Capitolo 11
L'ottimismo
che avevo cercato di infondere a me stessa e a
Daryl, sembrò avermi abbandonata la mattina successiva,
quando mi svegliai.
Anzi, alzai la testa dal cuscino con un opprimente senso di angoscia
che mi
attanagliava le viscere. Mi sedetti sul bordo del letto non appena
uscita dalle
coperte, fissando il panorama fuori dalla finestra con una brutta
sensazione
addosso. Scossi la testa, cercando di scacciare quel malessere e mi
alzai,
tenendomi impegnata con la solita routine mattutina.
Dopo
colazione, uscii di casa per recarmi a casa di Maggie: ero ancora
intenzionata
ad aiutarla a parlare con gli abitanti di Alexandria, per convincerli
che Rick
non si meritava l’esilio.
Rick.
Chissà se si è ripreso,
pensai.
Anche se non lo esplicitò, sapevo che quella frase aveva un
seguito: per oggi. E per stasera.
Era la prima
occasione, dal giorno prima, che mi si presentava per parlare con
Maggie di ciò
che era successo con Rick; quindi, puntai sulla sincerità.
«Già»,
commentai e mi sentii abbastanza stupida.
Maggie
sospirò. «Ho detto che sarei andata a parlare con
gli abitanti, ma non
so quanto servirà».
Abbassai
lo sguardo, calciando via un sasso con la
punta dello scarpone, mentre continuavamo a camminare in silenzio. Non
capii se
fosse frutto del mio cervello, ma mi sembrò di respirare
un’aria diversa,
quella mattina. Come se tutta la tensione esplosa il giorno prima
avesse
contaminato l’aria attorno a noi; c’era
un’atmosfera strana, di attesa. Era
tutto uguale, ma incredibilmente diverso.
«Dobbiamo
parlare con Deanna, prima di tutto».
Mia
sorella mi diede una gomitata. «Secondo te non
stiamo andando da lei? Sto solo allungando il giro perché
sto pensando a cosa
dirle di convincente».
Realizzai
solo in quel momento che avevamo iniziato a
camminare senza meta, assorta com’ero. Ridacchiai, scuotendo
la testa. «Non
arriveremo più, allora».
Maggie
si rabbuiò, così mi affrettai a rassicurarla.
«Sto
solo scherzando, Mags. Pensa un po’ le coincidenze, io e
Deanna stavamo proprio
parlando di Pete e Rick, quando ieri è successo quel
casino».
Lei
annuì. «Diciamo che, per alcuni di noi, non
è
stata una sorpresa».
«Esatto.
Ho solo… paura
di scoprire come la pensa adesso. Già ieri era preoccupata
per l’impazienza di
Rick e lo sai che ci serve il suo appoggio, per farlo restare. A questo
punto,
però, non sono più sicura di niente».
Maggie
si fermò e mi appoggiò una mano sulla spalla
per incoraggiarmi. «Riusciremo a convincerla. Lo sa anche lei
che Alexandria ha
bisogno di noi».
Mi
rabbuiai, pensando che il giorno prima ero stata io
a infondere coraggio agli altri, mentre quella mattina mi riusciva
più
difficile del solito. Non dovevo lasciarmi abbattere dagli eventi, era
sempre
stata quella la mia filosofia. Ma le tensioni tra la mia famiglia e le
persone
che mi avevano accolta quando io e Noah eravamo rimasti soli, si
riflettevano
in me come uno specchio e mi facevano sentire divisa a metà.
Arrivammo
a casa di Deanna e ci accolse Reg, facendoci
attendere in soggiorno mentre la cercava. Notai che mia sorella fissava
fuori
dalla finestra con sguardo torvo. Quando mi sporsi per vedere, capii il
perché:
fuori c’era Padre Gabriel. Mia sorella aveva sentito per
sbaglio una
conversazione tra il prete e Deanna, che veniva avvertita del fatto che
fossimo
pericolosi e che non ci si dovesse fidare di noi. Da allora lo avevamo
guardato
con sospetto; in realtà, mi amareggiava che un uomo di fede
potesse essere così
meschino con persone che lo avevano salvato.
Reg
ci invitò fuori, in veranda, dove ci attendeva
Deanna. Non appena uscimmo, parlò, saltando qualsiasi
convenevole. Non l’avevo
mai vista così seria.
«Di
che cosa mi dovete parlare?».
Maggie
prese da subito in mano il comando della
conversazione. Forse mi aveva visto troppo turbata, per permettermi di
mediare
ancora una volta. «Della riunione di stasera».
«Maggie,
se potessimo discutere–», intervenne Reg, che
venne subito interrotto da Deanna.
«Voglio
parare con tutti di quello che è successo e di
che cosa dobbiamo fare».
Mia
sorella mantenne un’espressione ferma. «Se questo
prevede cacciare Rick, non funzionerà».
«Dimmi
che cosa intendi», rispose la donna, alzando un
sopracciglio.
«Lo
hai lasciato entrare, come hai fatto con tutti
noi. Hai parlato con noi, hai deciso. E ora vuoi affidare questa
decisione a
della gente spaventata che non conosce l’intera
storia», continuò mia sorella,
poi fece una pausa, prima di parlare di nuovo. «Non
è da leader».
Deanna
aveva ascoltato tutto senza fiatare, lo sguardo
che gravitava da me a Maggie, indecifrabile. Reg intervenne nuovamente
e cercò
di tranquillizzarci, dicendo che, quello previsto per quella sera, era
solo un
incontro per raccogliere le opinioni di tutti.
«Ed
io prenderò la decisione finale, come ho sempre
fatto», concluse Deanna, scrollando le spalle.
Ci
avevo visto giusto, quindi.
«Era
solo frustrato. Ha visto tante cose, ha perso
tante cose. Tutti noi le abbiamo
perse».
Deanna
le rispose con la voce spezzata. «Anche noi
abbiamo perso tante cose».
Maggie
la osservò qualche istante, come me e Reg,
prima di parlare nuovamente e con sicurezza. «Noi ne abbiamo
perse di più».
A
quel punto, Deanna iniziò ad agitarsi. «Rick ha
puntato la pistola contro delle persone!».
Mia
sorella rimase impassibile. «Non ha premuto il
grilletto», le fece notare e io la guardai.
«E
ci basiamo su questo?!», esclamò la donna,
fissando
gli occhi nei miei, come a cercare un sostegno. Forse pensava che non
parlassi
perché, in realtà, ero d’accordo con
lei.
«Sì»,
risposi, per conto di Maggie.
«Beth,
tu dovresti sapere come funzionano le cose qui».
«So
anche come funzionano là fuori. E se lo sapeste
anche voi, Deanna, credimi che non sareste così sconvolti da
un uomo che punta
una pistola contro altre persone. Fuori dalle mura, questo non
è niente»,
risposi, cercando di non farmi sopraffare dalle emozioni.
«Là
fuori è là fuori, ma qui dentro cerchiamo di
mantenere una certa civiltà. Chi vive qui deve sentirsi al
sicuro, non uscire
di casa e vedersi minacciato con una pistola».
«Per
Rick la sicurezza è la cosa più importante. Era
solo frustrato», ribattei, accorata, riprendendo le parole di
mia sorella.
Avanzi verso Deanna e le presi le mani tra le mie.
«C’è bisogno di Rick, qua.
Lo sappiamo noi come lo sai tu. Se non vuoi fidarti di Maggie, o di
chiunque
sia qui da poco tempo, almeno fidati di me. Per favore».
Deanna
mi osservò per qualche istante, l’espressione
contrita e gli occhi che facevano da specchio per il suo conflitto
interiore.
Erano successe tante cose in poco tempo e ne era stata sopraffatta, lo
vedevo.
Abbassò
lo sguardo. «Beh… farò quello che devo
fare»,
mormorò a voce spenta. Si divincolò dalla mia
presa senza energia e ci voltò le
spalle, tornando a fare quello che stava facendo prima che arrivassimo.
Udii
mia sorella, dietro di me, sbottare di
frustrazione, e la vidi scendere le scale come un fulmine e per
andarsene.
Prima che potessi raggiungerla, quando ormai ero sull’ultimo
scalino, Reg mi
afferrò per un braccio. Mi voltai.
«Beth,
le parlerò. Parlerò con tutti, questa sera.
Dobbiamo
smetterla di scappare e iniziare a vivere tutti insieme, se vogliamo
“mantenere
una certa civiltà”», mi
rassicurò, citando ciò che aveva detto sua moglie.
Gli
sorrisi. Reg era un brav’uomo e in quel momento mi
tornarono in mente tutte le volte che lo avevo visto progettare
qualcosa
assieme a Noah. Vedere come il mio migliore amico pendeva dalle sue
labbra mi
aveva sempre fatta divertire, ma Reg era davvero una persona saggia.
Sperai che
le sue parole servissero a dare manforte alla nostra causa.
«Grazie»,
risposi, prima di voltarmi e raggiungere mia
sorella.
Il
dissidio avuto con Deanna non ci scoraggiò
minimamente. Impiegammo tutta la mattina per parlare con più
abitanti di
Alexandria possibili. Notai molta incertezza sui loro volti, confusione
e
paura; non potevo certo biasimarli, ma speravo che la mia parola
potesse
contare qualcosa, per loro. Dopotutto, mi conoscevano da prima che
arrivassero
i “nuovi, spaventosi individui” salvati da Aaron.
Seppur diffidenti, le uniche
persone dalle quali ricevetti apertamente supporto furono Josie e
Samantha, mie
colleghe. Anzi, Josie aveva sorvolato di cuore sul comportamento di
Rick,
gioendo con ferocia delle botte inferte a Pete e del suo successivo
isolamento
in un’altra casa.
«È
forte l’infermiera», disse Maggie con le mani in
tasca, mentre tornavamo a casa sua.
Ridacchiai,
ripensando alla risposta accorata di
Josie. «Chissà da quanto aspettava che qualcuno
rimettesse Pete al suo posto».
Mia
sorella sorrise, ma non disse nulla. La vedevo
pensierosa: sicuramente, si stava interrogando sull’esito del
nostro giro di
persuasione, se così si poteva chiamare. Camminammo per un
po’ in silenzio, poi
Maggie parlò di nuovo.
«Non
ho visto Daryl, in giro».
«Credo
che sia uscito stamattina. Per cambiare un po’
aria, sai».
Lei
sospirò, afflosciando le spalle. «Lo capisco, lo
farei anche io se potessi».
Sorrisi
tra me e me, contenta che Daryl potesse stare,
anche solo per qualche ora, lontano da quell’atmosfera
così opprimente. Era la
prima volta che provavo un vago senso di soffocamento, dentro quelle
mura. Se
avessi potuto, come Maggie, sarei scappata fuori dal cancello in quello
stesso
momento e sarei rimasta fuori con Daryl finché le acque non
si fossero calmate.
Solo io e lui, come era successo dopo la distruzione della prigione;
come gli
allenamenti all’alba del mese precedente. E invece sarei
rimasta dentro,
continuando col mio disperato tentativo di fare da cerniera[1]
tra
due
mondi che, in quel momento, sembravano quasi inconciliabili.
~
L’assemblea
si sarebbe svolta nel cortile sul retro
della casa di Deanna; attorno al piccolo fuoco che era stato acceso per
scaldarci in quella fredda serata autunnale, c’erano gli
abitanti di Alexandra
da un lato e la mia famiglia dall’altro. Io mi trovavo
esattamente in mezzo e,
opposti a me, si erano sistemati Reg e Deanna. Maggie, di fianco a me,
continuava a lanciare occhiate ansiose all’ingresso del
cortile. «Dov’è finito
Glenn?».
Nel
suo sussurro avvertii tutta l’angoscia dovuta al
fatto che non lo vedeva da quella mattina e non potei biasimarla;
nemmeno Daryl
si era fatto vedere. In realtà, non erano gli unici ad
essere assenti:
mancavano Rick, Pete, Nicholas e Padre Gabriel.
Deanna,
con fermezza, sentenziò che l’assemblea
sarebbe iniziata ugualmente anche senza i due
“protagonisti” principali. Chi
aveva qualcosa da dire, poteva già iniziare a farsi avanti.
Fu come una specie
di strana coreografia parlata, in cui si alternavano le opinioni degli
abitanti
di Alexandria e le “nostre”, anche se, per quel che
mi riguardava, la divisione
non era poi così netta. Mi sentivo perfettamente in mezzo
alle due parti.
Vennero
espressi dubbi, più o meno blandi,
sull’affidabilità di Rick; da qualcuno venne
espressa la paura che, un giorno,
il nostro leader avrebbe potuto di nuovo perdere la testa e uccidere
senza
farsi troppi scrupoli. Ci fu anche chi gli diede ragione –
Josie, con Jessie
sottobraccio – affermando che Pete era pericoloso e che era
ora che qualcuno lo
rimettesse al suo posto.
Chi
conosceva Rick da ben prima, non mancò di
difenderlo con vigore: prima Michonne, poi Carol, Abraham, Maggie e
altri di
noi si alternarono per convincere i dubbiosi che la scelta migliore per
tutti
era che Rick rimanesse lì.
Mi
lasciarono il tempo di riflettere su cosa dire, come
fossi una mediatrice tra i due gruppi: nessun altro aveva vissuto
abbastanza
tempo con entrambi come me. Quando fu il mio momento di parlare, mi
sentii un
po’ nervosa; di certo, non era come cantare davanti a un
pubblico. Dovevo
scegliere le parole giuste, anche se molte cose che avrei voluto
esprimere
erano già state dette da mia sorella e dagli altri.
Feci
un respiro profondo e parlai.
«Io,
come mia sorella, come Rick, ne abbiamo passate
tante. Siamo cambiati, siamo dovuti
cambiare, per sopravvivere. Quell’uomo ha avuto il coraggio
di sobbarcarsi del
difficile incarico di leader, per permettere a tutti noi di andare
avanti e
proteggerci, dagli uomini e dai vaganti. So che i suoi modi possono
apparire
poco ortodossi, ma è grazie a questi se io posso essere qua
con voi, in questo
momento, a parlarne. È grazie a questi se io sono arrivata
fino a qui e sono
stata salvata assieme a… a Noah – feci una pausa
per ricacciare indietro le
lacrime – Abbiate fiducia in me, se ancora non riuscite ad
averla in chi è
arrivato per ultimo qua dentro. Avete bisogno di Rick, come Rick ha
bisogno di
questo posto, solo che ancora non lo sapete, come non lo sa lui.
Dobbiamo solo…
restare uniti».
Dopo
il mio intervento, seguì qualche istante di silenzio,
attenuato dallo scoppiettare delle braci di quel piccolo
falò. Sperai che,
nonostante quel silenzio, ciò che avevo voluto dire fosse
arrivato. Che chi mi
aveva ascoltata avesse capito.
Dato
che nessuno ebbe nulla da aggiungere, Deanna
riprese la parola e fece sapere – in
nome
della trasparenza – ciò che le aveva
riferito Padre Gabriel, aggiungendo
poi che ciò che aveva fatto Rick ne fosse la conferma;
strinsi i pugni, mentre
avvertivo un’ondata di rabbia invadermi. Dovevo stare calma.
«Io
speravo che Gabriel fosse qui, stasera», concluse,
facendosi nuovamente da parte.
«Io
non lo vedo, Deanna. Stai riferendo ciò che ha
detto qualcun altro», le fece notare Jessie.
«L’hai registrato?».
«Non
è qui», intervenne Maggie.
«Nemmeno
Rick», replicò Deanna con durezza.
Mia
sorella la fissò per qualche istante con la stessa
durezza nello sguardo; poi si congedò con un
«scusatemi» e se ne andò. Mi venne
spontaneo seguirla ma mi bloccai, ricordandomi che il mio compito era
rimanere
lì a difendere Rick.
Tutti
hanno
un compito.
Dopo
un iniziale momento di imbarazzo, decise di
prendere la parola Tobin, uno degli abitanti originari di Alexandria.
Stava
portando avanti il suo intervento incerto quando lo vidi bloccarsi e
fissare un
punto davanti a sé con aria sorpresa. Seguii il suo sguardo,
come fecero tutti:
all’ingresso del cortile di Deanna era apparso Rick, sporco
di sangue in volto
e con un corpo issato sulla sua spalla destra. Per un millesimo di
secondo,
ebbi il terrore che le gambe che penzolavano addosso a lui fossero di
Pete.
Rick
mi smentì – ci smentì tutti
probabilmente,
buttando per terra ciò che si rivelò essere il
cadavere di un vagante. «Non
c’erano sorveglianti davanti al cancello. Era
aperto!», proferì, con tono
concitato e aggressivo.
Vidi
Deanna chiedere spiegazioni a Spencer con un solo
sguardo.
«Avevo
chiesto a Gabriel di chiuderlo», si giustificò
il ragazzo.
«Vai!»,
gli ordinò Deanna, con espressione grave.
Rick
si fece avanti, avvicinandosi al fuoco. «Non l’ho
portato dentro io. È arrivato qui dentro
da solo», sottolineò. Poi, si
voltò verso Deanna e Reg, che lo osservavano interdetti
vicino al muretto. «Entreranno sempre, i morti e i vivi,
perché noi siamo qui e
la gente là fuori ci darà la caccia e ci
troverà. Proverà a usarci, proverà ad
ucciderci, ma noi uccideremo loro. Noi sopravvivremo: vi
mostrerò come».
Mentre
parlava, Rick si guardò intorno, incontrando
uno per uno lo sguardo degli altri abitanti di Alexandria; quando
incrociai i
suoi occhi chiari – che risaltavano in contrasto con il rosso
che gli
imbrattava il volto - sentii qualcosa smuoversi nel mio stomaco. Era la
consapevolezza che ciò che stava dicendo fosse vero e sperai
che quella presa
di coscienza scattasse anche in quelle persone che lo stavano guardando con
timore.
Guardai Deanna, che era sempre più scura in volto; forse,
stava iniziando a
rendersi conto che affidarsi a Rick fosse l’unica cosa che
Alexandria potesse
fare per salvarsi dal mondo esterno.
«Sapete,
stavo pensando…», Rick si grattò una
tempia
col dito e assunse un’espressione quasi neutra.
«Stavo pensando a quanti di voi
dovrò uccidere per salvarvi la vita».
Mi
sentii gelare, mentre incrociavo lo sguardo di
disappunto di Carol, come se fossimo entrambe d’accordo sul
fatto che quella
frase se la sarebbe potuta risparmiare. Non era certo una cosa da dire
a un
gruppo di persone spaventate e che stava discutendo del suo esilio.
«Ma
non c’è bisogno che io lo faccia: voi
cambierete»»,
aggiunse, con un tono di voce più… conciliante?
Poi, si rivolse direttamente a
Deanna. «Non mi pento di quello che ho detto ieri sera: mi
pento di non averlo
detto prima. Non siete pronti, ma dovete esserlo. Adesso
dovete esserlo… La fortuna vi
abbandonerà».
Le
sue parole riempirono il silenzio e continuarono a
galleggiare tra noi presenti, come l’eco di qualcosa che
spaventava, ma che
andava affrontato per non rischiare la distruzione. E poi lo vidi: il
volto
pieno di cerotti e l’espressione deformata da una rabbia
folle. Pete.
«Non
sei uno di noi», proferì, dando il tempo a tutti
e a Rick per voltarsi verso di lui. «Non sei uno di
noi!», ripeté con un grido.
Quando alzò le braccia in un gesto di frustrazione, mi
accorsi che aveva in
mano una katana. Un terrore improvviso mi arpionò allo
stomaco, mentre la paura
si faceva largo anche tra i presenti. Solo Rick rimase impassibile.
Reg
gli andò incontro, cercando di calmarlo, mentre
Deanna chiamava il nome di suo marito per avvertirlo di non stare
troppo vicino
a quel folle armato. Rick fissava Pete con uno sguardo di ghiaccio, la
mano
pronta sulla fondina della pistola. Sentii il cuore balzarmi in gola.
E
poi accadde. Quel momento di confusione, di
concitazione, raggiunse l’apice ed esplose il caos. Successe
talmente
velocemente che il tempo sembrò scorrere a rilento: Reg che
cerca di bloccare
Pete, Pete che, per liberarsi da quella presa indesiderata, lo spinge
via con
vigore. La katana stretta nella mano sbagliata che taglia la gola a Reg
con un
colpo solo; lo schizzo di sangue e il corpo dell’uomo che si
tende
all’improvviso; poi l’urlo di Deanna.
Le
orecchie presero a fischiarmi, ma le mie gambe
scattarono verso Deanna, che continuava ad urlare disperata mentre
accompagnava
Reg che si accasciava per terra. La mano che si era portato alla gola
tremava
furiosamente, ma non era nulla in confronto ai gorgoglii che emetteva
mentre
soffocava a causa del suo stesso sangue.
Mi
inginocchiai di fronte a loro, disperata, mentre
cercavo di scacciare l’immagine di mio padre che veniva
decapitato dal
Governatore. Mi accorsi che anche Josie era accanto a me,
così le sfilai il
foulard senza neanche chiederglielo e, tra le lacrime, provai a
tamponare con
urgenza il macabro sorriso che Pete aveva aperto sulla gola di Reg, dal
quale
continuava a zampillare sangue. Lo sapevo che non sarebbe servito a
nulla, eppure
non potei fermarmi, non con Deanna che continuava a gridare e piangere
dalla
disperazione. Il cuore mi batteva furiosamente nelle orecchie e il
respiro
quasi mi si bloccò in gola.
«Reg,
resta qui, resta qui», sussurrai, continuando a
premere la stoffa sul suo collo.
Sentii
la mano di Josie posarsi sulla mia spalla. «Beth»,
disse soltanto. È finita, non
c’è più
niente da fare. Come
conferma a
ciò che la mia collega aveva omesso, sentii sul dorso della
mia mano l’ultimo
respiro che Reg esalò, prima che il suo sguardo si spegnesse
e la sua mano,
inerme, rimanesse a mezz’aria.
No,
non doveva andare così, non doveva andare così.
«Come
pensi
che andrà, domani?».
«O
male, o
di merda».
«Come
pensi
che andrà, domani?».
«Andrà
tutto
bene».
Sollevai
il foulard madido di sangue e lo lanciai da
qualche parte alla mia sinistra, come se avesse improvvisamente
iniziato a
scottare. Mi allontanai dal corpo di Reg e mi accasciai contro la
ringhiera
degli scalini, mentre mi arrivavano indistinte e ovattate le grida di
Pete, che
continuava a ripetere: «è lui! È colpa
sua!».
Con
la vista annebbiata dalle lacrime, vidi che
Abraham aveva atterrato quell’assassino e lo teneva fermo, la
guancia premuta
contro il terreno. Vidi Deanna che cercava lo sguardo di Rick come
fosse un’ancora
di salvezza. La pistola che Rick stringeva tra le mani era puntata su
Pete.
«Rick»,
mormorò la leader di Alexandria.
Un
secondo di silenzio, il più lungo, prima che la donna
parlasse di nuovo.
«Fallo»
e mi venne istintivo guardare altrove.
Un
colpo, il rumore assordante del bossolo che
tintinnava sul terreno, un silenzio ancora più assordante
che venne interrotto
da una voce sconosciuta, in quel momento sospeso.
«Rick?».
Nonostante
fossi sconvolta, riuscii ad alzare lo
sguardo sull’uomo che aveva appena parlato. Lo vidi
offuscato, ma la persona che
si trovava accanto a lui la misi a fuoco subito; era l’unica
della quale avessi
bisogno in quel momento. O in qualsiasi altro momento.
Il
suo nome si formò sulle mie labbra e uscì in un
sussurro inudibile.
Daryl.
Non
capii come, ma l’arciere sembrò udire il mio
mormorio, perché subito dopo il suo sguardo
incrociò il mio: la sua espressione
mutò come se avesse appena visto un fantasma. Probabilmente,
sconvolta com’ero,
assomigliavo davvero a un fantasma. Le lacrime non accennavano a
fermarsi,
mentre con la coda dell’occhio vedevo Josie che aiutava
Deanna ad alzarsi;
qualcuno aveva spostato il corpo di Reg dalla pozza di sangue che si
era creata.
Avevo
sbagliato tutto: non era andata bene, per
niente. Era andata di merda, come aveva previsto Daryl. Ci sarebbe
stato un
momento in cui avrei smesso di essere un’illusa? Alzai lo
sguardo appena in
tempo per vedere Daryl che si inginocchiava di fronte a me.
«Beth»,
mi chiamò, con gentilezza.
Mi
bastò osservare il suo volto per sentirmi un po’
meglio e annuire. Feci per alzare le mani e sfregarmi le guance per
asciugarle
dalle lacrime, ma con un gesto fulmineo Daryl mi afferrò per
i polsi e mi bloccò.
Lo guardai interrogativa, poi lo notai e ricordai: le mie mani erano
impregnate
del sangue di Reg.
«Aspetta»,
disse, lasciando la presa e facendo sparire
la mano dietro la schiena. Quando la riportò avanti,
stringeva il suo
fazzoletto nero. In un flash, mi ricordai di quando eravamo appena
scappati
dalla prigione e mi era stato prestato per raccogliere le bacche, per
noi e per
la nostra famiglia. Sentii un tuffo al cuore.
Scossi
la testa e strinsi gli occhi, ritirando le mani.
«Te lo sporcherò», mormorai, con la voce
rotta.
Lui
sbuffò. «Da’ qua»,
mormorò, poi mi riafferrò con gentilezza il
polso.
Con la mano coperta dal fazzoletto, massaggiò la mia per
pulire via il sangue;
con meticolosità, passò la stoffa sul palmo, sul
dorso, sulle dita. Poi, fece
lo stesso con l’altra; il suo tocco era piacevole e delicato
come una carezza,
il cui conforto mi si irradiò fino al cuore. Nel frattempo,
non riuscii a
scostare lo sguardo dal suo volto, celato in parte dai capelli che gli
ricadevano sulla fronte.
«Fatto»,
disse, lasciando le mie
mani. Ripose il fazzoletto nel taschino anteriore della camicia che
indossava.
«Se
me lo lasci te lo lavo».
Si
strinse nelle spalle. «Dopo lo butterò nel lago.
Forza, alzati», mi invitò, spostandosi di lato e
poggiandomi una mano sulla
schiena. Tornare in piedi fu come essere immersa nuovamente nella
realtà. Il
vociare indistinto si era affievolito appena: molti degli abitanti non
c’erano
più – sicuramente Rick doveva aver dato
l’ordine di tornare ognuno a casa
propria – così come i due cadaveri; forse era
stato Abraham a portarli via. In
piedi attorno al fuoco erano rimasti lo sceriffo, l’uomo a me
sconosciuto e
Carol. Poi, Deanna, che era seduta per terra, di fronte alla pozza di
sangue di
suo marito e fissava il vuoto.
La
guardai, piena di compassione, mentre Daryl si
rivolgeva a Rick. «Che diavolo è successo,
amico?», ma non ascoltai la
risposta.
Mi
avvicinai a Deanna, chinandomi accanto a lei.
«Deanna…».
«Ho
sbagliato tutto», mormorò, senza guardarmi. In
realtà, non ero nemmeno sicura che si stesse rivolgendo a
me. Sospirai, piena
di dispiacere. Avevo capito a cosa si riferiva, che ragionamento stava
facendo:
se avesse allontanato prima Pete, se avesse ascoltato prima Rick, Reg
sarebbe
stato ancora vivo. Lo avevo fatto anche io, con Noah. E sapevo che
l’unica cosa
da fare, fosse quella di lasciarle spazio, seppur con riluttanza. Le
strinsi la
spalla per un secondo, poi mi alzai e mi allontanai. Lanciai
un’occhiata alle
mie spalle, gli “adulti” che stavano discutendo
fittamente di strategie,
scelte, cose che in quel momento non avevo la minima voglia di sentire.
Volevo
solo tornare a casa e farmi una doccia, provare a dormire e affrontare
tutto il
giorno dopo.
Me
ne andai silenziosamente, lasciandomi alle spalle
quel luogo di morte. Dopo essermi allontanata di qualche metro dal
cortile di Deanna, sentii dei passi alle mie spalle: mi voltai,
allarmata – da
cosa, poi? – per tranquillizzarmi immediatamente quando capii
che era Daryl. Mi
fermai in mezzo alla strada, osservandolo mentre mi raggiungeva.
«Ehi»,
proferii, quando si fermò di fronte a me. Che
strana voce mi era uscita. Mi schiarii le corde vocali, prima di
continuare. «Stai
andando da qualche parte per conto di Rick?».
Lui
tergiversò qualche istante, torturando la tracolla
della balestra con le dita, issata sulla sua spalla destra.
«Uhm, no».
Rimasi
in silenzio, osservandolo perplessa, in attesa
che aggiungesse qualcosa. Abbassò lo sguardo:
sembrava… in imbarazzo? Cosa gli
prendeva?
Stavo
per parlare, quando Daryl alzò nuovamente lo
sguardo nel mio.
«Stai
bene?», domandò, in tono basso.
La
nostra bolla ci risucchiò nuovamente, quando capii
che non stavamo andando nella stessa direzione per motivi diversi, ma
lui mi
aveva raggiunta perché era preoccupato per me. Voleva
assicurarsi che stessi
bene. Appena realizzai, mi si riempirono gli occhi di lacrime, mentre
una
sensazione calorosa si diffuse nel mio petto.
Cercai
di sciogliere il nodo che avevo in gola. «Potrei
stare meglio», ammisi.
Lui
annuì, studiandomi per qualche momento. Le perle
azzurre che aveva al posto degli occhi mi intimidirono, per qualche
ragione,
così abbassai lo sguardo sul terreno, torturando la stoffa delle tasche
del mio
giaccone. Non volevo usare nuovamente Daryl come muro del pianto, o
sfogare con
lui il malumore per tutto quello che era successo.
L’aria
frusciò accanto a me, e mi accorsi che Daryl mi
aveva superato e si stava incamminando. «D-Dove
vai?», gli domandai, incerta.
Lui
si fermò, rispondendomi senza voltarsi. «Andiamo a
casa», disse, nascondendomi la sua espressione.
Una
sensazione confortante, come quella che avevo
provato poco prima, raggiunse ogni terminazione nervosa nel mio corpo.
Io stavo
male e lui era lì, con me, per starmi vicino. Senza nemmeno
il bisogno di
chiederglielo. Gli occhi mi si inumidirono di nuovo, ma, questa volta,
non per
la tristezza. Per il sollievo.
Ricacciai
le lacrime che minacciavano di uscire,
raggiungendolo con uno scatto frettoloso. Daryl si assicurò
che fossi al suo
fianco, prima di riprendere a camminare, in silenzio. Il cuore
iniziò a
battermi forte, quando, con timidezza, allungai la mano verso la sua e
la
sfiorai. Avvertii il tremore che gli scosse la mano, ma non si
tirò indietro,
nemmeno quando intrecciai le mie dita con le sue. La sua mano era
calda, ruvida
e accogliente come mi era sembrata davanti a quella lapide, nel
giardino della
casa funeraria. Come mi era sembrata quando Daryl era stato con me una
notte
intera, mentre sfogavo il mio cordoglio per la morte di Noah.
Come
in un tacito accordo, ci dirigemmo verso casa
mia, raggiungendola dopo qualche minuto. Sulla porta di casa, mentre la
aprivo,
lo guardai con una domanda nello sguardo: mi seguì dentro,
senza lasciare la mia
mano. Chiuse la porta e mi guidò verso il salotto buio,
invitandomi a sedermi
sul divano. Lasciò la mia mano per appoggiare la balestra
contro il tavolino,
sul quale appoggiò il fazzoletto che aveva usato per pulirmi
le mani.
Scattai
in piedi. «Te lo lavo subito». Cercò di
protestare, il volto corrucciato visibile nella penombra, ma lo fermai.
«Per
favore», dissi, guardandolo negli occhi, mentre prendevo quel
pezzo di stoffa
imbrattato dal tavolino. Non so cosa intravide nella mia espressione,
ma mi
lasciò andare. Gli sorrisi per ringraziarlo.
«Torno subito».
Mi
recai piuttosto velocemente in bagno, accendendo la
luce – che, per qualche secondo, mi infastidì
– e presi la bacinella che tenevo
sotto il lavandino. Immersi il fazzoletto nell’acqua calda,
cercando di
ignorare i residui di sangue che rilasciò a contatto con
l’acqua. Aggiunsi il
detersivo e il disinfettante, usandoli per lavarmi bene le mani sotto
il getto
caldo, mentre la bacinella si riempiva. Diedi un’occhiata
alla mia immagine
riflessa, il mio viso emaciato che mi restituiva lo sguardo, fissandomi
con
occhi gonfi e arrossati. Decisi di darmi una rinfrescata anche al viso
e
sistemare la coda che, nel trambusto generale, si era disfatta. Chiusi
il
rubinetto e lasciai il fazzoletto ammollo, ritornando in salotto.
«Mi
sono lavata le mani, nel frattempo. Vuoi?», gli
domandai, indicando alle mie spalle con il pollice. Daryl mi aveva
aspettata in
piedi, tra il divano e il tavolino e lo trovai buffo, nel suo sentirsi
ospite.
«Mh»,
mugugnò, superandomi e raggiungendo il bagno.
Mentre
lo aspettavo, mi tolsi gli scarponi e mi
accoccolai contro lo schienale morbido del divano, raccogliendo le
ginocchia al
petto. Non so se fosse il frutto di tutto quello che era accaduto, ma
sentivo
che tra me e Daryl c’era qualcosa di diverso. Forse lo vedevo
più rilassato e
aperto nei miei confronti? Forse cercava di starmi vicino come poteva,
perché
doveva avermi vista molto scossa, a casa di Deanna. E, beh, la ero.
Quando
tornò, si sedette accanto a me, sul bordo del
divano e gli avambracci appoggiati alle cosce, sporto in avanti.
«Puoi
metterti più comodo, se vuoi», gli suggerii. Mi
sentii un po’
stupida.
Daryl
mi lanciò un’occhiata di sottecchi e
rizzò le spalle, impacciato,
appoggiando lentamente la schiena contro lo schienale e i palmi sulle
cosce.
Mascherai la risata che mi uscì spontanea con un colpo di
tosse. Rimanemmo in
silenzio per qualche istante, immersi nella penombra del soggiorno.
«Stai
meglio? Rispetto a prima, intendo», domandò
all’improvviso, cogliendomi di sorpresa. Era la seconda
volta, in una sola
serata, che me lo chiedeva. Non era da lui.
«Io…
più o meno. Dovevo solo allontanarmi da tutto
quel trambusto. Perché me lo chiedi?», domandai,
con cautela. Non volevo che si
mettesse sulla difensiva.
Si
strinse nelle spalle, con fare indifferente.
«Così.
Ti vedo strana».
La
sua risposta mi incuriosì. «In che
senso?».
Daryl
mi lanciò un’occhiata indecifrabile, per poi
guardare subito altrove. «Niente, lascia stare».
Lo
guardai, incurvando le labbra in un mezzo sorriso. «Sai,
penso di aver capito. Sono più silenziosa del solito, vero?
Almeno con te». Si
girò nuovamente a osservarmi, ma non mi smentì,
così continuai. «Beh, il fatto
è che non voglio usarti come muro del pianto e delle
lamentele come faccio di
solito», ammisi.
«Tu
parla, poi quando mi stanco posso sempre far finta
di ascoltarti», replicò, con finto tono burbero.
«Perché,
non lo fai sempre?», scherzai. Poi abbassai
lo sguardo, giocando con un filo sfuggito alle cuciture della manica
della
camicia. «Comunque, non saprei nemmeno cosa dire. Ho un tale
caos in testa, in
questo momento… Sono incazzata e delusa, delusa da come sono
andate le cose.
Delusa perché, ancora una volta, mi sono comportata come una
che vive nel mondo
delle fiabe. Che stupida – risi, amaramente – ero
convinta che la riunione di
stasera potesse risolvere tutto. Invece è finita con due
persone uccise».
«Certe
situazioni possono solo degenerare», commentò
Daryl.
«Sì,
ma… non l’ho mai preso in considerazione, quello
scenario. Ancora non ho imparato che bisogna sempre essere pronti al
peggio.
Ricordarsi che esiste quella possibilità che le cose
potrebbero andare male»,
mormorai, stringendo le braccia al petto. «Ieri sera, quando
ti ho detto che
sarebbe andato tutto bene, ne ero fermamente convinta. Non esisteva
un’altra
alternativa per me».
«Beh,
è il tuo ruolo, quello di sperare».
Sorrisi,
triste. «Sto iniziando a pensare che non sia
poi così positivo, come modo di pensare. Tutte le volte che
poi mi scontro con
la realtà è come ricevere un pugno nello stomaco.
Forse non sono ottimista,
sono semplicemente stupida».
«Non
dire stronzate», sbuffò Daryl. «Tanto
non si sa
un cazzo del futuro comunque, meglio essere positivi
nell’attesa che le cose
succedano, no? Belle o brutte che siano».
Il
suo incoraggiamento, brusco ma sincero, mi fece
sussultare. Mi voltai a guardarlo, senza riuscire a nascondere la
meraviglia.
Era sempre così incoraggiante, confrontarsi con lui, anche
se amava
interpretare il ruolo di persona burbera e indifferente. Quando non lo
era
affatto. Sentii gli occhi pizzicarmi, commossa
dall’abilità di Daryl di trovare
sempre le cose giuste da dirmi per farmi forza.
Abbassai
lo sguardo sulla sua mano e gliela strinsi, sbilanciandomi
verso di lui e accoccolandomi contro il suo corpo caldo.
«Grazie,
Daryl», sussurrai, la voce spezzata. Ma il
cuore era pieno di sollievo.
La
cosa che mi soprese fu che non si irrigidì, quando
mi appoggiai contro di lui: non riuscii a capire se fosse
perché se l’aspettava
– vista la piega che avevano preso le cose – o
perché, forse, stava iniziando
ad abituarsi al contatto fisico con me. Anzi, aumentò per un
secondo la stretta
sulla mia mano e appoggiò la guancia contro la mia nuca,
senza dire altro. Il
suo calore mi circondava e mi faceva sentire sicura, sicura anche del
fatto che
non sarebbe stato necessario chiedergli esplicitamente di rimanere. Non
quella
notte. Rimanemmo in silenzio per un po’; dopo non so quanto
tempo, mi venne in
mente una domanda.
«Chi
era l’uomo con cui sei arrivato?».
Pensai
che Daryl si fosse addormentato, perché ci mise
qualche istante a rispondere. «Si chiama Morgan. È
un amico di vecchia data di
Rick. Cioè, è la prima persona che Rick ha
incontrato in questo mondo di merda».
«Come
hai fatto a trovarlo?».
«Ci
siamo incontrati in mezzo ai boschi, a qualche
miglio di distanza da qui. Si era perso e mi ha mostrato una cartina,
sulla
quale era scritto il nome di Rick. Abraham gli aveva lasciato un
messaggio prima
di partire per salvare il mondo, te la ricordi la storia?».
«Sì».
In realtà, fu molto difficile concentrarmi su
qualcosa che non fosse la naturalezza con cui riuscivamo a parlare con
le mani
intrecciate.
«Ecco.
Non so come, è riuscito a trovarla. È tosto,
quel figlio di puttana».
Risi
dell’espressione colorita che gli uscì,
stringendomi di più contro la sua spalla. «Si
può dire che fosse nel luogo
giusto, al momento giusto».
«Si
può dire», asserì, facendo spallucce.
Ritornò
di nuovo il silenzio complice nella quale
eravamo immersi poco prima, ma, quella volta, fu lui a interromperlo.
«Domani
seppelliranno Reg», mi informò.
Sospirai.
C’erano troppi funerali in quel periodo, per
i miei gusti. «Immaginavo. E Pete?».
«Penso
che Rick lo voglia fuori dalle mura».
Mi
irrigidii e il mio pensiero corse subito ai suoi
figli, Ron e Sam. Immaginai come si sarebbero potuti sentire, vedendo
il corpo
del padre ripudiato dall’intera comunità.
«Oh».
Daryl
mi guardò di sottecchi. «Cosa?».
Mi
strinsi nelle spalle. «Nulla, è che… da
una parte
lo capisco, dopo tutto quello che Pete ha fatto. Ha distrutto la sua
famiglia e
quella di Deanna. Però penso ai suoi figli, soprattutto a
Ron. Se volessero
andare a trovarlo, per ricordarlo… non potrebbero. Non
è nemmeno giusto così».
«Pete
era un pezzo di merda, credo che anche i suoi
figli lo sappiano».
«Certamente,
però… è morto. Ormai non
può più fare del
male a nessuno. Secondo me è giusto che chi rimane abbia un
luogo dove piangere
le persone che ha perso». I miei pensieri corsero al mio
migliore amico e
sentii un nodo doloroso stringermi la gola. «Sai, sono
andata, per modo di
dire, a trovare Noah. So che è stupido, che è una
formalità, ma sapere che lui
lì non c’è, perché i vaganti
lo hanno ridotto in niente… sapere che non ha
nemmeno avuto diritto ad essere seppellito, se ci penso mi fa stare
male. Me ne
sono resa conto solo ieri mattina».
Non
so se lo immaginai, ma sentii la stretta di Daryl
aumentare, attorno alla mia mano. Continuai, la voce che mi tremava
appena. «Mi
sarebbe piaciuto avere qualcosa da portare sempre con me, per
ricordarlo. Ma
siamo arrivati qui con niente e io non ho ancora avuto il coraggio di
andare a
casa sua. Anche se penso che l’abbiano già
svuotata».
Daryl
rimase in silenzio, probabilmente per darmi il
tempo di ricompormi, o per rispettare i miei sentimenti. Non
c’era molto che
potesse dire o fare, per consolarmi. Ormai era andata così.
Il silenzio calò di
nuovo e, da lì in poi, non parlammo più. Ad un
certo punto, sbadigliai
sonoramente e Daryl, a quel punto, con un’insolita decisione,
lasciò la mia
mano per circondarmi le spalle con un braccio e farmi accoccolare
contro il suo
petto, mentre distendevo le gambe sul divano. Lo sentii rilassarsi: in
tacito
accordo, decidemmo di dormire lì, per quella notte. Allungai
un braccio per
afferrare il plaid che tenevo ripiegato sul bracciolo del divano e
cercai di
coprire entrambi alla bell’e meglio.
Cullata
dal respiro di Daryl nel silenzio, lasciai che
la stanchezza avesse la meglio e scivolai nell’incoscienza
del sonno.
Quando
mi svegliai la mattina dopo, mi ritrovai in
posizione fetale sul divano, coperta totalmente dal plaid. Mi alzai a
sedere e
mi stropicciai gli occhi, infastidita dalla luce che filtrava dalle
finestre,
leggermente indolenzita. La balestra era sparita, così come
Daryl: ero da sola.
Rimasi qualche istante a contemplare il vuoto, cercando di capire dove
potesse
essere andato, senza che me ne accorgessi. Mi trascinai fino al bagno e
mi
sciacquai la faccia: trovai il fazzoletto di Daryl strizzato e messo ad
asciugare sulla struttura della doccia. Forse doveva fare qualcosa con
Rick,
quella mattina.
Andai
in cucina, dove l’orologio segnava poco più
delle otto e mezza. Mentre ingurgitavo pigramente uno dei biscotti di Carol, mi ritrovai ad
osservare la mano che Daryl, la sera prima, aveva stretto per
così tanto tempo.
Si era pentito di essersi avvicinato così tanto a me? Aveva
bisogno di
riordinare un po’ le idee, dopo il caos della sera prima?
Cercai di non
pensarci e non farmi troppe domande. Decisi di farmi una doccia, mi
lavai i
denti poi andai di sopra a indossare dei vestiti puliti. Decisi di
andare da
Maggie e poi dal resto della mia famiglia, per vedere un po’
come fosse la situazione.
Mentre buttavo i vestiti del giorno prima nella cesta dei panni
sporchi, sentii
bussare alla porta.
Quando
andai ad aprire, mi ritrovai Daryl sulla porta.
«Buongiorno.
Posso?», esordì, indicando il corridoio
con un cenno del capo.
Gli
sorrisi, piacevolmente sorpresa. «Oh, buongiorno.
Sei venuto a riprenderti il fazzoletto? Non è ancora del
tutto asciutto»,
proferii, mentre lo lasciavo entrare. Quando raggiunse il soggiorno,
notai che
portava con sé uno zainetto nero, molto simile a quello che
avevamo trovato al
country club. Cercai di soffocare la mia curiosità, mentre
lo osservavo
fermarsi in mezzo alla stanza.
«Va
bene lo stesso, si asciugherà nella mia tasca»,
rispose, stringendosi le spalle.
Annuii.
«Pensavo fossi a casa, con gli altri. Stavo
per passare», lo informai. Lui mi squadrò per
qualche istante, poi si voltò e
si diresse in cucina, appoggiando lo zaino sul tavolo. Lo seguii,
perplessa. A
quel punto, non riuscii più a trattenermi.
«Daryl,
cos’è quello?», domandai, osservandolo
dall’altra parte del tavolo, mentre lo apriva.
Sembrava… teso?
«Sono
stato a casa del tuo amico, stamattina», disse,
senza guardarmi, mentre mi porgeva lo zaino aperto. Mi bloccai e per un
momento
mi sembrò di non riuscire più a respirare. Il
cuore iniziò a battermi
furiosamente, rimbombando nelle orecchie. «Non
l’hanno ancora sgomberata».
Mi
sforzai di non restare lì impalata e mi avvicinai,
per vedere il contenuto dello zaino: c’erano vari oggetti, al
suo interno. Con
la mano tremante, la prima cosa che estrassi furono tre o quattro CD di
un
cantante che non avevo mai sentito, ma che sicuramente piaceva a Noah.
Li
appoggiai sul tavolo, passando agli oggetti successivi. Estrassi un
blocco
piuttosto pesante e lo aprii: erano pieno di appunti e schizzi di
elementi architettonici
che doveva aver prodotto durante tutto il tempo che aveva passato con
Reg. Se
n’era fatto procurare uno, dopo che il suo
“mentore” gli aveva suggerito di
segnarsi tutto ciò che riteneva importante. Sentii gli occhi
riempirsi di
lacrime, che andarono a bagnare le guance quando tirai fuori
ciò che era finito
in fondo lo zaino: era una foto, scattata sicuramente da Aaron, che
ritraeva me
e Noah, che ridevamo per qualcosa. Riconobbi la cucina del reclutatore,
doveva
essere stata scattata dopo una delle varie cene a cui eravamo stati
invitati,
appena arrivati, spaesati. L’aveva avuta Noah, per tutto quel
tempo. Il mio
migliore amico…
Con
la mano che non stringeva la foto, mi asciugai le
guance, alzando lo sguardo su Daryl. Sentivo di avere
un’espressione sconvolta,
ma non riuscii a trovare le forze di ricompormi.
«È
tutto quello che sono riuscito a trovare», disse,
in tono basso, fuggendo il mio sguardo. Portò la mano alla
cintura, alla quale
era appesa una fondina, con una pistola al suo interno. «E
questa. Era sua».
Quando
me la allungò oltre il tavolo, la presi in mano
e la osservai: sulla guancetta in legno, era intagliata una
“N”, non molto
grande, ma dai contorni ben definiti.
«Olivia
mi ha permesso di prenderla. Io ho solo
intagliato la sua iniziale, così…»,
proferì, interrompendosi subito. Sbuffò,
ficcando le mani nelle tasche. «Beh, hai capito. È
tua, adesso».
Così sarà sempre con te, sul campo di battaglia.
Io
continuavo a fissarlo, senza parole. Per la prima
volta, rimasi totalmente a corto di cose da dire: era tutto
troppo.
Cercai di elaborare tutto quello che avevo appena vissuto: Daryl era
andato a
casa di Noah, al posto mio, perché io non me la sentivo.
Aveva raccolto degli
oggetti del mio migliore amico, come ricordi in suo onore. Era andato
all’armeria e aveva inciso l’iniziale del nome del
mio migliore amico, come se
in quel modo potessi averlo sempre con me, a proteggermi dai pericoli
di quel
mondo.
Non
c’era niente di abbastanza che potessi
dire
per poter esprimere la profonda gratitudine che stavo provando per
Daryl, in
quel momento. Per tutto quello che aveva fatto per me. Gratitudine che,
lo
avvertii chiaramente, si mischiò assieme a tutti i
sentimenti che provavo per
l’arciere. Il mio cuore rischiava di strabordare, tutto
quell’insieme di
emozioni rischiava di sopraffarmi. Il nodo che mi stringeva la gola era
stretto, per quello capii che non sarei stata in grado di parlare: ero
arrivata
a livello. Non potevo più rimandare, fingere, accantonare
quello che provavo
per Daryl. Non dopo ciò che aveva fatto per me in quelle
ultime ore. Per una
volta, non mi sarei servita delle parole, sarebbero state inutili e
riduttive.
Sarei passata ai fatti, come era solito fare lui.
Cercai
di controllare il respiro, mentre con lentezza
appoggiavo la pistola sul tavolo. Il mio sguardo incrociò il
suo e, da quel
momento, non lo lasciò. Nemmeno mentre, con la stessa
lentezza, aggiravo il
tavolo per fermarmi di fronte a lui.
Tutto
ciò che a avevo intorno, sparì; tutto quello che
non era il suo sguardo di ghiaccio, animato dall’incertezza e
sì, anche dalla
paura – aveva intuito dove ci avrebbe portato tutto quello?
– il suo volto poco
distante dal mio, la sua pelle che mi chiamava scomparve dalle mie
percezioni.
Esisteva solo Daryl, c’era sempre stato solo lui. E sapevo
che poteva capirlo
dalla determinazione, mista a desiderio, con cui lo stavo guardando.
Con
lentezza snervante, iniziai ad avvicinare sempre
di più il mio volto al suo. Avvertii subito che il suo
respiro si era fatto
irregolare, così come il mio.
«Beth»,
protestò debolmente, con voce bassa e
arrochita. Cercò fino all’ultimo di sottrarsi,
allontanando il viso dal mio man
mano che mi avvicinavo. Ma non glielo permisi perché, nello
stesso momento in
cui mi issai sulle punte dei piedi con uno scatto, gli afferrai il
colletto
della camicia e lo avvicinai bruscamente a me, facendo scontrare le
nostre
labbra.
Frastornata
dall’impeto di quel gesto, ci misi qualche
secondo per elaborare che stavo baciando Daryl: a occhi chiusi, cercai
di
concentrarmi sulle sue labbra, ruvide ma calde. Avevo aspettato
così tanto di
scoprire che effetto facessero, contro le mie…
In
un primo momento, l’arciere oppose resistenza, afferrandomi
entrambe le braccia, probabilmente per allontanarmi da sé.
Ma non lo fece: dopo
qualche secondo, lo sentii rilassarsi – o, forse, rassegnarsi
– lasciando
andare un respiro profondo, spezzato da un tremito. Trovai il coraggio
di
dispiegare appena le labbra, per assaggiare le sue con la punta della
lingua.
Mi
allontanai da lui per mancanza d’aria, entrambi
avevamo il fiato corto. Riportai i talloni per terra, senza lasciargli
il
colletto, e lui si sporse verso di me, sovrastandomi, facendo scendere
le mani
sui miei fianchi, mentre riprendeva fiato con la fronte appoggiata alla
mia. Ci
guardammo, più vicini che mai:
l’intensità con cui mi guardava avrebbe potuto
farmi cedere le ginocchia, se non fossi stata aggrappata al suo corpo.
E
non capii cosa lesse nel mio sguardo, se fu quello
l’attimo esatto in cui si arrese totalmente a quello che
provavamo. Riuscii
solo a sentire la sua mano destra che risaliva il mio braccio e
arrivava a
posarsi sulla mia guancia, mentre con l’altro braccio mi
cingeva i fianchi per
stringermi a sé. Quella volta, Daryl ricambiò il
bacio con timido trasporto,
dispiegando le labbra e sfiorando la mia lingua con cautela, come se
non
volesse lasciarsi andare del tutto. Come se fossi un oggetto fragile da
maneggiare
con cautela.
E
invece, in vita mia, non mi ero mai sentita così
forte come tra le sue braccia.
Note
autrice
Eeeee
con questo, si conclude la stagione cinque in
questa storia! Non mi sembra vero di essere arrivata a questo punto di
svolta,
ma, finalmente, è successo. Sinceramente, vi "dono" questo
capitolo
con molta, molta ansia.
Un
po' (anzi, tanto) perché come al solito ho tardato
con l'aggiornamento. Ho passato veramente un brutto periodo questo giro
(ergo,
sono stata lasciata), non mi sentivo proprio in vena di portare avanti
quella
che è, a tutti gli effetti, una storia d'amore. Adesso mi
è passato tutto e sto
benissimo, l'unico problema, ultimamente, è stata la
mancanza di tempo. Ho
sempre avuto tanti problemi di organizzazione, ma ho iniziato
seriamente a
lavorarci. Questa storia va lenta, me ne rendo conto, ma
nonostante tutto non
ho mai pensato un secondo di mollarla, e non l'ho fatto. Ora
che ho finito
di lavorare, avrò del tempo in più da dedicare al
rewatch della stagione 6 e
alla scrittura, quindi, ecco, spero di poter aggiornare una volta al
mese. Ci
proverò, seriamente.
Altro
fattore d'ansia: il bacio. A) perché sono
arrugginita con la descrizione di baci B) perché sono Beth e
Daryl, e con loro
mi sembra sempre di camminare su un campo minato. Questo capitolo
è, a tutti
gli effetti, un finale di stagione. Perciò, ho cercato di
non calcare troppo la
mano sul bacio finale, che non è il punto focale di questo
capitolo, ma un
punto di svolta che serve per passare a una fase successiva della
storia.
Magari vi sarà sembrato un po' lasciato a metà,
non troppo approfondito, ma l'ho
fatto apposta. Come se fosse una specie di cliffhanger,
in un certo
senso.
Mi
dispiace se il capitolo vi può risultare pesante,
specialmente nella prima parte, ma volevo concentrare tutto qui per far
finire
la quinta stagione e passare alla sesta, senza ulteriori allungamenti.
Quindi, questo è. Spero che abbiate apprezzato il capitolo e
che vogliate
condividere le vostre impressioni con me :) Intanto, ringrazio di cuore
Tracey,
vannagio
(che mi ha "suggerito"
questo interessante spunto nella sua recensione[1])
e psichedelia95
che hanno recensito lo
scorso capitolo.
Grazie
per il supporto che mi date, anche solo
leggendo e mettendo tra le preferite/seguite, nonostante io sia un
disastro.
Alla
prossima,
Blakie
P.S.:
per questa volta, mi sono permessa di rubare il
titolo alla puntata. Buona parte di questo capitolo ruota intorno ad
essa.
Inoltre, lo vedo bene anche per quello che, finalmente, Beth riesce a
conquistare: il coraggio di farsi avanti con Daryl :P