utilità e beltà ai suoi occhi, che rigettava nel dolore di uno strappo da una casa a cui si è legati ma di cui non si condivide gli ideali, quella casa le persone che amava abitavano senza capirla, alla ricerca di una guida, la casa che zampillava sangue e Dio sembrava non voler salvare, come se la nuova crocifissione fosse un modo per espiare le colpe del luogo, e il dolore quelle di Castiel, e il non essere più creduto e amato le sue, Dio errante che non vuole prendere responsabilità mascherandosi in un umano ubriaco e perso.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Le pareti bianche asettiche lo soffocavano in quei corridoi infiniti dalle mille porte.

Lo stringevano come il paradiso che ormai da anni aveva perso utilità e beltà ai suoi occhi, che rigettava nel dolore di uno strappo da una casa a cui si è legati ma di cui non si condivide gli ideali, quella casa le persone che amava abitavano senza capirla, alla ricerca di una guida, la casa che zampillava sangue e Dio sembrava non voler salvare, come se la nuova crocifissione fosse un modo per espiare le colpe del luogo, e il dolore quelle di Castiel, e il non essere più creduto e amato le sue, Dio errante che non vuole prendere responsabilità mascherandosi in un umano ubriaco e perso.

Si sentiva mancare il respiro, il cuore stringere.
Si accasciò sul pavimento lucido di Linoleum

Le ferite frastagliate di ali strappate dalle scapole bruciavano, un corpo che non sapeva controllare stava scombinato sul terreno come un uccello investito sul bordo di una strada, tra piscio e polvere.

Tremava, di freddo, bruciava, di caldo, le labbra si spaccavano sotto i suoi denti, il sapore ferruginoso di sangue che gli invadeva il palato.

Vide nero e bianco, e degli uomini dall’odore di narcotici che lo sollevavano e lo riportavano nella stanza, e camici candidi, e mani candide che lo volevano aiutare, umani più virtuosi degli angeli che non potevano comprendere la situazione ma cercavano con le loro menti scientifiche di inquadrarla e risolverla.

Doveva stare meglio, doveva riuscire a risollevarsi e raggiungere gli altri, avevano bisogno di lui, lui aveva bisogno di loro.
 

Ti regalerò una rosa
Una rosa rossa per dipingere ogni cosa
Una rosa per ogni tua lacrima da consolare
E una rosa per poterti amare
 

Doveva andare, rassicurare Dean che stava bene, che non lo aveva abbandonato, doveva riuscire a placare il dolore che lo accartocciava sul terreno e gli faceva pulsare la testa, i dolci pensieri sul futuro dovevano funzionare da emolliente per le sue ferite di corpo e animo e farlo tornare in forze, farlo riuscire ad alzare da quel posto disperato.
Non cercò di resistere a chi lo portava via

Sarebbe andato da lui. Gli avrebbe portato delle rose come il più cliché degli amanti, come in tutti quei film, e lì quelle cose funzionavano, e lui non avrà ancora la massima conoscenza dell’umanità ma vuole imparare, e i film vanno bene, o almeno è quello che sembra volergli dire Dean ogni volta che lo rimprovera per non conoscerne alcuni e non capire certe riferimenti. Sarebbe andato da lui e avrebbe risolto tutto, niente più dolori, niente più mostri o demoni a disturbare le loro giornate, sarebbero vissuti felici, assieme, se lui lo avesse voluto, perché lo voleva, ne aveva le certezze, e doveva tornare da lui, presto, alla svelta, prima che fosse troppo tardi.

Era come Lucifero fosse tornato nella sua testa, tutta colpa di quel posto, quelle pareti, quel paradiso di carta che voleva curarlo e non lo lasciava partire.

Come ci era finito lì?

Per un caso era entrato lì, sì, un caso.

Gente che moriva, non si sapeva come, e c’erano anche Dean, e Sam, e Dean, e avevano quasi risolto il caso, e quanto tempo era passato? Era ieri?

Erano giorni, mesi? Per un angelo è difficile contare il tempo.

Un angelo caduto Castiel, ricorda, non farti prendere, il mostro è ancora la, è vivo, non cedere.
 

 E mi stupisco se provo ancora un'emozione
Ma la colpa è della mano che non smette di tremare
 

Era caduto per lui, aveva abbandonato tutto per lui, per un amore nascosto, e ancora lo avrebbe fatto, nonostante i leviatani, l’apocalisse, Lucifero, l’oscurità, e tutto.

Era quasi malato come contro la sua stessa incolumità continuasse ad amarlo.

La sua famiglia, il suo corpo, il suo animo, tutto avrebbe gettato al vento, tutto metteva continuamente in pericolo, e tranciava, e trucidava, solo per lui, ed era un angelo, e non doveva provare certe emozioni, e ancora si stupiva come un bambino di fronte a quello sfarfallio e calore nello stomaco, il rossore delle guance, la sofferenza.

Guardava il muro bianco pensandoci, e inclinava la testa, lo sguardo leggermente accigliato, gli occhi che scrutavano il vuoto alla ricerca di una risposta a un avvenimento tanto assurdo, contro le leggi stesse dell’universo, come se lui fosse diverso, per volere di Dio o no, e restava li, fisso, per delle ore, nient’altro da fare, nient’altro di più meraviglioso a cui pensare.
 

Io sono come un pianoforte con un tasto rotto
L'accordo dissonante di un'orchestra di ubriachi
E giorno e notte si assomigliano
Nella poca luce che trafigge i vetri opachi
Me la faccio ancora sotto perché ho paura
Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura
Puzza di piscio e segatura 
 

Gli altri angeli lo credevano pazzo. L’umanità lo credeva pazzo, se cercava di raccontare la verità.

Salvavano il mondo, continuamente, ogni loro giornata una nuova battaglia in una guerra infinita contro forze oscure su cui non avevano potere.
Eppure erano sempre gli scarti, se visti nella loro vita quotidiana, quando a difenderli non c’erano abiti da agenti federali, e distintivi, e false identità che li proteggevano. Erano dei disadattati, tre uomini che giravano l’America in macchina soggiornando nei peggiori motel, tre uomini dai legami ambigui, malsani, troppo stretti, morbosi; uomini che ogni notte sceglievano una donna diversa eppure tornavano sempre nelle braccia l’uno dell’altro; che dormivano con pistole sotto i cuscini, che non potevano vedere un ombra senza pensare ci fosse qualcos’altro dietro. Occhi secchi per le troppe lacrime e tratti duri di un infanzia non vissuta, l’incapacità di una famiglia al di fuori di loro stessi, brama di una normalità che rifiutavano.

Potevano smettere tutto.

Sarebbero potuti andare a lavorare, trovare una ragazza, sposarsi, fare tanti marmocchi, morire in un letto caldo con le coperte, e invece no, non ci riuscivano nemmeno se volevano, era quello che pensavano di volere ma non quello di cui avevano bisogno, e soffrivano, e restavano in quella vita, ogni giorno un nuovo pericolo, ogni giorno una nuova minaccia, ogni giorno l’attesa di un riposo che non sarebbe mai arrivato.

E ora era lì, l’ennesima missione, l’ennesimo problema.

Tutti i giorni uguali, il tempo confuso, i luoghi tutti uguali, le finestre opache incapaci di dire cose ci fosse all’esterno, il freddo di un luogo asettico che lo mangiava da dentro, domande senza risposta che si susseguivano in moduli medici archiviati, tutto lui archiviato, tutta la sua vita e storia in stretti fascicoli conservati chissà dove.

Aspettava.

Aveva cercato di fuggire, ma era debole, e solo al bunker avrebbe potuto riprendersi, ma non ci riusciva ad arrivare, e forse con tutte le sue forse, se solo Dio, Chuck, si degnasse di aiutarli, una volta, una volta fare il padre, aiutarlo a tornare ad aiutare i Winchester, ci sarebbe potuto riuscire.
Un aiuto, una mano, qualcuno che lo sollevasse dall’oscurità.
 

I matti sono apostoli di un Dio che non li vuole
 

Ma era solo, solo con se stesso.

La mia patologia è che son rimasto solo
 

In attesa.
Si strinse ancora più su se stesso nel lettino della stanza bianca dove era stato posato
Ogni giorno più sofferente.

Era un caso così semplice all’apparenza, che eppure li aveva tenuti lì dentro di più, troppo. 

Erano stati portati lì da un amico dei fratelli, un vecchio cacciatore che aveva conosciuto Bobby, qualcuno di cui fidarsi, un età che non gli permetteva più di risolvere i casi da solo.

Li aveva chiamati per una serie di omicidi sospetti, nell’ospedale psichiatrico del luogo.

E si erano infiltrati come al solito, avevano raccontato la verità ed erano stati presi per pazzi, pazzi che cercano di salvare un mondo già condannato, pazzi che mettono la loro vita a rischio ogni giorno per un umanità che non li vede.

La pazzia era il pericolo o loro che lo affrontavano?

Forse erano davvero pazzi. No, No, loro erano sani, erano buoni. Dean e Sam erano perfetti, non potevano essere altrimenti.

Ma il mondo non poteva capirlo.

Questa è malattia mentale e non esiste cura
 

Dicevano la verità e ottenevano pillole, nella notte alla ricerca di qualcosa, di giorno pazzi che si scambiano informazioni su quanto scoperto nei loro vaneggiamenti mentali.

E continuava così, il mostro non veniva fuori, le morti continuavano, e non sapevano che fare.

E restavano solo loro, e uno di loro doveva essere la prossima vittima, e si organizzarono, e non erano abbastanza armi, e ci fu uno scontro, e ci fu sangue, e ci fu una scelta, si, una scelta, e c’era lui, e c’era Sam, e c’era Dean, e c’era lui, solo, e il mostro che ancora gli fischiava nelle orecchie, peggio di uno spettro, peggio di ogni mostro incontrato fino a quel momento, qualcosa che non sapevano combattere, qualcosa di nuovo, e pensavano l’ora fosse venuta, e c’erano ringhi, e c’erano urla, e c’era lui, solo.
 

La mia patologia è che son rimasto solo
 

Si erano amati, lui e Dean, in quel periodo.

Come dei pazzi, come persone che trovavano la sanità solo nell’altro.

Forse era il luogo, forse l’odore di morte che impregnava ogni anfratto di quel luogo maledetto, forse l’incertezza di loro stessi in quel covo di folli e la sicurezza negli occhi dell’altro, ma avevano ceduto, tutti i dubbi e limiti autoimposti, imprigionati in quel posto, luogo lontano dagli occhi di umani e angeli e demoni.

Si erano spinti l’uno nell’altro, contro i muri sporchi, nei bagni lerci abbandonati, nei letti arrugginiti, le loro bocche affamate, i loro cuori gonfi, gli occhi chiusi per non vedere la verità.

Ognuno credeva che l’altro fosse troppo per meritarsi quel posto, ognuno a ficcare più a fondo unghie e denti nell’altro, a nutrirsi di lacrime salate e sospiri maltenuti.

Si erano amati da far male, da far piangere il cuore, da far stillare sangue da piccole ferite; si erano amati in un incontro di occhi, in una stretta di mano, in un abbraccio; si erano ammalati di questo contro il volere dei medici, separati e sempre riuniti, sempre legati.

Si erano promessi una vita assieme, dopo, nella follia del momento, e lui ci credeva davvero, e voleva arrivarci, e aveva chiesto di scappare alla svelta, di finire veloci quello per cui erano lì, e forse avevano spinto troppo le cose, e non ricordava niente se non Dean, e il suo sorriso, e i suoi occhi.
Non doveva essere lì lui.
 

Eri come un angelo legato ad un termosifone
 

E non c’era più per fortuna, era solo ma sapeva che Dean non era lì, ed era giusto, ed era bello.

Non lo avrebbe dimenticato, mai.

Era Dean, il suo Dean.
Si alzò di scatto
 
Era l’uomo giusto, colui per cui aveva sacrificato tutto, colui che amava.

E il mostro poteva sussurrargli nelle orecchie quanto voleva, tutte le creature demoniache schierarsi contro di lui, o quel posto cercare di farlo dimenticare iniettandogli e facendogli ingoiare medicinali e pasticche e farlo impazzire, ma lui si sarebbe aggrappato al suo ricordo, e lo avrebbe amato in sogno, ad occhi chiusi, e le sue labbra screpolate avrebbero aperto un sorriso tirandosi dolorosamente e aprendo piccole increspature sanguinanti, smuovendo la pelle squamata dal freddo, e le sue mani tremanti, pelle tesa come carta velina su ossa secche, avrebbero continuato a scrivere il suo nome, sui muri, sulle finestre appannate dal freddo o impolverate dal tempo, e avrebbe disegnato i suoi tratti nell’aria coi polpastrelli, e lo avrebbe inseguito continuamente, piangendo, mentre fuori c’era il sole, mentre fuori pioveva e l’acqua fredda si infiltrava dal soffitto in rigagnoli che scorrevano lungo i muri cadendo sulla sua nuca in un freddo ticchettio, mentre il mondo fuori continuava a girare e lui veniva legato se in uno scatto cercava di scappare grattando il vecchio intonaco, sempre lo avrebbe ricordato, sempre.
 

Dei miei ricordi sarai l'ultimo a sfumare
 

Non lo aveva tradito, lo sapeva, non poteva averlo fatto.
Grattò sulla porta febbrile.

L’avrebbe preso, e ritrovato.
Era là fuori e cercava un modo di salvarlo, lo faceva sempre. Doveva venirgli incontro, doveva cercare di arrivare da lui prima che si mettesse in pericolo inutilmente, non doveva permettergli di farlo mettere in pericolo, non doveva soffrire ancora.
 

Nonostante tutto io ti aspetto ancora
E se chiudo gli occhi sento la tua mano che mi sfiora
 

E forse questa volta ce l’avrebbe fatta, forse questa volta era quella giusta per andare via, fuggire, riunirsi a lui.

La serratura si aprì in uno scatto metallico, la porta ora aperta.

Le scapole ancora facevano male, le ossa tutte spezzate cigolanti per il freddo, le occhiaie profonde e le rughe sempre più marcate si pitturavano attorno al suo sguardo stanco brillante della determinazione di un condannato a morte.
Una nuova sicurezza cercava di risanare le ferite, un soffio di grazia che scorreva nelle sue mani e nelle sue vene, il dolore che lo spingeva lontano, lungo i corridoi, attraverso la stanza, lontano, lontano, fin dove sarebbe riuscito ad arrivare, ed era stanco, ed aveva freddo, ma sentiva le sue ali, ferite, distrutte, frementi per partire, sanguinanti, spezzate, forti di disperazione, e si tendeva, lacci che si spezzavano, fibbie che si aprivano in due, e si liberava dagli infermieri, e si scusava lanciando loro sguardi distrutti e lucidi, non voleva fare loro del male, ma il mostro lo seguiva, doveva riprendere le forze, tornare a casa.
Corse sulle scale, in fretta, sempre più in fretta.
 

I matti siamo noi quando nessuno ci capisce
Quando pure il tuo migliore amico ti tradisce
E ti stupisci che io provi ancora un'emozione?
 

Sorprenditi di nuovo perché ancora so volare
 
 
 



Angolo autrice:

Stavo riascoltando le tre canzoni dell’unica playlist il mio pulmino delle elementari abbia mai avuto, in pieno momento nostalgia. E quando è partita “ti regalerò una rosa” è venuta fuori sta cosa molto angst e strana.
Ho volutamente cercato di mantener il tutto il più ambiguo possibile, in modo che non fosse chiaro se evidentemente si tratti di pazzia, se ci sia in effetti un mostro, che fine abbia fatto Dean, se anche sia mai esistito, dove sia Castiel e quando.
Perché sì, mi voglio male e i viaggi in tram mi mettono depressione.
E poi se Castiel non soffre in modo disperato non siamo su Supernatural, ormai è risaputo.
Le frasi in corsivo sono versi tratti direttamente dalla canzone, che amo molto nella sua tristezza (t.t), tranne l’ultima che ho leggermente modificato per farla stare meglio col testo.
  
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