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Autore: Red Owl    10/11/2017    3 recensioni
Vecchia versione non più aggiornata.
Genere: Avventura, Science-fiction, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
Capitoli:
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Il suo ginocchio sbatté violentemente contro la corteccia, ma la suola liscia dei sandali non riuscì a trovare nulla su cui far presa. La ragazza crollò malamente a cavalcioni del ramo, scivolando con lo sterno e il mento contro la superficie ruvida e sbilanciandosi pericolosamente, rischiando di precipitare a terra. Sentendosi cadere, Lidia serrò con forza le gambe e le braccia, abbarbicandosi disperatamente alla porzione di ramo su cui era atterrata e riuscendo così a mantenersi in equilibrio. Chiudendo per un attimo gli occhi per riprendersi, la ragazza strisciò con cautela verso il tronco del melo e poi, quando trovò un buon appiglio, si tirò in piedi.

E questa è fatta, pensò, guardando verso il basso. Ora doveva riuscire a scendere. Erano passati almeno dodici anni dall’ultima volta in cui si era arrampicata su un albero; e nemmeno da bambina era stata particolarmente brava a farlo. Se avesse avuto scelta, non avrebbe mai fatto una cosa del genere - e per di più al buio - ma in quel frangente non aveva alternative.

Aggrappandosi ai rami con le mani e allungando i piedi alla cieca, la fanciulla riuscì a scendere per poco più di un metro, ma poi i rami terminarono e la ragazza si appollaiò contro il tronco, cercando di determinare la distanza da terra. Da quel poco che riusciva a vedere, il terreno era ancora più lontano di quanto sperasse, ma la libertà era lì, a pochi metri di distanza, e la giovane non esitò a saltare.

Atterrò male: le sue gambe cedettero e lei cadde su un fianco, sbucciandosi una mano. Dopo pochi istanti, però, era di nuovo in piedi, un po’ zoppicante, e correva verso gli alberi poco distanti, senza nemmeno avvertire il dolore delle botte e delle escoriazioni che si era appena procurata. Una volta raggiunta la protezione dell’ombra fitta della foresta, Lidia non si fermò, ma continuò a correre tra la vegetazione bassa, scivolando sul fango e lacerandosi la veste nei rovi che infestavano il sottobosco. Lanciandosi a rotta di collo lungo il sentiero a malapena riconoscibile tra la vegetazione, la fanciulla fuggì via, dirigendosi verso un luogo che non conosceva, ma che di certo sarebbe stato preferibile alla camera dalla quale era appena fuggita.

Dopo un tempo che non sarebbe stata in grado di quantificare, la gola iniziò a bruciarle e il cuore sembrò scoppiarle nel petto. La fanciulla allora si fermò, appoggiando la schiena a un albero e cercando di riprendere fiato. Nel giro di pochi minuti, il suo respiro tornò alla normalità e la scarica di adrenalina che l’aveva supportata durante la fuga si esaurì: fu solo allora che Lidia si guardò attorno e si rese conto di essere circondata da alberi alti e scuri, dei giganti senza volto che non le offrivano alcun punto di riferimento. Nell’oscurità che ormai era quasi totale, la giovane riusciva a distinguere a malapena la traccia che l’aveva portata fin lì; e allora rabbrividì, rendendosi conto di non avere la minima idea di dove si trovasse.

Forse correre in quella maniera non era stata una grande idea, dopotutto. Forse avrebbe fatto meglio a prendersi cinque minuti per decidere almeno la direzione nella quale dirigersi.

Lidia si guardò lentamente attorno, mentre una sorta di sudore freddo le imperlava la schiena: presto l’inquietudine tornò a montare, in lei, ma si trattava di un’angoscia molto diversa da quella che aveva provato fino a quel momento. Era una sensazione che non aveva nulla a che fare con il destino avverso e con le scelte che le erano state imposte dall’alto, ma che evocava piuttosto cose che scricchiolavano e sussurravano nell’oscurità del bosco, creature dagli occhi lucenti e il passo felpato che scivolavano, non viste, tra le felci e i castagni. Una paura antica le face rizzare i peli delle braccia e la fanciulla tese le orecchie nel silenzio della notte, alla ricerca di un suono senza nome.

Le gambe iniziarono a tremarle, e non era per via dello sforzo della corsa, ma Lidia si obbligò a riscuotersi: non aveva corso quei rischi per farsi prendere dal panico e finire col farsi mangiare da qualche belva.

Chissà se ci sono lupi, da queste parti, si domandò, deglutendo nervosamente. No, si rispose dopo un attimo, non ho mai sentito ululare. Questo vuol dire che di certo non ci sono lupi.

E gli orsi? Si intromise quella vocina che stava imparando a odiare. Quelli non ululano. Magari ce n’è uno proprio lì, da qualche parte alle tue spalle, che ti sta guardando. Guidata da un presentimento, la ragazza si voltò lentamente e cercò di penetrare con gli occhi il buio della notte. Non c’è niente, lì, si disse. E forse era vero; il sottobosco era perfettamente silente, se si escludevano gli scricchiolii delle foglie secche, prodotti da qualcosa di decisamente più piccolo di un orso.

Cercando di fare mente locale, la ragazza si accucciò sui talloni, respirando a fondo per calmarsi e passandosi una mano tra le ciocche spettinate che, durante la sua fuga, erano sfuggite alla crocchia nella quale erano state raccolte. Avrebbe voluto che ci fosse Lucilla, lì con lei: lei avrebbe saputo cosa fare… o forse no, ma per lo meno le avrebbe dato coraggio. Trovarsi nel bel mezzo di un’avventura del genere era sempre stato il sogno della sua amica e di certo lei non si sarebbe fatta prendere dal panico.

Lei non sarebbe nemmeno scappata, però, rifletté Lidia, mordendosi nervosamente le labbra. No, Lucilla, eterna ottimista, avrebbe dato sfoggio del suo carattere brillante e spigliato e con ogni probabilità sarebbe anche riuscita a far colpo su Ulf, facendolo innamorare di sé. Invece io sono riuscita a farmi odiare, da lui, pensò, con una smorfia preoccupata. E non voglio nemmeno pensare a quello che mi farebbe, se riuscisse a mettermi le mani addosso!

Alle sue spalle un ramo scricchiolò e si spezzò, facendole balzare il cuore in gola, ma subito dopo la foresta tornò silenziosa e Lidia tornò a rilassarsi ai piedi del vecchio castagno.

E comunque a me non interessa farlo innamorare di me: sarebbe come tradire Tito. Automaticamente, le tornò in mente il bacio che Ulf le aveva dato quel pomeriggio e la giuvane arrossì, affondando convulsamente le unghie nel terriccio umido del sottobosco. Bastava il ricordo perché il suo stomaco si contorcesse in preda ai sensi di colpa: non tanto per il bacio in sé, giacché esso era stato inevitabile, ma per il fatto che quel contatto così intimo con il germanico non l’aveva riempita di disgusto. Non che le fosse piaciuto, ma era stato… normale.

È stato normale, si ripeté Lidia, scuotendo il capo in preda allo sconcerto. Comunque non importa, perché da lui non ci torno più.

La ragazza si ripulì stizzosamente le mani su ciò che rimaneva dell’orlo del suo vestito, mentre il ricordo del motivo esatto che l’aveva portata nel cuore del bosco – e per di più in piena notte – la colpiva in pieno, causandole uno spasmo di rabbia che la giovane domò respirando a fondo. Non c’era motivo di perdere la testa. Se la menzogna dell’uomo l’aveva ferita più profondamente di quanto si sarebbe aspettata, essa le aveva dato una buona lezione: fidarsi di una persona sconosciuta era sempre e soltanto un errore. Anche se Unna le aveva detto quelle cose con l’intenzione di farle male, in un certo senso doveva ringraziarla: se non fosse stato per lei, sarebbe caduta dritta nella trappola di Ulf.

A meno che non sia stata Unna a mentire, ovviamente. Lidia soffocò quel pensiero: quella era un’ipotesi che si rifiutava di considerare, perché, se fosse stato così, allora… Allora… allora sarei io quella che ha tradito e infranto un patto. Il pensiero le causò un capogiro e una strana sensazione alla bocca dello stomaco, ma la ragazza strinse i denti, risoluta. Era inutile preoccuparsi di quelle cose: la sua fedeltà andava a Tito, non a Ulf. E il fatto che mi abbiano fatta sposare con lui non significa assolutamente nulla.

Quando era partita per la Germanica, la fanciulla aveva fatto del proprio meglio per lasciarsi alle spalle la storia con Tito, convinta che quella fosse la soluzione migliore per entrambi. Del resto, si diceva, non aveva alcun senso rimanere aggrappati a un’illusione che non aveva alcun futuro. Gli ultimi sviluppi avevano però cambiato le carte in tavola: se da un lato la determinazione di Tito aveva rinnovato la forza dei suoi sentimenti per il giovane romano, dall’altro la sua fuga improvvisata aveva cancellato ogni possibilità di convivenza civile con il germanico, convincendola che la sua strada dovesse per forza di cose essere altrove.

A Roma, per la precisione – o, quantomeno, in compagnia di Tito, ovunque lui ritenesse opportuno andare.

Il loro non era un amore travolgente come quello narrato nei romanzi che Lucilla era solita passarle di nascosto, né una forza in grado di fermare il tempo e sconvolgere il mondo, ma alla fanciulla andava bene così, anche perché non credeva nell’esistenza di un sentimento del genere. Nel corso del tempo, ciò che provava per Tito era cresciuto giorno per giorno, poco alla volta, e aveva radici salde nell’amicizia che li legava da ormai cinque anni. Guardando sua madre e suo padre, la ragazza era consapevole che prima o poi l’amore era destinato a dissolversi nell’abitudine, ma sapeva che lo stesso non valeva per l’amicizia. Di una cosa era dunque certa: se anche un giorno l’innamoramento fosse passato, lei e Tito sarebbero stati per sempre legati da un’amicizia vera e profonda.

E, comunque, quei pensieri erano del tutto prematuri, perché lei amava Tito. Amava i suoi occhi caldi, amava il sorriso che gli illuminava tutto il volto, amava le sue mani dalle dita affusolate, amava la dolcezza con cui la trattava, amava il modo in cui rideva delle sue battute – quelle stesse battute che Lucilla diceva che “non facevano ridere proprio nessuno” - amava il modo in cui la guardava, quasi a dirle che era lei l’unica cosa davvero importante.

A differenza di Ulf, che, ancor prima di conoscermi, ha deciso che non sono nemmeno lontanamente alla sua altezza.

Se suo marito – il germanico! – si fosse limitato a trovarla antipatica, Lidia non l’avrebbe biasimato: del resto nemmeno lui aveva chiesto di trovarsi in quella situazione. Ulf però l’aveva fin da subito guardata con disprezzo e le aveva mentito, motivo per cui non meritava nemmeno un grammo di comprensione, da parte sua. E, naturalmente, non poteva nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di rivelargli l’esistenza di Tito: da quello che le aveva detto a casa della sacerdotessa, l’uomo era determinato a salvare le apparenze e, con ogni probabilità, non avrebbe certo accolto a braccia aperte il giovane romano, quando questi si sarebbe presentato per riprendersi Lidia.

Per cui mi conviene darmi una mossa e raggiungere il campo, si disse la fanciulla, costringendosi ad alzarsi in piedi e a ignorare i crampi nelle gambe. Magari potremmo incontrarci proprio lì, pensò, chiedendosi se i legionari che erano venuti a farle visita fossero veramente intenzionati a favorire la sua fuga. L’idea continuava a sembrarle assurda come la prima volta in cui l’aveva sentita, ma confidava nel fatto che Tito e i suoi amici avessero un piano.

A nord, ha detto quell’ufficiale, rifletté la ragazza, cercando di orientarsi nel bosco ormai immerso nell’oscurità. Doveva aver passato parecchio tempo ai piedi dell’albero e di certo ormai Ulf doveva essersi accorto della sua fuga. Ho perso fin troppo tempo! Pensò, mentre l’ansia tornava ad assalirla. Ma da che parte è il nord?

Ricordava quando, da bambina, un amichetto le aveva detto che sugli alberi il muschio cresceva sempre verso nord, ma, anche ammesso che fosse vero, gli alberi che la circondavano in quel momento erano completamente ricoperti di muschio. Tastando quasi alla cieca il tronco del tiglio più vicino, la giovane pensò di aver individuato un lato su cui il morbido tappeto umido cresceva più rigoglioso. Questo è il nord?

Fortunatamente, l’abbozzo di sentiero proseguiva proprio in quella direzione… o, almeno, così le pareva. Per un istante, Lidia si chiese se non sarebbe stato meglio abbandonare il sentiero, ma subito scartò quell’idea: se avesse abbandonato anche quell’esile traccia, si sarebbe sicuramente persa nel cuore della foresta.

Ammesso che io non mi sia già persa!

Lentamente, facendo attenzione a dove metteva i piedi, la fanciulla si mise di nuovo in cammino, ma dopo qualche minuto un suono terrificante le ghiacciò il sangue nelle vene: un verso roco e al contempo stridulo, a metà tra il latrare di un cane e il gracchiare di un corvo enorme. Il suono si levò da un punto imprecisato alle sue spalle e rimbombò nell’oscurità della notte. Lidia non ebbe dubbi: non poteva che essere il grido dell’orso nero, la terrificante fiera di cui aveva sentito tanto parlare. La ragazza si portò una mano alle labbra, ricordando i terribili racconti di viaggiatori solitari fatti a pezzi e divorati con una ferocia senza pari.

Spaventata a morte, incurante dei rovi e delle ortiche, la fanciulla si catapultò in avanti, correndo, ne era certa, per salvarsi la vita. Non sapeva a quale velocità potessero muoversi gli orsi – e di certo non intendeva scoprirlo. Mentre correva a perdifiato nel tentativo di sfuggire alla bestia che continuava a lanciare quelle grida spettrali, un altro richiamo, del tutto simile a quelli emessi dalla belva alle sue spalle, giunse da una macchia di alberi davanti a lei. Con un gemito terrorizzato, la ragazza scartò di lato, nascondendosi tra un folto groviglio di felci: un nascondiglio assolutamente misero, ma era meglio di niente.

Lidia rimase acquattata per un paio di muniti, tremando e tendendo le orecchie: se il primo animale continuava a essere estremamente rumoroso, il secondo si era zittito – ma doveva per forza di cose essere ancora lì, da qualche parte, dato che non l’aveva sentito allontanarsi.

La ragazza si schiacciò a terra, facendo del proprio meglio per respirare in maniera regolare e per non lasciarsi sopraffare dal sentore pungente delle felci e del terriccio marcio sul quale si era distesa. Dopo alcuni minuti, quando tutto nella foresta sembrava essere tornato alla normalità, Lidia si convinse a rimettersi in piedi e a dare un’occhiata in giro, ma, proprio quando si stava issando sulle ginocchia, dalla sua destra giunse un fruscio e dal sottobosco sbucò una sagoma confusa. Con un grido di puro terrore, la giovane fece in tempo a scorgere un muso triangolare, un sottogola chiaro, due enormi occhi neri e un piccolo paio di corna diritte, poi scattò via, allontanandosi dall’animale e incespicando nei propri piedi. Il capriolo, evidentemente terrorizzato almeno quanto lei, si allontanò a grandi balzi, dando alla ragazza una chiara visione della sua coda bianca.

Tremante, Lidia si accasciò sul sentiero. Non era un orso, si disse, cercando di calmarsi, non era un orso.

I caprioli erano del tutto innocui, lo sapeva bene; quell’incontro l’aveva tuttavia scossa e la giovane romana ci mise qualche istante a riprendersi dalla tremarella che l’aveva colta. Quando sentì di essersi calmata a sufficienza, Lidia si raccolse nuovamente i capelli in una crocchia, cercando di fare ordine nella propria mente. Doveva calmarsi. C’erano fin troppi pericoli reali, in quel posto, non aveva assolutamente bisogno di farsi spaventare anche dai mostri inventati dalla sua mente. Del resto, quando il Legato le aveva presentato il villaggio, non aveva fatto alcuna menzione delle belve che si nascondevano nei boschi, no? Con ogni probabilità, non c’era proprio nessun orso, in quella regione.

Un po’ rassicurata, la fanciulla si rimise in piedi e, per sicurezza, rimase immobile per qualche istante, ascoltando e catalogando mentalmente i rumori della foresta. Fu allora che sentì, in lontananza, un fruscio di foglie calpestate. Si trattava forse dell’altro capriolo, attratto dai richiami di quello che lei stessa aveva messo in fuga?

Ma no, i caprioli saltano e questa cosa… questa cosa sta correndo!

Malgrado le sue migliori intenzioni, Lidia sentì il panico tornare ad assalirla. Tremante, la fanciulla cercò disperatamente di capire quanto lontano fosse l’essere che stava producendo quei rumori, ma si rese conto di non averne la minima idea.

Si sta avvicinando, questo è certo! Pensò, sbiancando. Non era il galoppo regolare di un cavallo e non era nemmeno un passo umano; era piuttosto uno scalpiccio erratico, disordinato, di qualcosa che non procedeva in linea retta, ma vagava e frugava senza sosta. Era il passo… è il passo di un lupo! Non che avesse mai visto o sentito un lupo, ma Lidia sentì che c’era qualcosa – forse il suo istinto – che le gridava a gran voce che la verità fosse proprio quella. I lupi vivevano in branchi, lo sapeva, ma di certo esistevano esemplari solitari…

Senza fermarsi a riflettere oltre, ignorando il freddo e la fatica che iniziavano a morderle le ossa, la fanciulla si costrinse a rimettersi in movimento, accennando addirittura una sorta di corsetta stremata. L’animale sconosciuto, però, si muoveva troppo rapidamente e ben presto Lidia si rese conto che non aveva alcuna possibilità di sfuggirgli. Sperando di passare inosservata, la fanciulla abbandonò di nuovo il sentiero e si nascose tra gli alberi. Forse passerà oltre, pensò, chiudendo gli occhi.

Il tramestio si fece sempre più vicino e poco tempo dopo la ragazza fu addirittura in grado di distinguere il respiro pesante della bestia. Doveva essersi fermata e, a giudicare dai sibili che emetteva, stava annusando freneticamente qualcosa. Le sue tracce, con ogni probabilità. Quando l’animale raspò il terreno con una zampa e mosse qualche passo nella sua direzione, Lidia non riuscì a fare a meno di sporgersi dal suo nascondiglio, cercando di scorgere la creatura che le stava dando la caccia.

Forse è una volpe, si disse, speranzosa. Forse è solo… ma no. Era un lupo. Un lupo enorme, dal pelo grigio, ispido, sorprendentemente alto sulle zampe – era effettivamente molto più grande di quanto si fosse aspettata – dotato di una lunga coda che portava alta sul dorso.

Lidia non riuscì a trattenere un gemito e, non appena udì quel suono, l’animale alzò il muso dal terreno, piantandole addosso i suoi occhi scuri e avanzando nella sua direzione con un passo straordinariamente felpato. Lentamente, guidata da un istinto sconosciuto, la fanciulla indietreggiò fino a raggiungere il sentiero. Il lupo la seguì, senza perderla d’occhio, ma senza nemmeno attaccare. Quando si rese conto di essere su un terreno meno accidentato, Lidia tentò il tutto per tutto e provò a scappare, ma in due balzi l’animale si portò davanti a lei e prese ad abbaiarle contro.

Con un breve grido, la ragazza indietreggiò di nuovo, ma questa volta il lupo continuò ad abbaiare, ancora e ancora, spingendola indietro, verso i suoi compagni, forse, verso un albero, verso una pietra… In preda al terrore, Lidia pensò che volesse metterla con le spalle al muro, tagliandole ogni via di fuga prima di balzarle alla gola. Forse abbaiava per confonderla, forse per attirare il resto del branco, forse…

I lupi non abbaiano.

Quel pensiero le attraversò la mente con straordinaria chiarezza, ma non appena l’ebbe formulato Lidia si sentì afferrare per un polso e tirare contro qualcosa che non era certo un albero o un masso. Istintivamente la fanciulla gridò e si divincolò, ma un braccio le circondò le spalle e il petto, immobilizzandola, mentre una mano le calò sulla bocca per impedirle di urlare di nuovo. Quasi inconsciamente, la ragazza aprì la bocca e la richiuse con forza su quella mano, mordendo finché il sapore del sangue non le invase la bocca.

L’uomo che l’aveva aggredita sussultò, allentando un po’ la presa. Alzando lo sguardo Lidia poté constatarne l’identità: Ulf.

Prima che potesse dire o pensare qualsiasi cosa, l’uomo tornò a premerle il polso sulla bocca e la ragazza, visti i risultati, morse anche quello. Questa volta il germanico era però preparato e, liberandole le braccia, la afferrò per i capelli, tirandoli con forza e strappandole un grido di dolore che la costrinse a mollare la presa. Approfittando di quel momento, l’uomo la spinse violentemente contro un masso coperto di muschio, facendole sbattere la nuca contro la roccia. La ragazza fece scattare in avanti le mani e provò a graffiarlo, ma lui fu più veloce e riuscì a bloccarle i polsi prima che potesse andare a segno.

«Perché cazzo sei scappata?» le ringhiò in faccia. Tra le ombre del bosco, Lidia riusciva a vedere la rabbia sul suo volto; eppure, la voce dell’uomo rimase bassa, come se non volesse farsi sentire da qualcuno.

«Bastardo» le scappò detto, prima di riuscire a controllarsi.

Per nulla turbato dall’insulto, Ulf la scrollò, tenendola per le spalle, e ripeté la domanda. «Perché sei scappata? Posso sapere che cazzo ti passa per la testa? Ti dico di andare a letto e tu scappi! Perché?»

Respirando affannosamente, lei lo guardò in faccia: era spaventata, ma per una volta la rabbia stava avendo la meglio sulla paura, permettendole di affrontarlo. «Lo sai benissimo, il perché!» sibilò, accusatoria.

Lui fece un suono a metà tra l’incredulo e lo scocciato. «Unna» sbottò. «Hai creduto a quello che ti ha detto Unna. Sapevo che eri stupida, ma non pensavo fino a questo punto.»

Lidia avvampò, punta nell’orgoglio. «E perché non avrei dovuto?» urlò. «Non so nulla di te e probabilmente…»

Ulf le tappò immediatamente la bocca con una mano. «Non urlare!» le intimò. «Vuoi farti sentire da tutto il paese? Tu non hai idea… tu non hai idea di come funzionino le cose, qui, quindi chiudi quella bocca e fa’ quello che ti dico io!»

La ragazza ansimò come un animale in trappola, ma si zittì, mentre Ulf stringeva di più la presa sulle sue braccia, arrivando a farle male. «Te lo ripeto un’altra volta: vediamo se ti entra in testa» disse lui, tenendola inchiodata al sasso umido. «Io non voglio avere nulla a che fare con te. Sei patetica, immatura e con ogni probabilità completamente cretina. Il solo pensiero di toccarti mi fa orrore, chiaro?» L’uomo la scrutò con aria critica, poi rincarò la dose. «E sei pure bruttina, quindi non hai proprio nulla da temere, da me. Non in quel senso, almeno.»

Lidia lo guardò, boccheggiando a vuoto. I vaghissimi sensi di colpa che la sua coscienza aveva iniziato a provare per il fatto di aver creduto a sua sorella, anziché a lui, vennero immediatamente spazzati via dalle sue parole. «Perfetto» sbottò, riprendendosi. «Perfetto! La cosa è reciproca: mi fai schifo pure tu!»

Ulf annuì, secco. «Bene.»

Lidia sospirò e si divincolò finché l’uomo non si staccò da lei. «Stando così le cose», disse, sistemandosi per l’ennesima volta i capelli spettinati, «puoi anche lasciarmi andare. Raggiungo l’accampamento romano e sparisco, così siamo contenti tutti e due.»

«Ma lo vedi, che sei proprio stupida?» sbottò lui. «Tu non vai proprio da nessuna parte: noi due dobbiamo restare insieme, dobbiamo fingere che questa cosa funzioni a meraviglia e non dare a nessuno motivo di credere che non sia così. Non te l’ha spiegato, la sacerdotessa?»

«Me l’ha spiegato, sì» ammise Lidia, prima di aggiungere, mentalmente: ma non me ne frega niente. Perché, se ci pensava bene, il fatto che in Germanica potesse scoppiare una guerra non le faceva né caldo né freddo: a lei bastava trovarsi lontano da lì, quando sarebbe successo.

«E allora?» sibilò ancora Ulf, incrociando nervosamente le braccia davanti al petto.

«Continuo a non capirne il senso» protestò Lidia. «Se io odio te e tu odi me, chi potrebbe mai pensare che così, magicamente, le cose si risolvano?»

«Nessuno lo pensa», sbuffò l’uomo, «ma tutti hanno ben chiaro qual è la cosa più importante: la pace. Beh, tutti a parte te, a quanto pare.»

La fanciulla indietreggiò di un passo, offesa. «Ma…»

«Cosa credi?» riprese Ulf, con una nota tagliente nella voce. «Pensi forse di essere l’unica a dover fare dei sacrifici? Tu non hai assolutamente idea di come funzioni il mondo, credimi!»

«Non sono così stupida come credi» lo contraddisse Lidia, sentendo di doversi difendere dal disprezzo dell’uomo.

«A me non pare proprio» ribatté lui. «Del resto, quale persona dotata di cervello se ne andrebbe in giro da sola, di notte? E per di più in un bosco che nemmeno conosce?»

La giovane si strinse nelle spalle, fingendo indifferenza. «Perché, avevi paura che potesse mangiarmi un orso?» Malgrado fosse intenzionata a mantenere un tono distaccato, la fanciulla non riuscì a evitare che nelle sue parole si infiltrasse una leggera nota tremula.

«Ma magari!» sbottò il germanico. «No, non ci sono orsi, qui: in compenso ci sono un sacco di persone che sarebbero ben felici di levarsi di torno una romana. Non ti consiglio di andartene in giro da sola, di questi tempi: né di notte né di giorno.»

Nell’udire quelle parole, Lidia sbiancò. Cosa intendeva, quando diceva “levarsi di torno”? E quali persone? E perché?

«Li hai visti, quei soldati, no?» riprese Ulf. «Cosa credi, che siano qui in villeggiatura? Pensi che a tutti stia bene avere quei legionari a casa nostra?»

Lidia fece per replicare, ma improvvisamente la sua gola si fece secca, così la giovane si limitò a scuotere il capo, tenendo gli occhi bassi e cercando di elaborare quello che l’uomo le aveva appena detto.

«Perciò», continuò ancora il germanico, «non devi più azzardarti a provare a scappare: è chiaro?»

«Mh.» Lidia annuì, un gesto talmente vago che avrebbe potuto dire tutto o niente.

Evidentemente infastidito dal suo atteggiamento, Ulf le afferrò il mento tra due dita e la costrinse a guardarlo. «A me non interessa nulla di te. Se dipendesse da me, saresti libera di andartene adesso, in questo preciso istante. Vuoi andare a farti ammazzare? Prego, fai pure! Ma, sfortunatamente, le cose sono un pochino più complicate di così» mormorò, abbassando la voce e stringendo ulteriormente la presa sulla mascella della ragazza. «Se tu te ne vai e altri seguono il tuo esempio, succede un casino. Se tu te ne vai e la sacerdotessa pensa che io non abbia fatto del mio meglio per trattenerti, succede un casino. Hai afferrato il concetto?»

Senza fiato, Lidia esalò un “sì” quasi impercettibile. Continuando a fissarla negli occhi, Ulf la attirò a sé. «Se questa storia si venisse a sapere, Donna Erin ci terrebbe d’occhio a vista. Ci obbligherebbe a fare le cose come dice lei e la cosa non sarebbe piacevole per nessuno dei due.» Vedendo forse la paura nei suoi occhi, l’uomo allentò la presa e lasciò che la sua mano scendesse sulla spalla della ragazza, posandovisi sopra, ma senza stringerla. «Io ti capisco, davvero», fece, con voce più calma, «stare qui non ti piace e hai paura. Per questo ho cercato di essere gentile con te, pensavo di lasciarti più libertà possibile e di non sconvolgere troppo la tua vita. Però, evidentemente, di te non ci si può fidare.»

Il cuore di Lidia ebbe un sussulto e la ragazza chinò il capo, mentre la sua mente si riempiva di vecchie eco. «Ti do ancora una possibilità, l’ultima» continuò l’uomo, lasciando scivolare via la mano. «Dopodiché, se per farti collaborare ci sarà bisogno di metterti sotto chiave e trattarti come ti aspetti di essere trattata, lo farò. Mi sono spiegato?»

Perfettamente, pensò Lidia, annuendo piano. Soddisfatto, Ulf le afferrò un braccio. «Forza, torniamo a casa» disse, trascinandola con sé.

La fanciulla lo seguì docilmente, troppo turbata per opporre resistenza. “Di te non ci si può fidare”, le aveva detto. Di te non ci si può fidare. Perché sei una buona a nulla. Perché non riesci mai a capire quello che devi fare. Perché hai la testa per aria. Quante volte suo padre le aveva detto quelle cose? E adesso Ulf glielo aveva ripetuto: se due uomini tanto diversi tra loro la pensavano allo stesso modo, forse, allora, un fondo di verità c’era?

Con gli occhi improvvisamente offuscati dalle lacrime, la giovane inciampò in una radice e rischiò di finire a terra. Fu solo la mano di Ulf stretta attorno al suo braccio a impedirglielo e quella consapevolezza le strappò un singhiozzo: non era quella, la mano che voleva sul suo corpo.

Tito! Pensò, disperata. Che cosa aveva ottenuto con quella bravata? Solo di mettere sul chi va là il germanico, rendendo ancora più difficile un’impresa che si era fin da subito presentata come terribilmente complicata. Perché era così imbranata? Non era nemmeno riuscita a far perdere le sue tracce in mezzo a un bosco!

Oh, ma tutto stava andando così bene, prima che arrivasse quella maledetta bestia! Stringendo rabbiosamente i denti, Lidia lanciò un’occhiata carica di rancore alla vaporosa coda grigia che appariva e spariva attraverso gli alberi.

«E così credevi che ci fossero gli orsi, qui.»

Dopo alcuni minuti di silenzio, la giovane sussultò quasi, nel sentire la voce di Ulf. In tutta risposta, la ragazza si limitò a sollevare stizzosamente una spalla. Cosa accidenti ne doveva sapere, lei, della fauna locale?

«È per quello che hai urlato, poco prima che ti trovassi? Pensavi di essere inseguita da un orso?»

«… credevo» mugugnò, allungando il passo e incassando il collo nelle spalle, la voce ancora impastata a causa delle lacrime.

Davanti a quella risposta, l’uomo emise un suono che assomigliava in maniera sospetta a una risata soffocata. «Era un capriolo, vero?» sghignazzò.

Oltraggiata, Lidia strappò il braccio dalla presa del germanico, che, colto di sorpresa, la lasciò andare. «Ma va’ all’Inferno!» sibilò lei, allontanandosi a grandi passi lungo il sentiero. La risata bassa dell’uomo la inseguì e la ragazza sentì nuovamente la rabbia bruciarle lo stomaco.

Oh, quanto avrebbe pagato per veder arrivare veramente un orso, in quel momento. Giusto per vedere la faccia di quello là: era certa che non avrebbe più riso tanto, allora. Se se lo mangiasse, poi, sarebbe perfetto!

Con uno sbuffo sdegnoso, Lidia marciò verso la casa dalla quale era scappata, mettendo quanti più metri possibili fra se stessa e quell’uomo orribile che si divertiva a prendersi gioco di lei.

***

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