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Autore: Blakie    09/11/2017    2 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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AND WELL BE GOOD 11 HTML
And we'll be good

Capitolo 11

 

L'ottimismo che avevo cercato di infondere a me stessa e a Daryl, sembrò avermi abbandonata la mattina successiva, quando mi svegliai. Anzi, alzai la testa dal cuscino con un opprimente senso di angoscia che mi attanagliava le viscere. Mi sedetti sul bordo del letto non appena uscita dalle coperte, fissando il panorama fuori dalla finestra con una brutta sensazione addosso. Scossi la testa, cercando di scacciare quel malessere e mi alzai, tenendomi impegnata con la solita routine mattutina.

Dopo colazione, uscii di casa per recarmi a casa di Maggie: ero ancora intenzionata ad aiutarla a parlare con gli abitanti di Alexandria, per convincerli che Rick non si meritava l’esilio.

Rick. Chissà se si è ripreso, pensai.

«Wow, riusciamo a trovarci persino senza metterci personalmente d’accordo».

Mi riscossi dai miei pensieri, mentre osservavo Maggie scendere dagli scalini del portico e raggiungermi. In effetti, non mi ero accordata direttamente con lei, il giorno prima, ma avevo solo avvisato Glenn. Le sorrisi. «Ormai non c’è da sorprendersi più di niente».

«Beh, mi sorprende che tu sia già sveglia, questo sì. Stavo giusto venendo a casa tua, convinta di doverti trascinare giù dal letto», mi prese in giro.

Mi strinsi nelle spalle, prendendo a camminare accanto a lei. «Non sono più la dormigliona di un tempo. E comunque, stanotte non ho dormito molto bene, tanto valeva alzarsi».

Maggie mi guardò, rabbuiandosi. «Sei preoccupata?».

Anche se non lo esplicitò, sapevo che quella frase aveva un seguito: per oggi. E per stasera. Era la prima occasione, dal giorno prima, che mi si presentava per parlare con Maggie di ciò che era successo con Rick; quindi, puntai sulla sincerità.

Annuii, incerta. «Tu?».

«Abbastanza. Non pensavo che Rick sarebbe scoppiato in quel modo. Né che la situazione con Pete sarebbe precipitata così velocemente». A quel punto, mia sorella mi rivolse uno sguardo colpevole. «Non ne abbiamo più parlato Beth, scusa. Con tutte le cose che sono successe, non mi è venuto in mente di fermarmi a rifletterci sopra e trovare una soluzione».

Scossi la testa. «Non ti preoccupare. Lo sai che anche io ho avuto altro per la testa».

Maggie piegò le labbra in un sorriso velato di tristezza. «Lo so», rispose, accarezzandomi di sfuggita una guancia con fare materno.

Cambiai discorso in fretta. «Comunque, hanno spostato Pete in un’altra casa».

«Sì, Glenn me l’ha detto. Ora dobbiamo occuparci della questione più difficile».

«Già», commentai e mi sentii abbastanza stupida.

Maggie sospirò. «Ho detto che sarei andata a parlare con gli abitanti, ma non so quanto servirà».

Abbassai lo sguardo, calciando via un sasso con la punta dello scarpone, mentre continuavamo a camminare in silenzio. Non capii se fosse frutto del mio cervello, ma mi sembrò di respirare un’aria diversa, quella mattina. Come se tutta la tensione esplosa il giorno prima avesse contaminato l’aria attorno a noi; c’era un’atmosfera strana, di attesa. Era tutto uguale, ma incredibilmente diverso.

«Dobbiamo parlare con Deanna, prima di tutto».

Mia sorella mi diede una gomitata. «Secondo te non stiamo andando da lei? Sto solo allungando il giro perché sto pensando a cosa dirle di convincente».

Realizzai solo in quel momento che avevamo iniziato a camminare senza meta, assorta com’ero. Ridacchiai, scuotendo la testa. «Non arriveremo più, allora».

Maggie si rabbuiò, così mi affrettai a rassicurarla. «Sto solo scherzando, Mags. Pensa un po’ le coincidenze, io e Deanna stavamo proprio parlando di Pete e Rick, quando ieri è successo quel casino».

Lei annuì. «Diciamo che, per alcuni di noi, non è stata una sorpresa».

«Esatto. Ho solo… paura di scoprire come la pensa adesso. Già ieri era preoccupata per l’impazienza di Rick e lo sai che ci serve il suo appoggio, per farlo restare. A questo punto, però, non sono più sicura di niente».

Maggie si fermò e mi appoggiò una mano sulla spalla per incoraggiarmi. «Riusciremo a convincerla. Lo sa anche lei che Alexandria ha bisogno di noi».

Mi rabbuiai, pensando che il giorno prima ero stata io a infondere coraggio agli altri, mentre quella mattina mi riusciva più difficile del solito. Non dovevo lasciarmi abbattere dagli eventi, era sempre stata quella la mia filosofia. Ma le tensioni tra la mia famiglia e le persone che mi avevano accolta quando io e Noah eravamo rimasti soli, si riflettevano in me come uno specchio e mi facevano sentire divisa a metà.

Arrivammo a casa di Deanna e ci accolse Reg, facendoci attendere in soggiorno mentre la cercava. Notai che mia sorella fissava fuori dalla finestra con sguardo torvo. Quando mi sporsi per vedere, capii il perché: fuori c’era Padre Gabriel. Mia sorella aveva sentito per sbaglio una conversazione tra il prete e Deanna, che veniva avvertita del fatto che fossimo pericolosi e che non ci si dovesse fidare di noi. Da allora lo avevamo guardato con sospetto; in realtà, mi amareggiava che un uomo di fede potesse essere così meschino con persone che lo avevano salvato.

Reg ci invitò fuori, in veranda, dove ci attendeva Deanna. Non appena uscimmo, parlò, saltando qualsiasi convenevole. Non l’avevo mai vista così seria.

«Di che cosa mi dovete parlare?».

Maggie prese da subito in mano il comando della conversazione. Forse mi aveva visto troppo turbata, per permettermi di mediare ancora una volta. «Della riunione di stasera».

«Maggie, se potessimo discutere–», intervenne Reg, che venne subito interrotto da Deanna.

«Voglio parare con tutti di quello che è successo e di che cosa dobbiamo fare».

Mia sorella mantenne un’espressione ferma. «Se questo prevede cacciare Rick, non funzionerà».

«Dimmi che cosa intendi», rispose la donna, alzando un sopracciglio.

«Lo hai lasciato entrare, come hai fatto con tutti noi. Hai parlato con noi, hai deciso. E ora vuoi affidare questa decisione a della gente spaventata che non conosce l’intera storia», continuò mia sorella, poi fece una pausa, prima di parlare di nuovo. «Non è da leader».

Deanna aveva ascoltato tutto senza fiatare, lo sguardo che gravitava da me a Maggie, indecifrabile. Reg intervenne nuovamente e cercò di tranquillizzarci, dicendo che, quello previsto per quella sera, era solo un incontro per raccogliere le opinioni di tutti.

«Ed io prenderò la decisione finale, come ho sempre fatto», concluse Deanna, scrollando le spalle.

Ci avevo visto giusto, quindi.

«Era solo frustrato. Ha visto tante cose, ha perso tante cose. Tutti noi le abbiamo perse».

Deanna le rispose con la voce spezzata. «Anche noi abbiamo perso tante cose».

Maggie la osservò qualche istante, come me e Reg, prima di parlare nuovamente e con sicurezza. «Noi ne abbiamo perse di più».

A quel punto, Deanna iniziò ad agitarsi. «Rick ha puntato la pistola contro delle persone!».

Mia sorella rimase impassibile. «Non ha premuto il grilletto», le fece notare e io la guardai.

«E ci basiamo su questo?!», esclamò la donna, fissando gli occhi nei miei, come a cercare un sostegno. Forse pensava che non parlassi perché, in realtà, ero d’accordo con lei.

«Sì», risposi, per conto di Maggie.

«Beth, tu dovresti sapere come funzionano le cose qui».

«So anche come funzionano là fuori. E se lo sapeste anche voi, Deanna, credimi che non sareste così sconvolti da un uomo che punta una pistola contro altre persone. Fuori dalle mura, questo non è niente», risposi, cercando di non farmi sopraffare dalle emozioni.

«Là fuori è là fuori, ma qui dentro cerchiamo di mantenere una certa civiltà. Chi vive qui deve sentirsi al sicuro, non uscire di casa e vedersi minacciato con una pistola».

«Per Rick la sicurezza è la cosa più importante. Era solo frustrato», ribattei, accorata, riprendendo le parole di mia sorella. Avanzi verso Deanna e le presi le mani tra le mie. «C’è bisogno di Rick, qua. Lo sappiamo noi come lo sai tu. Se non vuoi fidarti di Maggie, o di chiunque sia qui da poco tempo, almeno fidati di me. Per favore».

Deanna mi osservò per qualche istante, l’espressione contrita e gli occhi che facevano da specchio per il suo conflitto interiore. Erano successe tante cose in poco tempo e ne era stata sopraffatta, lo vedevo.

Abbassò lo sguardo. «Beh… farò quello che devo fare», mormorò a voce spenta. Si divincolò dalla mia presa senza energia e ci voltò le spalle, tornando a fare quello che stava facendo prima che arrivassimo.

Udii mia sorella, dietro di me, sbottare di frustrazione, e la vidi scendere le scale come un fulmine e per andarsene. Prima che potessi raggiungerla, quando ormai ero sull’ultimo scalino, Reg mi afferrò per un braccio. Mi voltai.

«Beth, le parlerò. Parlerò con tutti, questa sera. Dobbiamo smetterla di scappare e iniziare a vivere tutti insieme, se vogliamo “mantenere una certa civiltà”», mi rassicurò, citando ciò che aveva detto sua moglie.

Gli sorrisi. Reg era un brav’uomo e in quel momento mi tornarono in mente tutte le volte che lo avevo visto progettare qualcosa assieme a Noah. Vedere come il mio migliore amico pendeva dalle sue labbra mi aveva sempre fatta divertire, ma Reg era davvero una persona saggia. Sperai che le sue parole servissero a dare manforte alla nostra causa.

«Grazie», risposi, prima di voltarmi e raggiungere mia sorella.

Il dissidio avuto con Deanna non ci scoraggiò minimamente. Impiegammo tutta la mattina per parlare con più abitanti di Alexandria possibili. Notai molta incertezza sui loro volti, confusione e paura; non potevo certo biasimarli, ma speravo che la mia parola potesse contare qualcosa, per loro. Dopotutto, mi conoscevano da prima che arrivassero i “nuovi, spaventosi individui” salvati da Aaron. Seppur diffidenti, le uniche persone dalle quali ricevetti apertamente supporto furono Josie e Samantha, mie colleghe. Anzi, Josie aveva sorvolato di cuore sul comportamento di Rick, gioendo con ferocia delle botte inferte a Pete e del suo successivo isolamento in un’altra casa.

«È forte l’infermiera», disse Maggie con le mani in tasca, mentre tornavamo a casa sua.

Ridacchiai, ripensando alla risposta accorata di Josie. «Chissà da quanto aspettava che qualcuno rimettesse Pete al suo posto».

Mia sorella sorrise, ma non disse nulla. La vedevo pensierosa: sicuramente, si stava interrogando sull’esito del nostro giro di persuasione, se così si poteva chiamare. Camminammo per un po’ in silenzio, poi Maggie parlò di nuovo.

«Non ho visto Daryl, in giro».  

«Credo che sia uscito stamattina. Per cambiare un po’ aria, sai».

Lei sospirò, afflosciando le spalle. «Lo capisco, lo farei anche io se potessi».

Sorrisi tra me e me, contenta che Daryl potesse stare, anche solo per qualche ora, lontano da quell’atmosfera così opprimente. Era la prima volta che provavo un vago senso di soffocamento, dentro quelle mura. Se avessi potuto, come Maggie, sarei scappata fuori dal cancello in quello stesso momento e sarei rimasta fuori con Daryl finché le acque non si fossero calmate. Solo io e lui, come era successo dopo la distruzione della prigione; come gli allenamenti all’alba del mese precedente. E invece sarei rimasta dentro, continuando col mio disperato tentativo di fare da cerniera[1] tra due mondi che, in quel momento, sembravano quasi inconciliabili.

 

~

 

L’assemblea si sarebbe svolta nel cortile sul retro della casa di Deanna; attorno al piccolo fuoco che era stato acceso per scaldarci in quella fredda serata autunnale, c’erano gli abitanti di Alexandra da un lato e la mia famiglia dall’altro. Io mi trovavo esattamente in mezzo e, opposti a me, si erano sistemati Reg e Deanna. Maggie, di fianco a me, continuava a lanciare occhiate ansiose all’ingresso del cortile. «Dov’è finito Glenn?».

Nel suo sussurro avvertii tutta l’angoscia dovuta al fatto che non lo vedeva da quella mattina e non potei biasimarla; nemmeno Daryl si era fatto vedere. In realtà, non erano gli unici ad essere assenti: mancavano Rick, Pete, Nicholas e Padre Gabriel.

Deanna, con fermezza, sentenziò che l’assemblea sarebbe iniziata ugualmente anche senza i due “protagonisti” principali. Chi aveva qualcosa da dire, poteva già iniziare a farsi avanti. Fu come una specie di strana coreografia parlata, in cui si alternavano le opinioni degli abitanti di Alexandria e le “nostre”, anche se, per quel che mi riguardava, la divisione non era poi così netta. Mi sentivo perfettamente in mezzo alle due parti.

Vennero espressi dubbi, più o meno blandi, sull’affidabilità di Rick; da qualcuno venne espressa la paura che, un giorno, il nostro leader avrebbe potuto di nuovo perdere la testa e uccidere senza farsi troppi scrupoli. Ci fu anche chi gli diede ragione – Josie, con Jessie sottobraccio – affermando che Pete era pericoloso e che era ora che qualcuno lo rimettesse al suo posto.

Chi conosceva Rick da ben prima, non mancò di difenderlo con vigore: prima Michonne, poi Carol, Abraham, Maggie e altri di noi si alternarono per convincere i dubbiosi che la scelta migliore per tutti era che Rick rimanesse lì.

Mi lasciarono il tempo di riflettere su cosa dire, come fossi una mediatrice tra i due gruppi: nessun altro aveva vissuto abbastanza tempo con entrambi come me. Quando fu il mio momento di parlare, mi sentii un po’ nervosa; di certo, non era come cantare davanti a un pubblico. Dovevo scegliere le parole giuste, anche se molte cose che avrei voluto esprimere erano già state dette da mia sorella e dagli altri.

Feci un respiro profondo e parlai.

«Io, come mia sorella, come Rick, ne abbiamo passate tante. Siamo cambiati, siamo dovuti cambiare, per sopravvivere. Quell’uomo ha avuto il coraggio di sobbarcarsi del difficile incarico di leader, per permettere a tutti noi di andare avanti e proteggerci, dagli uomini e dai vaganti. So che i suoi modi possono apparire poco ortodossi, ma è grazie a questi se io posso essere qua con voi, in questo momento, a parlarne. È grazie a questi se io sono arrivata fino a qui e sono stata salvata assieme a… a Noah – feci una pausa per ricacciare indietro le lacrime – Abbiate fiducia in me, se ancora non riuscite ad averla in chi è arrivato per ultimo qua dentro. Avete bisogno di Rick, come Rick ha bisogno di questo posto, solo che ancora non lo sapete, come non lo sa lui. Dobbiamo solo… restare uniti».

Dopo il mio intervento, seguì qualche istante di silenzio, attenuato dallo scoppiettare delle braci di quel piccolo falò. Sperai che, nonostante quel silenzio, ciò che avevo voluto dire fosse arrivato. Che chi mi aveva ascoltata avesse capito.

Dato che nessuno ebbe nulla da aggiungere, Deanna riprese la parola e fece sapere – in nome della trasparenza – ciò che le aveva riferito Padre Gabriel, aggiungendo poi che ciò che aveva fatto Rick ne fosse la conferma; strinsi i pugni, mentre avvertivo un’ondata di rabbia invadermi. Dovevo stare calma.

«Io speravo che Gabriel fosse qui, stasera», concluse, facendosi nuovamente da parte.

«Io non lo vedo, Deanna. Stai riferendo ciò che ha detto qualcun altro», le fece notare Jessie. «L’hai registrato?».

«Non è qui», intervenne Maggie.

«Nemmeno Rick», replicò Deanna con durezza.

Mia sorella la fissò per qualche istante con la stessa durezza nello sguardo; poi si congedò con un «scusatemi» e se ne andò. Mi venne spontaneo seguirla ma mi bloccai, ricordandomi che il mio compito era rimanere lì a difendere Rick.

Tutti hanno un compito.

Dopo un iniziale momento di imbarazzo, decise di prendere la parola Tobin, uno degli abitanti originari di Alexandria. Stava portando avanti il suo intervento incerto quando lo vidi bloccarsi e fissare un punto davanti a sé con aria sorpresa. Seguii il suo sguardo, come fecero tutti: all’ingresso del cortile di Deanna era apparso Rick, sporco di sangue in volto e con un corpo issato sulla sua spalla destra. Per un millesimo di secondo, ebbi il terrore che le gambe che penzolavano addosso a lui fossero di Pete.

Rick mi smentì – ci smentì tutti probabilmente, buttando per terra ciò che si rivelò essere il cadavere di un vagante. «Non c’erano sorveglianti davanti al cancello. Era aperto!», proferì, con tono concitato e aggressivo.

Vidi Deanna chiedere spiegazioni a Spencer con un solo sguardo.

«Avevo chiesto a Gabriel di chiuderlo», si giustificò il ragazzo.

«Vai!», gli ordinò Deanna, con espressione grave.

Rick si fece avanti, avvicinandosi al fuoco. «Non l’ho portato dentro io. È arrivato qui dentro da solo», sottolineò. Poi, si voltò verso Deanna e Reg, che lo osservavano interdetti vicino al muretto. «Entreranno sempre, i morti e i vivi, perché noi siamo qui e la gente là fuori ci darà la caccia e ci troverà. Proverà a usarci, proverà ad ucciderci, ma noi uccideremo loro. Noi sopravvivremo: vi mostrerò come».

Mentre parlava, Rick si guardò intorno, incontrando uno per uno lo sguardo degli altri abitanti di Alexandria; quando incrociai i suoi occhi chiari – che risaltavano in contrasto con il rosso che gli imbrattava il volto - sentii qualcosa smuoversi nel mio stomaco. Era la consapevolezza che ciò che stava dicendo fosse vero e sperai che quella presa di coscienza scattasse anche in quelle persone che lo stavano guardando con timore. Guardai Deanna, che era sempre più scura in volto; forse, stava iniziando a rendersi conto che affidarsi a Rick fosse l’unica cosa che Alexandria potesse fare per salvarsi dal mondo esterno.  

«Sapete, stavo pensando…», Rick si grattò una tempia col dito e assunse un’espressione quasi neutra. «Stavo pensando a quanti di voi dovrò uccidere per salvarvi la vita».

Mi sentii gelare, mentre incrociavo lo sguardo di disappunto di Carol, come se fossimo entrambe d’accordo sul fatto che quella frase se la sarebbe potuta risparmiare. Non era certo una cosa da dire a un gruppo di persone spaventate e che stava discutendo del suo esilio.

«Ma non c’è bisogno che io lo faccia: voi cambierete»», aggiunse, con un tono di voce più… conciliante? Poi, si rivolse direttamente a Deanna. «Non mi pento di quello che ho detto ieri sera: mi pento di non averlo detto prima. Non siete pronti, ma dovete esserlo. Adesso dovete esserlo… La fortuna vi abbandonerà».

Le sue parole riempirono il silenzio e continuarono a galleggiare tra noi presenti, come l’eco di qualcosa che spaventava, ma che andava affrontato per non rischiare la distruzione. E poi lo vidi: il volto pieno di cerotti e l’espressione deformata da una rabbia folle. Pete.

«Non sei uno di noi», proferì, dando il tempo a tutti e a Rick per voltarsi verso di lui. «Non sei uno di noi!», ripeté con un grido. Quando alzò le braccia in un gesto di frustrazione, mi accorsi che aveva in mano una katana. Un terrore improvviso mi arpionò allo stomaco, mentre la paura si faceva largo anche tra i presenti. Solo Rick rimase impassibile.

Reg gli andò incontro, cercando di calmarlo, mentre Deanna chiamava il nome di suo marito per avvertirlo di non stare troppo vicino a quel folle armato. Rick fissava Pete con uno sguardo di ghiaccio, la mano pronta sulla fondina della pistola. Sentii il cuore balzarmi in gola.

E poi accadde. Quel momento di confusione, di concitazione, raggiunse l’apice ed esplose il caos. Successe talmente velocemente che il tempo sembrò scorrere a rilento: Reg che cerca di bloccare Pete, Pete che, per liberarsi da quella presa indesiderata, lo spinge via con vigore. La katana stretta nella mano sbagliata che taglia la gola a Reg con un colpo solo; lo schizzo di sangue e il corpo dell’uomo che si tende all’improvviso; poi l’urlo di Deanna.

Le orecchie presero a fischiarmi, ma le mie gambe scattarono verso Deanna, che continuava ad urlare disperata mentre accompagnava Reg che si accasciava per terra. La mano che si era portato alla gola tremava furiosamente, ma non era nulla in confronto ai gorgoglii che emetteva mentre soffocava a causa del suo stesso sangue.

Mi inginocchiai di fronte a loro, disperata, mentre cercavo di scacciare l’immagine di mio padre che veniva decapitato dal Governatore. Mi accorsi che anche Josie era accanto a me, così le sfilai il foulard senza neanche chiederglielo e, tra le lacrime, provai a tamponare con urgenza il macabro sorriso che Pete aveva aperto sulla gola di Reg, dal quale continuava a zampillare sangue. Lo sapevo che non sarebbe servito a nulla, eppure non potei fermarmi, non con Deanna che continuava a gridare e piangere dalla disperazione. Il cuore mi batteva furiosamente nelle orecchie e il respiro quasi mi si bloccò in gola.

«Reg, resta qui, resta qui», sussurrai, continuando a premere la stoffa sul suo collo.

Sentii la mano di Josie posarsi sulla mia spalla. «Beth», disse soltanto. È finita, non c’è più niente da fare. Come conferma a ciò che la mia collega aveva omesso, sentii sul dorso della mia mano l’ultimo respiro che Reg esalò, prima che il suo sguardo si spegnesse e la sua mano, inerme, rimanesse a mezz’aria.

No, non doveva andare così, non doveva andare così.

«Come pensi che andrà, domani?».

«O male, o di merda».

«Come pensi che andrà, domani?».

«Andrà tutto bene».

Sollevai il foulard madido di sangue e lo lanciai da qualche parte alla mia sinistra, come se avesse improvvisamente iniziato a scottare. Mi allontanai dal corpo di Reg e mi accasciai contro la ringhiera degli scalini, mentre mi arrivavano indistinte e ovattate le grida di Pete, che continuava a ripetere: «è lui! È colpa sua!».

Con la vista annebbiata dalle lacrime, vidi che Abraham aveva atterrato quell’assassino e lo teneva fermo, la guancia premuta contro il terreno. Vidi Deanna che cercava lo sguardo di Rick come fosse un’ancora di salvezza. La pistola che Rick stringeva tra le mani era puntata su Pete.

«Rick», mormorò la leader di Alexandria.

Un secondo di silenzio, il più lungo, prima che la donna parlasse di nuovo.

«Fallo» e mi venne istintivo guardare altrove.

Un colpo, il rumore assordante del bossolo che tintinnava sul terreno, un silenzio ancora più assordante che venne interrotto da una voce sconosciuta, in quel momento sospeso.

«Rick?».

Nonostante fossi sconvolta, riuscii ad alzare lo sguardo sull’uomo che aveva appena parlato. Lo vidi offuscato, ma la persona che si trovava accanto a lui la misi a fuoco subito; era l’unica della quale avessi bisogno in quel momento. O in qualsiasi altro momento.

Il suo nome si formò sulle mie labbra e uscì in un sussurro inudibile.

Daryl.

Non capii come, ma l’arciere sembrò udire il mio mormorio, perché subito dopo il suo sguardo incrociò il mio: la sua espressione mutò come se avesse appena visto un fantasma. Probabilmente, sconvolta com’ero, assomigliavo davvero a un fantasma. Le lacrime non accennavano a fermarsi, mentre con la coda dell’occhio vedevo Josie che aiutava Deanna ad alzarsi; qualcuno aveva spostato il corpo di Reg dalla pozza di sangue che si era creata.

Avevo sbagliato tutto: non era andata bene, per niente. Era andata di merda, come aveva previsto Daryl. Ci sarebbe stato un momento in cui avrei smesso di essere un’illusa? Alzai lo sguardo appena in tempo per vedere Daryl che si inginocchiava di fronte a me.

«Beth», mi chiamò, con gentilezza.

Mi bastò osservare il suo volto per sentirmi un po’ meglio e annuire. Feci per alzare le mani e sfregarmi le guance per asciugarle dalle lacrime, ma con un gesto fulmineo Daryl mi afferrò per i polsi e mi bloccò. Lo guardai interrogativa, poi lo notai e ricordai: le mie mani erano impregnate del sangue di Reg.

«Aspetta», disse, lasciando la presa e facendo sparire la mano dietro la schiena. Quando la riportò avanti, stringeva il suo fazzoletto nero. In un flash, mi ricordai di quando eravamo appena scappati dalla prigione e mi era stato prestato per raccogliere le bacche, per noi e per la nostra famiglia. Sentii un tuffo al cuore.

Scossi la testa e strinsi gli occhi, ritirando le mani. «Te lo sporcherò», mormorai, con la voce rotta.

Lui sbuffò. «Da’ qua», mormorò, poi mi riafferrò con gentilezza il polso. Con la mano coperta dal fazzoletto, massaggiò la mia per pulire via il sangue; con meticolosità, passò la stoffa sul palmo, sul dorso, sulle dita. Poi, fece lo stesso con l’altra; il suo tocco era piacevole e delicato come una carezza, il cui conforto mi si irradiò fino al cuore. Nel frattempo, non riuscii a scostare lo sguardo dal suo volto, celato in parte dai capelli che gli ricadevano sulla fronte.

«Fatto», disse, lasciando le mie mani. Ripose il fazzoletto nel taschino anteriore della camicia che indossava.

«Se me lo lasci te lo lavo».

Si strinse nelle spalle. «Dopo lo butterò nel lago. Forza, alzati», mi invitò, spostandosi di lato e poggiandomi una mano sulla schiena. Tornare in piedi fu come essere immersa nuovamente nella realtà. Il vociare indistinto si era affievolito appena: molti degli abitanti non c’erano più – sicuramente Rick doveva aver dato l’ordine di tornare ognuno a casa propria – così come i due cadaveri; forse era stato Abraham a portarli via. In piedi attorno al fuoco erano rimasti lo sceriffo, l’uomo a me sconosciuto e Carol. Poi, Deanna, che era seduta per terra, di fronte alla pozza di sangue di suo marito e fissava il vuoto.

La guardai, piena di compassione, mentre Daryl si rivolgeva a Rick. «Che diavolo è successo, amico?», ma non ascoltai la risposta.

Mi avvicinai a Deanna, chinandomi accanto a lei. «Deanna…».

«Ho sbagliato tutto», mormorò, senza guardarmi. In realtà, non ero nemmeno sicura che si stesse rivolgendo a me. Sospirai, piena di dispiacere. Avevo capito a cosa si riferiva, che ragionamento stava facendo: se avesse allontanato prima Pete, se avesse ascoltato prima Rick, Reg sarebbe stato ancora vivo. Lo avevo fatto anche io, con Noah. E sapevo che l’unica cosa da fare, fosse quella di lasciarle spazio, seppur con riluttanza. Le strinsi la spalla per un secondo, poi mi alzai e mi allontanai. Lanciai un’occhiata alle mie spalle, gli “adulti” che stavano discutendo fittamente di strategie, scelte, cose che in quel momento non avevo la minima voglia di sentire. Volevo solo tornare a casa e farmi una doccia, provare a dormire e affrontare tutto il giorno dopo.

Me ne andai silenziosamente, lasciandomi alle spalle quel luogo di morte. Dopo essermi allontanata di qualche metro dal cortile di Deanna, sentii dei passi alle mie spalle: mi voltai, allarmata – da cosa, poi? – per tranquillizzarmi immediatamente quando capii che era Daryl. Mi fermai in mezzo alla strada, osservandolo mentre mi raggiungeva.

«Ehi», proferii, quando si fermò di fronte a me. Che strana voce mi era uscita. Mi schiarii le corde vocali, prima di continuare. «Stai andando da qualche parte per conto di Rick?».

Lui tergiversò qualche istante, torturando la tracolla della balestra con le dita, issata sulla sua spalla destra. «Uhm, no».

Rimasi in silenzio, osservandolo perplessa, in attesa che aggiungesse qualcosa. Abbassò lo sguardo: sembrava… in imbarazzo? Cosa gli prendeva?

Stavo per parlare, quando Daryl alzò nuovamente lo sguardo nel mio.

«Stai bene?», domandò, in tono basso.

La nostra bolla ci risucchiò nuovamente, quando capii che non stavamo andando nella stessa direzione per motivi diversi, ma lui mi aveva raggiunta perché era preoccupato per me. Voleva assicurarsi che stessi bene. Appena realizzai, mi si riempirono gli occhi di lacrime, mentre una sensazione calorosa si diffuse nel mio petto.

Cercai di sciogliere il nodo che avevo in gola. «Potrei stare meglio», ammisi.

Lui annuì, studiandomi per qualche momento. Le perle azzurre che aveva al posto degli occhi mi intimidirono, per qualche ragione, così abbassai lo sguardo sul terreno, torturando la stoffa delle tasche del mio giaccone. Non volevo usare nuovamente Daryl come muro del pianto, o sfogare con lui il malumore per tutto quello che era successo.

L’aria frusciò accanto a me, e mi accorsi che Daryl mi aveva superato e si stava incamminando. «D-Dove vai?», gli domandai, incerta.

Lui si fermò, rispondendomi senza voltarsi. «Andiamo a casa», disse, nascondendomi la sua espressione.

Una sensazione confortante, come quella che avevo provato poco prima, raggiunse ogni terminazione nervosa nel mio corpo. Io stavo male e lui era lì, con me, per starmi vicino. Senza nemmeno il bisogno di chiederglielo. Gli occhi mi si inumidirono di nuovo, ma, questa volta, non per la tristezza. Per il sollievo.

Ricacciai le lacrime che minacciavano di uscire, raggiungendolo con uno scatto frettoloso. Daryl si assicurò che fossi al suo fianco, prima di riprendere a camminare, in silenzio. Il cuore iniziò a battermi forte, quando, con timidezza, allungai la mano verso la sua e la sfiorai. Avvertii il tremore che gli scosse la mano, ma non si tirò indietro, nemmeno quando intrecciai le mie dita con le sue. La sua mano era calda, ruvida e accogliente come mi era sembrata davanti a quella lapide, nel giardino della casa funeraria. Come mi era sembrata quando Daryl era stato con me una notte intera, mentre sfogavo il mio cordoglio per la morte di Noah.

Come in un tacito accordo, ci dirigemmo verso casa mia, raggiungendola dopo qualche minuto. Sulla porta di casa, mentre la aprivo, lo guardai con una domanda nello sguardo: mi seguì dentro, senza lasciare la mia mano. Chiuse la porta e mi guidò verso il salotto buio, invitandomi a sedermi sul divano. Lasciò la mia mano per appoggiare la balestra contro il tavolino, sul quale appoggiò il fazzoletto che aveva usato per pulirmi le mani.

Scattai in piedi. «Te lo lavo subito». Cercò di protestare, il volto corrucciato visibile nella penombra, ma lo fermai. «Per favore», dissi, guardandolo negli occhi, mentre prendevo quel pezzo di stoffa imbrattato dal tavolino. Non so cosa intravide nella mia espressione, ma mi lasciò andare. Gli sorrisi per ringraziarlo. «Torno subito».

Mi recai piuttosto velocemente in bagno, accendendo la luce – che, per qualche secondo, mi infastidì – e presi la bacinella che tenevo sotto il lavandino. Immersi il fazzoletto nell’acqua calda, cercando di ignorare i residui di sangue che rilasciò a contatto con l’acqua. Aggiunsi il detersivo e il disinfettante, usandoli per lavarmi bene le mani sotto il getto caldo, mentre la bacinella si riempiva. Diedi un’occhiata alla mia immagine riflessa, il mio viso emaciato che mi restituiva lo sguardo, fissandomi con occhi gonfi e arrossati. Decisi di darmi una rinfrescata anche al viso e sistemare la coda che, nel trambusto generale, si era disfatta. Chiusi il rubinetto e lasciai il fazzoletto ammollo, ritornando in salotto.

«Mi sono lavata le mani, nel frattempo. Vuoi?», gli domandai, indicando alle mie spalle con il pollice. Daryl mi aveva aspettata in piedi, tra il divano e il tavolino e lo trovai buffo, nel suo sentirsi ospite.

«Mh», mugugnò, superandomi e raggiungendo il bagno.

Mentre lo aspettavo, mi tolsi gli scarponi e mi accoccolai contro lo schienale morbido del divano, raccogliendo le ginocchia al petto. Non so se fosse il frutto di tutto quello che era accaduto, ma sentivo che tra me e Daryl c’era qualcosa di diverso. Forse lo vedevo più rilassato e aperto nei miei confronti? Forse cercava di starmi vicino come poteva, perché doveva avermi vista molto scossa, a casa di Deanna. E, beh, la ero.

Quando tornò, si sedette accanto a me, sul bordo del divano e gli avambracci appoggiati alle cosce, sporto in avanti.

«Puoi metterti più comodo, se vuoi», gli suggerii. Mi sentii un po’ stupida.

Daryl mi lanciò un’occhiata di sottecchi e rizzò le spalle, impacciato, appoggiando lentamente la schiena contro lo schienale e i palmi sulle cosce. Mascherai la risata che mi uscì spontanea con un colpo di tosse. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, immersi nella penombra del soggiorno.

«Stai meglio? Rispetto a prima, intendo», domandò all’improvviso, cogliendomi di sorpresa. Era la seconda volta, in una sola serata, che me lo chiedeva. Non era da lui.

«Io… più o meno. Dovevo solo allontanarmi da tutto quel trambusto. Perché me lo chiedi?», domandai, con cautela. Non volevo che si mettesse sulla difensiva.

Si strinse nelle spalle, con fare indifferente. «Così. Ti vedo strana».

La sua risposta mi incuriosì. «In che senso?».

Daryl mi lanciò un’occhiata indecifrabile, per poi guardare subito altrove. «Niente, lascia stare».

Lo guardai, incurvando le labbra in un mezzo sorriso. «Sai, penso di aver capito. Sono più silenziosa del solito, vero? Almeno con te». Si girò nuovamente a osservarmi, ma non mi smentì, così continuai. «Beh, il fatto è che non voglio usarti come muro del pianto e delle lamentele come faccio di solito», ammisi.

«Tu parla, poi quando mi stanco posso sempre far finta di ascoltarti», replicò, con finto tono burbero.

«Perché, non lo fai sempre?», scherzai. Poi abbassai lo sguardo, giocando con un filo sfuggito alle cuciture della manica della camicia. «Comunque, non saprei nemmeno cosa dire. Ho un tale caos in testa, in questo momento… Sono incazzata e delusa, delusa da come sono andate le cose. Delusa perché, ancora una volta, mi sono comportata come una che vive nel mondo delle fiabe. Che stupida – risi, amaramente – ero convinta che la riunione di stasera potesse risolvere tutto. Invece è finita con due persone uccise».

«Certe situazioni possono solo degenerare», commentò Daryl.

«Sì, ma… non l’ho mai preso in considerazione, quello scenario. Ancora non ho imparato che bisogna sempre essere pronti al peggio. Ricordarsi che esiste quella possibilità che le cose potrebbero andare male», mormorai, stringendo le braccia al petto. «Ieri sera, quando ti ho detto che sarebbe andato tutto bene, ne ero fermamente convinta. Non esisteva un’altra alternativa per me».

«Beh, è il tuo ruolo, quello di sperare».

Sorrisi, triste. «Sto iniziando a pensare che non sia poi così positivo, come modo di pensare. Tutte le volte che poi mi scontro con la realtà è come ricevere un pugno nello stomaco. Forse non sono ottimista, sono semplicemente stupida».

«Non dire stronzate», sbuffò Daryl. «Tanto non si sa un cazzo del futuro comunque, meglio essere positivi nell’attesa che le cose succedano, no? Belle o brutte che siano».

Il suo incoraggiamento, brusco ma sincero, mi fece sussultare. Mi voltai a guardarlo, senza riuscire a nascondere la meraviglia. Era sempre così incoraggiante, confrontarsi con lui, anche se amava interpretare il ruolo di persona burbera e indifferente. Quando non lo era affatto. Sentii gli occhi pizzicarmi, commossa dall’abilità di Daryl di trovare sempre le cose giuste da dirmi per farmi forza.

Abbassai lo sguardo sulla sua mano e gliela strinsi, sbilanciandomi verso di lui e accoccolandomi contro il suo corpo caldo.

«Grazie, Daryl», sussurrai, la voce spezzata. Ma il cuore era pieno di sollievo.

La cosa che mi soprese fu che non si irrigidì, quando mi appoggiai contro di lui: non riuscii a capire se fosse perché se l’aspettava – vista la piega che avevano preso le cose – o perché, forse, stava iniziando ad abituarsi al contatto fisico con me. Anzi, aumentò per un secondo la stretta sulla mia mano e appoggiò la guancia contro la mia nuca, senza dire altro. Il suo calore mi circondava e mi faceva sentire sicura, sicura anche del fatto che non sarebbe stato necessario chiedergli esplicitamente di rimanere. Non quella notte. Rimanemmo in silenzio per un po’; dopo non so quanto tempo, mi venne in mente una domanda.

«Chi era l’uomo con cui sei arrivato?».

Pensai che Daryl si fosse addormentato, perché ci mise qualche istante a rispondere. «Si chiama Morgan. È un amico di vecchia data di Rick. Cioè, è la prima persona che Rick ha incontrato in questo mondo di merda».

«Come hai fatto a trovarlo?».

«Ci siamo incontrati in mezzo ai boschi, a qualche miglio di distanza da qui. Si era perso e mi ha mostrato una cartina, sulla quale era scritto il nome di Rick. Abraham gli aveva lasciato un messaggio prima di partire per salvare il mondo, te la ricordi la storia?».

«Sì». In realtà, fu molto difficile concentrarmi su qualcosa che non fosse la naturalezza con cui riuscivamo a parlare con le mani intrecciate.

«Ecco. Non so come, è riuscito a trovarla. È tosto, quel figlio di puttana».

Risi dell’espressione colorita che gli uscì, stringendomi di più contro la sua spalla. «Si può dire che fosse nel luogo giusto, al momento giusto».

«Si può dire», asserì, facendo spallucce.

Ritornò di nuovo il silenzio complice nella quale eravamo immersi poco prima, ma, quella volta, fu lui a interromperlo.

«Domani seppelliranno Reg», mi informò.

Sospirai. C’erano troppi funerali in quel periodo, per i miei gusti. «Immaginavo. E Pete?».

«Penso che Rick lo voglia fuori dalle mura».

Mi irrigidii e il mio pensiero corse subito ai suoi figli, Ron e Sam. Immaginai come si sarebbero potuti sentire, vedendo il corpo del padre ripudiato dall’intera comunità. «Oh».

Daryl mi guardò di sottecchi. «Cosa?».

Mi strinsi nelle spalle. «Nulla, è che… da una parte lo capisco, dopo tutto quello che Pete ha fatto. Ha distrutto la sua famiglia e quella di Deanna. Però penso ai suoi figli, soprattutto a Ron. Se volessero andare a trovarlo, per ricordarlo… non potrebbero. Non è nemmeno giusto così».

«Pete era un pezzo di merda, credo che anche i suoi figli lo sappiano».

«Certamente, però… è morto. Ormai non può più fare del male a nessuno. Secondo me è giusto che chi rimane abbia un luogo dove piangere le persone che ha perso». I miei pensieri corsero al mio migliore amico e sentii un nodo doloroso stringermi la gola. «Sai, sono andata, per modo di dire, a trovare Noah. So che è stupido, che è una formalità, ma sapere che lui lì non c’è, perché i vaganti lo hanno ridotto in niente… sapere che non ha nemmeno avuto diritto ad essere seppellito, se ci penso mi fa stare male. Me ne sono resa conto solo ieri mattina».

Non so se lo immaginai, ma sentii la stretta di Daryl aumentare, attorno alla mia mano. Continuai, la voce che mi tremava appena. «Mi sarebbe piaciuto avere qualcosa da portare sempre con me, per ricordarlo. Ma siamo arrivati qui con niente e io non ho ancora avuto il coraggio di andare a casa sua. Anche se penso che l’abbiano già svuotata».

Daryl rimase in silenzio, probabilmente per darmi il tempo di ricompormi, o per rispettare i miei sentimenti. Non c’era molto che potesse dire o fare, per consolarmi. Ormai era andata così. Il silenzio calò di nuovo e, da lì in poi, non parlammo più. Ad un certo punto, sbadigliai sonoramente e Daryl, a quel punto, con un’insolita decisione, lasciò la mia mano per circondarmi le spalle con un braccio e farmi accoccolare contro il suo petto, mentre distendevo le gambe sul divano. Lo sentii rilassarsi: in tacito accordo, decidemmo di dormire lì, per quella notte. Allungai un braccio per afferrare il plaid che tenevo ripiegato sul bracciolo del divano e cercai di coprire entrambi alla bell’e meglio.

Cullata dal respiro di Daryl nel silenzio, lasciai che la stanchezza avesse la meglio e scivolai nell’incoscienza del sonno.

Quando mi svegliai la mattina dopo, mi ritrovai in posizione fetale sul divano, coperta totalmente dal plaid. Mi alzai a sedere e mi stropicciai gli occhi, infastidita dalla luce che filtrava dalle finestre, leggermente indolenzita. La balestra era sparita, così come Daryl: ero da sola. Rimasi qualche istante a contemplare il vuoto, cercando di capire dove potesse essere andato, senza che me ne accorgessi. Mi trascinai fino al bagno e mi sciacquai la faccia: trovai il fazzoletto di Daryl strizzato e messo ad asciugare sulla struttura della doccia. Forse doveva fare qualcosa con Rick, quella mattina.

Andai in cucina, dove l’orologio segnava poco più delle otto e mezza. Mentre ingurgitavo pigramente uno dei biscotti di Carol, mi ritrovai ad osservare la mano che Daryl, la sera prima, aveva stretto per così tanto tempo. Si era pentito di essersi avvicinato così tanto a me? Aveva bisogno di riordinare un po’ le idee, dopo il caos della sera prima? Cercai di non pensarci e non farmi troppe domande. Decisi di farmi una doccia, mi lavai i denti poi andai di sopra a indossare dei vestiti puliti. Decisi di andare da Maggie e poi dal resto della mia famiglia, per vedere un po’ come fosse la situazione. Mentre buttavo i vestiti del giorno prima nella cesta dei panni sporchi, sentii bussare alla porta.

Quando andai ad aprire, mi ritrovai Daryl sulla porta.

«Buongiorno. Posso?», esordì, indicando il corridoio con un cenno del capo.

Gli sorrisi, piacevolmente sorpresa. «Oh, buongiorno. Sei venuto a riprenderti il fazzoletto? Non è ancora del tutto asciutto», proferii, mentre lo lasciavo entrare. Quando raggiunse il soggiorno, notai che portava con sé uno zainetto nero, molto simile a quello che avevamo trovato al country club. Cercai di soffocare la mia curiosità, mentre lo osservavo fermarsi in mezzo alla stanza.

«Va bene lo stesso, si asciugherà nella mia tasca», rispose, stringendosi le spalle.

Annuii. «Pensavo fossi a casa, con gli altri. Stavo per passare», lo informai. Lui mi squadrò per qualche istante, poi si voltò e si diresse in cucina, appoggiando lo zaino sul tavolo. Lo seguii, perplessa. A quel punto, non riuscii più a trattenermi.

«Daryl, cos’è quello?», domandai, osservandolo dall’altra parte del tavolo, mentre lo apriva. Sembrava… teso?

«Sono stato a casa del tuo amico, stamattina», disse, senza guardarmi, mentre mi porgeva lo zaino aperto. Mi bloccai e per un momento mi sembrò di non riuscire più a respirare. Il cuore iniziò a battermi furiosamente, rimbombando nelle orecchie. «Non l’hanno ancora sgomberata».

Mi sforzai di non restare lì impalata e mi avvicinai, per vedere il contenuto dello zaino: c’erano vari oggetti, al suo interno. Con la mano tremante, la prima cosa che estrassi furono tre o quattro CD di un cantante che non avevo mai sentito, ma che sicuramente piaceva a Noah. Li appoggiai sul tavolo, passando agli oggetti successivi. Estrassi un blocco piuttosto pesante e lo aprii: erano pieno di appunti e schizzi di elementi architettonici che doveva aver prodotto durante tutto il tempo che aveva passato con Reg. Se n’era fatto procurare uno, dopo che il suo “mentore” gli aveva suggerito di segnarsi tutto ciò che riteneva importante. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime, che andarono a bagnare le guance quando tirai fuori ciò che era finito in fondo lo zaino: era una foto, scattata sicuramente da Aaron, che ritraeva me e Noah, che ridevamo per qualcosa. Riconobbi la cucina del reclutatore, doveva essere stata scattata dopo una delle varie cene a cui eravamo stati invitati, appena arrivati, spaesati. L’aveva avuta Noah, per tutto quel tempo. Il mio migliore amico…

Con la mano che non stringeva la foto, mi asciugai le guance, alzando lo sguardo su Daryl. Sentivo di avere un’espressione sconvolta, ma non riuscii a trovare le forze di ricompormi.

«È tutto quello che sono riuscito a trovare», disse, in tono basso, fuggendo il mio sguardo. Portò la mano alla cintura, alla quale era appesa una fondina, con una pistola al suo interno. «E questa. Era sua».

Quando me la allungò oltre il tavolo, la presi in mano e la osservai: sulla guancetta in legno, era intagliata una “N”, non molto grande, ma dai contorni ben definiti.

«Olivia mi ha permesso di prenderla. Io ho solo intagliato la sua iniziale, così…», proferì, interrompendosi subito. Sbuffò, ficcando le mani nelle tasche. «Beh, hai capito. È tua, adesso».

Così sarà sempre con te, sul campo di battaglia.

Io continuavo a fissarlo, senza parole. Per la prima volta, rimasi totalmente a corto di cose da dire: era tutto troppo. Cercai di elaborare tutto quello che avevo appena vissuto: Daryl era andato a casa di Noah, al posto mio, perché io non me la sentivo. Aveva raccolto degli oggetti del mio migliore amico, come ricordi in suo onore. Era andato all’armeria e aveva inciso l’iniziale del nome del mio migliore amico, come se in quel modo potessi averlo sempre con me, a proteggermi dai pericoli di quel mondo.

Non c’era niente di abbastanza che potessi dire per poter esprimere la profonda gratitudine che stavo provando per Daryl, in quel momento. Per tutto quello che aveva fatto per me. Gratitudine che, lo avvertii chiaramente, si mischiò assieme a tutti i sentimenti che provavo per l’arciere. Il mio cuore rischiava di strabordare, tutto quell’insieme di emozioni rischiava di sopraffarmi. Il nodo che mi stringeva la gola era stretto, per quello capii che non sarei stata in grado di parlare: ero arrivata a livello. Non potevo più rimandare, fingere, accantonare quello che provavo per Daryl. Non dopo ciò che aveva fatto per me in quelle ultime ore. Per una volta, non mi sarei servita delle parole, sarebbero state inutili e riduttive. Sarei passata ai fatti, come era solito fare lui.

Cercai di controllare il respiro, mentre con lentezza appoggiavo la pistola sul tavolo. Il mio sguardo incrociò il suo e, da quel momento, non lo lasciò. Nemmeno mentre, con la stessa lentezza, aggiravo il tavolo per fermarmi di fronte a lui.

Tutto ciò che a avevo intorno, sparì; tutto quello che non era il suo sguardo di ghiaccio, animato dall’incertezza e sì, anche dalla paura – aveva intuito dove ci avrebbe portato tutto quello? – il suo volto poco distante dal mio, la sua pelle che mi chiamava scomparve dalle mie percezioni. Esisteva solo Daryl, c’era sempre stato solo lui. E sapevo che poteva capirlo dalla determinazione, mista a desiderio, con cui lo stavo guardando.

Con lentezza snervante, iniziai ad avvicinare sempre di più il mio volto al suo. Avvertii subito che il suo respiro si era fatto irregolare, così come il mio.

«Beth», protestò debolmente, con voce bassa e arrochita. Cercò fino all’ultimo di sottrarsi, allontanando il viso dal mio man mano che mi avvicinavo. Ma non glielo permisi perché, nello stesso momento in cui mi issai sulle punte dei piedi con uno scatto, gli afferrai il colletto della camicia e lo avvicinai bruscamente a me, facendo scontrare le nostre labbra.

Frastornata dall’impeto di quel gesto, ci misi qualche secondo per elaborare che stavo baciando Daryl: a occhi chiusi, cercai di concentrarmi sulle sue labbra, ruvide ma calde. Avevo aspettato così tanto di scoprire che effetto facessero, contro le mie…

In un primo momento, l’arciere oppose resistenza, afferrandomi entrambe le braccia, probabilmente per allontanarmi da sé. Ma non lo fece: dopo qualche secondo, lo sentii rilassarsi – o, forse, rassegnarsi – lasciando andare un respiro profondo, spezzato da un tremito. Trovai il coraggio di dispiegare appena le labbra, per assaggiare le sue con la punta della lingua.

Mi allontanai da lui per mancanza d’aria, entrambi avevamo il fiato corto. Riportai i talloni per terra, senza lasciargli il colletto, e lui si sporse verso di me, sovrastandomi, facendo scendere le mani sui miei fianchi, mentre riprendeva fiato con la fronte appoggiata alla mia. Ci guardammo, più vicini che mai: l’intensità con cui mi guardava avrebbe potuto farmi cedere le ginocchia, se non fossi stata aggrappata al suo corpo.

E non capii cosa lesse nel mio sguardo, se fu quello l’attimo esatto in cui si arrese totalmente a quello che provavamo. Riuscii solo a sentire la sua mano destra che risaliva il mio braccio e arrivava a posarsi sulla mia guancia, mentre con l’altro braccio mi cingeva i fianchi per stringermi a sé. Quella volta, Daryl ricambiò il bacio con timido trasporto, dispiegando le labbra e sfiorando la mia lingua con cautela, come se non volesse lasciarsi andare del tutto. Come se fossi un oggetto fragile da maneggiare con cautela.

E invece, in vita mia, non mi ero mai sentita così forte come tra le sue braccia.

 

 

Note autrice

Eeeee con questo, si conclude la stagione cinque in questa storia! Non mi sembra vero di essere arrivata a questo punto di svolta, ma, finalmente, è successo. Sinceramente, vi "dono" questo capitolo con molta, molta ansia. 

Un po' (anzi, tanto) perché come al solito ho tardato con l'aggiornamento. Ho passato veramente un brutto periodo questo giro (ergo, sono stata lasciata), non mi sentivo proprio in vena di portare avanti quella che è, a tutti gli effetti, una storia d'amore. Adesso mi è passato tutto e sto benissimo, l'unico problema, ultimamente, è stata la mancanza di tempo. Ho sempre avuto tanti problemi di organizzazione, ma ho iniziato seriamente a lavorarci. Questa storia va lenta, me ne rendo conto, ma nonostante tutto non ho mai pensato un secondo di mollarla, e non l'ho fatto. Ora che ho finito di lavorare, avrò del tempo in più da dedicare al rewatch della stagione 6 e alla scrittura, quindi, ecco, spero di poter aggiornare una volta al mese. Ci proverò, seriamente.

Altro fattore d'ansia: il bacio. A) perché sono arrugginita con la descrizione di baci B) perché sono Beth e Daryl, e con loro mi sembra sempre di camminare su un campo minato. Questo capitolo è, a tutti gli effetti, un finale di stagione. Perciò, ho cercato di non calcare troppo la mano sul bacio finale, che non è il punto focale di questo capitolo, ma un punto di svolta che serve per passare a una fase successiva della storia. Magari vi sarà sembrato un po' lasciato a metà, non troppo approfondito, ma l'ho fatto apposta. Come se fosse una specie di cliffhanger, in un certo senso.

Mi dispiace se il capitolo vi può risultare pesante, specialmente nella prima parte, ma volevo concentrare tutto qui per far finire la quinta stagione e passare alla sesta, senza ulteriori allungamenti.

Quindi, questo è. Spero che abbiate apprezzato il capitolo e che vogliate condividere le vostre impressioni con me :) Intanto, ringrazio di cuore Tracey, vannagio (che mi ha "suggerito" questo interessante spunto nella sua recensione[1])
e psichedelia95 che hanno recensito lo scorso capitolo.

Grazie per il supporto che mi date, anche solo leggendo e mettendo tra le preferite/seguite, nonostante io sia un disastro.

Alla prossima,
Blakie 

P.S.: per questa volta, mi sono permessa di rubare il titolo alla puntata. Buona parte di questo capitolo ruota intorno ad essa. Inoltre, lo vedo bene anche per quello che, finalmente, Beth riesce a conquistare: il coraggio di farsi avanti con Daryl :P

 

   
 
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