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Autore: Evola Who    09/11/2017    1 recensioni
[Blade Runner]
[Blade Runner](Ambientato un anno prima degli eventi di “Blade Runner 2049”)
Qual è la differenza tra un replicante e un umano?
Sono molte, almeno è tutto quello che ci fanno credere…
E se un umano volesse credere di essere un replicante? Che cosa succederebbe?
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Blade Runner
2048

Le memorie di un ex Replicante
.

 

Deserto del Nevada, 2048
 

Una macchina atterò nel mezzo di quel deserto nebbioso e ne uscì una donna di 50 anni, corporatura normale, altezza media, viso rotondo e un poco paffuto con appena qualche ruga, portava gli occhiali neri a montatura quadratura sottile e i capelli lunghi fino al collo, neri e lisci.
 
 Indossava una maglia a maniche lunghe, nera e aderente, dei blue jeans scuri, un trench Burberry di colore grigio scuro e indossava una tracolla marrone chiaro di pelle e degli stivaletti corti neri.
 
Stava camminando con le mani in tasca, guardandosi intorno con aria indifferente, ma dentro di sé sapeva che stava andando nel posto giusto.  

Quella donna era EF30.01-1.9.9.8, ex investigatore per la LAP, specializzata in persone scomparse.
 
Era una replicante di ultima generazione con vita più lunga e con la capacità di invecchiamento. O, almeno, era quello che aveva fatto credere negli ultimi tre anni, e aveva un ultimo caso da risolvere: trovare Rick Deckard.
 
Camminava in mezzo a quel deserto, senza usare nessun tipo di tecnologia, camminava dritto ignorando tutto quello che si trovava attorno a lei.
 
Finché non trovò l’ingresso di un enorme casinò abbandonato. Entrò e vide tutto l’enorme ingresso lussuoso ricoperto solo da quella luce arancione bruciata e accesa come se stesse tramontato, ma solo a metà.
 
Non si fece impressionale da nulla di quella scena, aveva un caso da risolvere e probabilmente sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.
 
Cominciò a camminare in quel casinò, girando per le stanze senza trovare nessuno. Sapeva che lui era lì, lo diceva il suo istinto e la sua capacità di trovare le presone scomparse. Come se sapesse il motivo delle loro scomparse, sia della vittima che dei rapitori. 
 
Continuò a camminare in una stanza da giochi, finché non sentì un suono: un suono di pianoforte, che suonava un tono dolce e delicato, quasi un pianto nostalgico.
 
Capì che era lui, bastava solo seguire il suono. Quando arrivò al piano sopra all’ingresso, dove c’era il pianoforte, ma nessuno che lo suonasse. Guardò i tasti bianchi e neri del piano, con le dita li accarezzò senza suonarli, finché non sentì dei passi.
 
Girò la testa verso destra, vedendo una sagoma nell’ombra: un cane di altezza media e a pelo lungo seduto sul pavimento.
 
Fu la prima volta in cui rimase sorpresa da qualcosa da quando era arrivata lì, lo guardò, inclinando leggermente la testa, e si chiese se quel cane fosse vero o meno.
 
Dietro di lei sentì qualcos’altro, degli altri passo lenti, capì perfettamente di che cosa si trattava, così alzò le mani in alto come segno di arresa, fece mezzo sorriso, e poi si girò dicendo: “Immagino che lei sia il padrone di quel cane. Vero, agente Deckard?”.
 
Vide la sagoma di una persona nell’ombra, che si avvicinò lentamente alla luce arancione, e si rivelò essere un uomo con il braccio alzato dritto verso di lei e la pistola in mano puntata in sua direzione.
 
Ormai era invecchiato, aveva i capelli grigi, una piccola barba incolta e il viso rugoso e stanco. Indossava una semplice t-shirt grigia, i pantaloni e le scarpe scure.
 
Camminava lentamente verso di lei, con gli occhi pieni di rabbia e disprezzo: “Peccato che hai parlato prima tu. Volevo farti una domanda” le disse.
 
“Su chi sono e il perché sono qui?”   
 
“No. Se avevi un pezzo di pezzo di formaggio” rispose e si fermò davanti a lei con loro differenza di altezza di quasi ventri centimetri.
 
La donna rimase perplessa: “Un pezzo di formaggio?”.
 
“Sì, un pezzo di formaggio. Come ne ‘L’isola del tesoro’”.
 
“Oh!” rispose lei con finto tono di sorpresa “Vedo che qualcuno legge i grandi classici. I miei complimenti.”
 
“E vedo che qualcuno no.”
 
“Preferisco più i romanzi gotici e quelli di K. Dick” disse ancora la donna e fece un sorriso cinico.
 
Rick la guardò con odio con la pistola pronta a sparare proprio contro il suo viso.
 
“Chi sei?” le chiese allora.
 
“Sono EF30.01-1.9.9.8. Ex consulente investigativo” rispose la donna con espressione indifferente, guardandolo negli occhi.
 
“Quindi, eri un detective privato”.
 
“Più che privato, lavoravo per lo più per la LAPD. Soprattutto nei casi delle persone scomparse” disse, poi abbassò le mani, mettendole nelle tasche del trench.
 
Rick la guardò con aria ancora più furiosa dopo quell’ultima affermazione, ma dal suo gesto e dal suo comportamento capì che non era né spaventata né intimorita.
 
“Sì, hai capito bene. Ho detto che sono un ex consulente investigativo. Ovviamente non lavoro più con la LAPD da un bel po’. In più, sono venuta qui da sola e disarmata”.
 
“Perché sei venuta disarmata?” domandò lui con tono confuso.
 
“Perché per venire qui non mi serviva una pistola. Poi ho sempre preferito usare la mente più che la forza, ma ho studiato per anni autodifesa. Quindi, potrei disamarla, stordirla e buttarla di sotto in meno di un minuto, senza che nemmeno lei se ne accorga. E, a giudicare dalla sua età e dall’altezza di questo piano, potrebbe morire sul colpo” disse e lanciò una veloce occhiata di sotto.
 
Rick rimase stupito dalle sue parole e anche dalla sua indifferenza e spavalderia. Tuttavia, mantenne il suo sguardo arrabbiato, dicendo: “Come hai fatto a trovarmi?”. 
 
“Sono solo brava nel mio lavoro, agente Deckard” rispose la donna e fece spallucce con un mezzo sorriso.
 
“Sei una specie di replicante?” chiese lui con tono duro.
 
“Sì. O almeno, ci credevo” rispose, abbassando lo sguardo e suonando un tasto del pianoforte.
 
“Che vuol dire?”.
 
Rick era confuso da quelle parole, erano anni che aveva deciso di tagliarsi fuori dal mondo. Non sapeva ormai più niente dei progressi della società e soprattutto dei replicanti.
 
“Mi ascolti” disse lei, guardandolo negli occhi “Ho passato ben undici mesi a cercarla, rinunciando a tutto quello che avevo e usando vie meno legali. Quindi, ha due possibilità: o mi uccide adesso senza chiedermi niente, o abbassa quella pistola e mi concede cinque minuti del suo tempo. A giudicare da ciò che vedo, penso che lei abbia molto tempo” si guardò intorno “Ma non credo che ucciderebbe una donna disarmata”.
 
“Perché? La gente ha spesso cercato di ucciderti?” domandò Rick con tono finto sdolcinato.
 
“Purtroppo no. Ma ho risolti tanti casi…” rispose lei, guardando in basso.
 
Rimasero in silenzio. Rick la guardava ancora con lo sguardo arrabbiato, mentre lei aveva gli occhi fissi sul pianoforte e suonava qualche tasto.
Rick sopirò, abbassò la pistola: “Ti va di bere?” chiese. 
 
La donna alzò lo sguardo su di lui con aria stupita, smettendo di suonare.
 
Qualche minuto dopo…
 
Arrivarono in uno studio, con le finestre enormi, una grande libreria e un bancone da bar con dietro diversi scaffali pieni di bottiglie. 
 
“Vuoi del whisky? Ho migliaia di bottiglie di whisky” chiese Rick, andando dietro al bancone.
 
“Hai qualcosa che non sia alcolico?” chiese lei, guardandolo il Jukebox.
 
Rick la fissò con aria stranita per quelle parole, mentre lui si versava un bicchiere per sé e le chiese: “Non ti piace bere?”.
 
“Non mi piacciono le cose amare. E poi, l’alcol rovina i neuroni del cervello” rispose sedendosi sul bancone.
 
“Oh, abbiamo una cervellona qui” rispose Rick sarcasticamente mentre si versava un altro bicchiere.
 
Lei lo guardò con aria indifferente, facendo finta di non aver sentito. Prima di mettere a posto la bottiglia, buttò qualche sorso per terra, dove il cane che la donna aveva visto prima andò a leccare per terra.
 
“Lo sa? Visto che vive nel paradiso degli alcolisti, potresti usare una ciotola per il tuo cane. No?” domandò lei facendo spallucce.
 
Rick le lanciò una occhiataccia, dicendo: “Senti, se vuoi qualcosa da bere senza alcol ho solo acqua, latte e tè freddo”.
 
“Vada per il tè freddo”.
 
Così lui prese un bicchiere, una bottiglia ti tè e glielo servì.
 
“Allora? Hai un nome?” chiese Rick con tono duro.
 
“Te l’ho detto, sono EF30…”
 
“No, quello non è un nome!” la interruppe lui con tono brusco “Quello è solo un numero di serie. Voglio sapere se hai un vero nome”.
 
“Eva. Mi chiamo Eva” rispose e glielo disse guardandolo negli occhi.
 
Eva?” disse Rick con un sorriso cinico “Un nome un po’ insolito”.
 
“Lo so. Forse è per questo che mi piace” rispose la donna, bevendo il suo tè.
 
“E sei una replicante?” domandò Rick.
 
“Sì. O, almeno, è quello che ho pensato di essere per molto tempo…” rispose lei e guardò in basso con aria stanca.
 
“E che cavolo vorrebbe dire?”.
 
“Che facevo parte del progetto della psichiatra Mary Young” dalla sua tracolla fuori un fascicolo e lo posò sul balcone “Il progetto riguardava una cura sepimentale per il controllo delle emozioni e della memoria. Noto meglio come ‘Controlla te stesso’”.
 
“E che cosa sarebbe?” domandò Rick perplesso.
 
Eva spiegò che il progetto della dottoressa Young era costituito da impulsi e famarci per fare credere al soggetto di essere un replicante di ultima generazione, di conseguenza questo credeva di avere la super forza, per riconoscerli e classificarli usavano le loro inziali e la data di nascita come numero di codice. Infatti il numero 30.01.1.9.9.8 era la data di nascita di lei.
 
“Quindi, hai cinquant’anni” disse Rick, interrompendola dopo aver guardato il suo fascicolo.
 
“Già. Li porto bene. No?” rispose indifferente e continuò: lo scopo di quell’esperimento era far credere al soggetto di essere un replicante per un breve periodo, per poi farlo ritornare normale pian piano, portandolo addirittura a dimenticarsi di quella esperienza.
 
 L’unico modo per distinguere un vero replicante e un umano che credeva di esserle era solo una piccola voglia temporale: le inziali della Dottoressa Young.
 
“E ovviamente, io ne ho fatto parte”.
 
Rick rimase confuso da quella storia e domandò: “E perché cavolo delle persone dovrebbero voler essere dei replicanti?”.
 
“Qual è la differenza tra un umano e un replicante?” chiese Eva mettendo le braccia incrociate sul bancone e avvicinandosi al volto di Rick.
 
Lui non rispose, la guardò negli occhi con aria perplessa.
 
“L’essere umano prova emozioni. Quelle emozione sono provocate per la maggior parte da ricordi. Ci sono ricordi che vogliamo dimenticare o emozioni che vogliamo controllare, ma senza riuscirci. I replicanti no. Loro non hanno dei veri ricordi e quelli che hanno o sono creati per loro per dare un senso alla loro vita, o sono reali ma appartengono a qualcun atro. Loro non provano le emozioni che provano gli esseri umani come conseguenza di quei ricordi. O, almeno, così credevo” spiegò, quindi guardò in basso per pochi istanti.
 
Rick comico a capire: “Quindi, se un essere umano crede di essere un replicante, può cancellare più facilmente un ricordo o controllare un’emozione?” domandò.  
 
“Esatto” rispose Eva “All’inizio il progetto fu creato per permettere alle vittime di stupro di superare e dimenticare il ricordo. Poi, venne usato anche per le persone con problemi di controllo della rabbia e così via. Finché non fu usata anche per curare le malattie mentali come la schizofrenia.”
 
“E perché tu ne hai fatto parte?”.
 
“Avevo tanti ricordi da dimenticare. In più, ho sempre sofferto di ansia e depressione. Pensavo che mi potesse aiutare”.
 
 Guardò in basso, con gli occhi malinconici per il ricordo “La dottoressa Young mi aveva proposto di fare un esperimento, ovvero allungare il mio ‘dosaggio’. Al posto di sottopormi all’esperimento per sole due settimane, l’ho fatto per tre anni”.
 
“E come mai ti ha prescritto un dosaggio così lungo?” domandò Rick sorpreso.
 
“Voleva vedere e provare che cosa sarebbe successo se un umano avesse creduto di essere un replicante per così tanto tempo…”.
 
Eva spiegò cosa aveva provato durante quel periodo: all’inizio era normale, viveva la sua vita, senza pensieri e ansia.
 
Poteva cancellare i ricordi che voleva dimenticare, ma raramente aveva dei ricordi felici che non cancellava.
 
 Dopo un anno, cambiò radicalmente, avendo più ricordi che non voleva cancellare, ma iniziò anche notare l’odio degli esseri umani nei confronti dei replicanti, i ricordi cominciavano a essere maggiori, più nitidi, più lunghi e più drammatici. Si tormentava ogni giorno, chiedendosi se quelli fossero ricordi veri o no.
 
Durante il terzo anno, si chiedeva se la sua vita avesse senso, se avesse un vero scopo e cominciava ad avere desideri che pensava di aver cancellato da umana e che un replicante non avrebbe dovuto avere.
 
“Ovvero?” chiese Rick.
 
“Di sposarmi, avere un bambino e creare una famiglia” disse Eva dura, ma una lacrima le scese lungo il volto “Sogni che mi sono cancellata da sola, ma quando ero un replicante mi sono fatta un sacco di domande sulla mia esistenza, su quello che potevo fare o non fare e sul perché non potessi essere considerata come una persona, solo perché ero stata creata.
Avevo delle emozioni e desideri anche io… e perché non potevo creare una famiglia”.
 
Lo guardò con aria dura, ma con gli occhi lucidi.
 
Lo sguardo di Rick si addolcì un po’ e guardò in basso. 
 
“Sono ricaduta in depressione. Finché non ho ricordato chi sono veramente e ho abbandonato il progetto…”. Guardò in basso.
 
“Mi dispiace” rispose Rick.
 
“Non fa niente” disse la donna, sospirando e poi restando in silenzio.
 
Tuttavia, Rick era rimasto con un dubbio, per questo domandò: “Ed io? Che cosa c’entro io con tutto questo?”. La guardò.
 
Eva alzò la testa, dicendo: “Perché ho un ricordo su di lei. Un vecchio ricordo che risale al 2019”. Fece un mezzo sorriso.
 
Rick aveva gli occhi spalancati per quella frase e perché non ricordava nulla di lei.
 
Così Eva decise di spiegare: nel 2019 aveva 21 anni, studiava criminologia e faceva un tirocinio alla polizia.
 
“Ricordo di averti visto più volte di sfuggita. Con quella lunga giacca, il viso giovane e duro e quelle orrende camicie a scacchi” disse e fece una piccola risata “La trovavo affasciante e avevo una piccola cotta per lei. Ma avevo 21 anni e lei poteva essere mio padre. Molti dei suoi vecchi colleghi mi dicevano che lei era uno stronzo, arrogante e alcolista del cazzo.”
 
Rick non ribatté ma sopirò con frustrazione.
 
“Poi, un giorno, lei è scomparso e, dopo trent’anni, il mio primo ricordo da quando sono tornata consapevole di essere umana, riguardava lei. Ho capito quale sarebbe stato il mio obbiettivo: trovare l’agente Rick Deckard, vivo o morto”.
 
“Non ti interessa scoprire il perché?” chiese Rick incuriosito e voleva sapere che cosa poteva dire.
 
“Il suo ultimo incarico era cercare un gruppo di ribelli replicanti. Tutti morti. Poi, lei è scapato via con una donna. Deduco che sia lei” disse e con lo sguardo indicò una foto incorniciata che ritraeva una giovane donna dalla pelle chiara e dai capelli neri corvini.
 
Rick non disse nulla, guardò in basso con lo sguardo preso.
 
“Mi dispiace” disse Eva guardando il bicchiere.
 
“Per cosa? Non ti ho detto quello che è successo” rispose Rick stupido da quella frase.
 
“Qualsiasi cosa sia successa tra di voi, deve essere stata drammatica, orribile e contro quasi regola, per farla scappare così. Magari lei è scappato da se stesso o magri per proteggere qualcuno. Una cosa è certa, ormai: vuole stare solo. Anche se le lo chiedessi di raccontarmi quello che è successo, di certo non mi risponderebbe”. Lo fissò dei occhi.
 
“Sei davvero brava a dedurre”.
 
“Te l’ho detto. Sono brava nel mio lavoro”.
 
“Ma ora che tu hai risolto il tuo caso, che cosa vuoi fare?” chiese Rick.
 
“Semplice. Suicidarmi” rispose Eva con tono calmo.
 
“Che cosa?!” esclamò l’ex agente con tono arrabbiato.
 
Eva rimase sorpresa della sua reazione: “Voglio suicidarmi” ripeté.
 
“E perché cazzo dovresti fare una cosa del genere?!” urlò Rick.
 
Eva rimase offesa da quell’atteggiamento e rispose a tono: “A lei che cosa importa?! Ho capito che cosa vuol dire essere un replicante, tutta la nostra società è solo una schifosa menzogna che gioca a fare Dio con degli esseri viventi! Anzi, i replicanti sono più umani di noi! Per risolvere questo caso personale ho perso tutto! Quindi, non ho più niente per cui vivere! Perché andare avanti?”.
 
“Perché ucciderti sarebbe una offesa per tutti i replicanti che combattono per vivere!” rispose lui arrabbiato, sbattendo le mani sul bancone.
 
Eva rimase stupita dal suo atteggiamento e spaventata dal tuo tono.
 
“Tu dovresti suicidarti solo il perché non hai più uno scopo? Beh, io ho fatto delle scelte, delle cose che mi hanno portato qui a isolami! E non immagini nemmeno tutto quello che ho dovuto subire e provare in quel periodo, in quei momenti! Ma non ho mai pensato di puntarmi una pistola alle tempie e spararmi! Ho continuato a vivere…” spiegò Rick con tono serio ma guardando in basso per i ricordi.
 
“E perché? Che cosa aspetta? Un miracolo?” chiese Eva perplessa.
 
“Non lo so. Forse sì. Ma non ho un vero motivo per uccidermi. Soprattutto dopo lo scontro con Rory”.
 
“Il caso di Rory Batty. Quello che ha ucciso il dott. Tyrell, il primo creatore dei replicanti”.
 
“Già. Ha certato di uccidermi. Ma tutto quello che voleva era solo vivere ancora un po’, sapendo che il suo tempo stava per scadere. Alla fine si è arreso, ed ha accettato la morte, pensando che i suoi ricordi se ne sarebbero andati per sempre… ma ha accettato la sua fine. Mi ha lasciato vivere”.
 
Eva rimase stupefatta e affascinata della sua storia. Aveva letto i vari rapporti su Rory e il suo gruppo di ribelli. Ma sentire la storia dalle parole del leggendario Rick era tutto diverso.
 
“Rory teneva alla sua vita, ha accettato la sua fine. Tu devi accettare la tua vita, perché è un dono. Se vuoi togliertela così, sarebbe un insulto a lui e a tutti quei replicanti che vogliono vivere per davvero” spiegò lui con tono calmo, guardandola negli occhi. Poi guardò in basso, prendendosi un altro bicchiere di whisky.
 
Eva rimase sorpresa dal suo racconto e pensò che aveva ragione. Il suicidio non era una risposta. Sarebbe stato solo un insulto a un grande dono.
 
“Allora che cosa dovrei fare?” chiese perplessa.
 
“Vai fuori, ci sarà una donna con un completo nero ad aspettarti. Dille che ti mando io e ti aiuterà” rispose Rick guardando il suo bicchiere.
 
“E che cosa farò?”
 
“Te lo spiegherà lei” rispose Rick e bevve un alto bicchiere tutto d’un fiato.
 
“Ma perché mi sta aiutando? Sono solo venuta qui a scoprire che fine aveva fatto lei”.
 
“E io ti sto dando uno scopo per la vita. Siamo pari, no?”.
 
Eva rimase stupita dal suo atteggiamento e dal quel discorso. Riprese il suo fascicolo, lo ripose nella borsa, si alzò e andò verso la porta.
 
Una volta lì si girò verso di lui: “Grazie, Rick” disse, poi fece un sorriso sincero, grande e luminoso.
 
Rick la guardò e gli tornò alla mente un ricordo di trent’anni prima: una piccola ragazza giovane, con i capelli castano scuro, legati in una piccola coda, il fisco magro con addosso dei vestiti da maschiaccio, il suo viso torno e pulito e gli occhiali ovali.

Vedere quel sorriso, sincero, divertito e gioviale gli diede un senso di luce in mezzo a tanta oscurità.
 
Rick lo ricambiò, dicendo: “Di nulla”.
 
Si guardarono, per qualche attimo, poi lei se ne andò via. Aveva un nuovo scopo nella vita e lui aveva ritrovato un raggio di sole in mezzo a tanta solitudine.

Fu così che Eva fu la prima umana a far parte della ribellione dei replicanti, perché era la prima umana che sapeva che cosa significava essere un essere vivente senza che le persone lo considerassero tale.

Era contenta del suo nuovo scopo. 

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Note
Ecco questa storia che mi sono ispirata 
dopo aver visto il film "Blade Runner 2049" 
e mi sono venuta in mente due pensieri:
"Perchè non c'è una donna che fa la gente
Blade Runner?" e "Ma... ci sarà un umano
che vuole essere un replicante per qualche motivo?"
Ed è nata questa storia, ispiradomi anche su cose
presonali.
Spero che vi piaccia! 

 
   
 
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