Il
suo ginocchio sbatté
violentemente contro la corteccia, ma la suola liscia dei sandali non
riuscì a
trovare nulla su cui far presa. La ragazza crollò malamente
a cavalcioni del
ramo, scivolando con lo sterno e il mento contro la superficie ruvida e
sbilanciandosi pericolosamente, rischiando di precipitare a terra.
Sentendosi
cadere, Lidia serrò con forza le gambe e le braccia,
abbarbicandosi
disperatamente alla porzione di ramo su cui era atterrata e riuscendo
così a
mantenersi in equilibrio. Chiudendo per un attimo gli occhi per
riprendersi, la
ragazza strisciò con cautela verso il tronco del melo e poi,
quando trovò un
buon appiglio, si tirò in piedi.
E questa è fatta,
pensò, guardando verso il basso. Ora doveva
riuscire a scendere. Erano passati almeno dodici anni
dall’ultima volta in cui
si era arrampicata su un albero; e nemmeno da bambina era stata
particolarmente
brava a farlo. Se avesse avuto scelta, non avrebbe mai fatto una cosa
del
genere - e per di più al buio - ma in quel frangente non
aveva alternative.
Aggrappandosi
ai rami con le mani
e allungando i piedi alla cieca, la fanciulla riuscì a
scendere per poco più di
un metro, ma poi i rami terminarono e la ragazza si
appollaiò contro il tronco,
cercando di determinare la distanza da terra. Da quel poco che riusciva
a
vedere, il terreno era ancora più lontano di quanto
sperasse, ma la libertà era
lì, a pochi metri di distanza, e la giovane non
esitò a saltare.
Atterrò
male: le sue gambe cedettero
e lei cadde su un fianco, sbucciandosi una mano. Dopo pochi istanti,
però, era di
nuovo in piedi, un po’ zoppicante, e correva verso gli alberi
poco distanti,
senza nemmeno avvertire il dolore delle botte e delle escoriazioni che
si era
appena procurata. Una volta raggiunta la protezione
dell’ombra fitta della
foresta, Lidia non si fermò, ma continuò a
correre tra la vegetazione bassa,
scivolando sul fango e lacerandosi la veste nei rovi che infestavano il
sottobosco. Lanciandosi a rotta di collo lungo il sentiero a malapena
riconoscibile tra la vegetazione, la fanciulla fuggì via,
dirigendosi verso un
luogo che non conosceva, ma che di certo sarebbe stato preferibile alla
camera
dalla quale era appena fuggita.
Dopo
un tempo che non sarebbe
stata in grado di quantificare, la gola iniziò a bruciarle e
il cuore sembrò
scoppiarle nel petto. La fanciulla allora si fermò,
appoggiando la schiena a un
albero e cercando di riprendere fiato. Nel giro di pochi minuti, il suo
respiro
tornò alla normalità e la scarica di adrenalina
che l’aveva supportata durante
la fuga si esaurì: fu solo allora che Lidia si
guardò attorno e si rese conto
di essere circondata da alberi alti e scuri, dei giganti senza volto
che non le
offrivano alcun punto di riferimento.
Nell’oscurità che ormai era quasi totale,
la giovane riusciva a distinguere a malapena la traccia che
l’aveva portata fin
lì; e allora rabbrividì, rendendosi conto di non
avere la minima idea di dove
si trovasse.
Forse
correre in quella maniera
non era stata una grande idea, dopotutto. Forse avrebbe fatto meglio a
prendersi cinque minuti per decidere almeno la direzione nella quale
dirigersi.
Lidia
si guardò lentamente
attorno, mentre una sorta di sudore freddo le imperlava la schiena:
presto
l’inquietudine tornò a montare, in lei, ma si
trattava di un’angoscia molto
diversa da quella che aveva provato fino a quel momento. Era una
sensazione che
non aveva nulla a che fare con il destino avverso e con le scelte che
le erano
state imposte dall’alto, ma che evocava piuttosto cose che
scricchiolavano e
sussurravano nell’oscurità del bosco, creature
dagli occhi lucenti e il passo
felpato che scivolavano, non viste, tra le felci e i castagni. Una
paura antica
le face rizzare i peli delle braccia e la fanciulla tese le orecchie
nel
silenzio della notte, alla ricerca di un suono senza nome.
Le
gambe iniziarono a tremarle, e
non era per via dello sforzo della corsa, ma Lidia si
obbligò a riscuotersi:
non aveva corso quei rischi per farsi prendere dal panico e finire col
farsi
mangiare da qualche belva.
Chissà se ci sono lupi, da
queste parti, si domandò, deglutendo nervosamente.
No, si rispose dopo un attimo, non
ho mai sentito ululare. Questo vuol dire che di certo non ci sono lupi.
E gli orsi? Si intromise quella vocina
che stava imparando a
odiare. Quelli non ululano. Magari ce
n’è
uno proprio lì, da qualche parte alle tue spalle, che ti sta
guardando. Guidata
da un presentimento, la ragazza si voltò lentamente e
cercò di penetrare con
gli occhi il buio della notte. Non
c’è
niente, lì, si disse. E forse era vero; il
sottobosco era perfettamente
silente, se si escludevano gli scricchiolii delle foglie secche,
prodotti da
qualcosa di decisamente più piccolo di un orso.
Cercando
di fare mente locale, la
ragazza si accucciò sui talloni, respirando a fondo per
calmarsi e passandosi
una mano tra le ciocche spettinate che, durante la sua fuga, erano
sfuggite
alla crocchia nella quale erano state raccolte. Avrebbe voluto che ci
fosse
Lucilla, lì con lei: lei avrebbe saputo cosa
fare… o forse no, ma per lo meno
le avrebbe dato coraggio. Trovarsi nel bel mezzo di
un’avventura del genere era
sempre stato il sogno della sua amica e di certo lei non si sarebbe
fatta
prendere dal panico.
Lei non sarebbe nemmeno scappata, però,
rifletté Lidia, mordendosi
nervosamente le labbra. No, Lucilla, eterna ottimista, avrebbe dato
sfoggio del
suo carattere brillante e spigliato e con ogni probabilità
sarebbe anche
riuscita a far colpo su Ulf, facendolo innamorare di sé. Invece io sono riuscita a farmi odiare, da lui,
pensò, con una
smorfia preoccupata. E non voglio nemmeno
pensare a quello che mi farebbe, se riuscisse a mettermi le mani
addosso!
Alle
sue spalle un ramo
scricchiolò e si spezzò, facendole balzare il
cuore in gola, ma subito dopo la foresta
tornò silenziosa e Lidia tornò a rilassarsi ai
piedi del vecchio castagno.
E comunque a me non interessa farlo innamorare di me:
sarebbe come tradire Tito. Automaticamente,
le tornò in mente il bacio che Ulf le aveva dato quel
pomeriggio e la giuvane arrossì,
affondando convulsamente le unghie nel terriccio umido del sottobosco.
Bastava
il ricordo perché il suo stomaco si contorcesse in preda ai
sensi di colpa: non
tanto per il bacio in sé, giacché esso era stato
inevitabile, ma per il fatto
che quel contatto così intimo con il germanico non
l’aveva riempita di
disgusto. Non che le fosse piaciuto, ma era stato… normale.
È stato normale, si
ripeté Lidia, scuotendo il capo in preda allo
sconcerto. Comunque non importa,
perché
da lui non ci torno più.
La
ragazza si ripulì
stizzosamente le mani su ciò che rimaneva
dell’orlo del suo vestito, mentre il
ricordo del motivo esatto che l’aveva portata nel cuore del
bosco – e per di
più in piena notte – la colpiva in pieno,
causandole uno spasmo di rabbia che
la giovane domò respirando a fondo. Non c’era
motivo di perdere la testa. Se la
menzogna dell’uomo l’aveva ferita più
profondamente di quanto si sarebbe aspettata,
essa le aveva dato una buona lezione: fidarsi di una persona
sconosciuta era
sempre e soltanto un errore. Anche se Unna le aveva detto quelle cose
con
l’intenzione di farle male, in un certo senso doveva
ringraziarla: se non fosse
stato per lei, sarebbe caduta dritta nella trappola di Ulf.
A meno che non sia stata Unna a mentire, ovviamente.
Lidia soffocò
quel pensiero: quella era un’ipotesi che si rifiutava di
considerare, perché,
se fosse stato così, allora… Allora…
allora sarei io quella che ha tradito e infranto un patto. Il
pensiero le
causò un capogiro e una strana sensazione alla bocca dello
stomaco, ma la
ragazza strinse i denti, risoluta. Era inutile preoccuparsi di quelle
cose: la
sua fedeltà andava a Tito, non a Ulf. E
il fatto che mi abbiano fatta sposare con lui non significa
assolutamente nulla.
Quando
era partita per la
Germanica, la fanciulla aveva fatto del proprio meglio per lasciarsi
alle
spalle la storia con Tito, convinta che quella fosse la soluzione
migliore per
entrambi. Del resto, si diceva, non aveva alcun senso rimanere
aggrappati a
un’illusione che non aveva alcun futuro. Gli ultimi sviluppi
avevano però
cambiato le carte in tavola: se da un lato la determinazione di Tito
aveva
rinnovato la forza dei suoi sentimenti per il giovane romano,
dall’altro la sua
fuga improvvisata aveva cancellato ogni possibilità di
convivenza civile con il
germanico, convincendola che la sua strada dovesse per forza di cose
essere
altrove.
A
Roma, per la precisione – o,
quantomeno, in compagnia di Tito, ovunque lui ritenesse opportuno
andare.
Il
loro non era un amore
travolgente come quello narrato nei romanzi che Lucilla era solita
passarle di
nascosto, né una forza in grado di fermare il tempo e
sconvolgere il mondo, ma
alla fanciulla andava bene così, anche perché non
credeva nell’esistenza di un
sentimento del genere. Nel corso del tempo, ciò che provava
per Tito era
cresciuto giorno per giorno, poco alla volta, e aveva radici salde
nell’amicizia che li legava da ormai cinque anni. Guardando
sua madre e suo
padre, la ragazza era consapevole che prima o poi l’amore era
destinato a
dissolversi nell’abitudine, ma sapeva che lo stesso non
valeva per l’amicizia.
Di una cosa era dunque certa: se anche un giorno
l’innamoramento fosse passato,
lei e Tito sarebbero stati per sempre legati da un’amicizia
vera e profonda.
E,
comunque, quei pensieri erano
del tutto prematuri, perché lei amava
Tito.
Amava i suoi occhi caldi, amava il sorriso che gli illuminava tutto il
volto,
amava le sue mani dalle dita affusolate, amava la dolcezza con cui la
trattava,
amava il modo in cui rideva delle sue battute – quelle stesse
battute che
Lucilla diceva che “non facevano ridere proprio
nessuno” - amava il modo in cui
la guardava, quasi a dirle che era lei l’unica cosa davvero
importante.
A differenza di Ulf, che, ancor prima di
conoscermi, ha deciso che non
sono nemmeno lontanamente alla sua altezza.
Se
suo marito – il germanico!
– si fosse limitato a
trovarla antipatica, Lidia non l’avrebbe biasimato: del resto
nemmeno lui aveva
chiesto di trovarsi in quella situazione. Ulf però
l’aveva fin da subito
guardata con disprezzo e le aveva mentito, motivo per cui non meritava
nemmeno
un grammo di comprensione, da parte sua. E, naturalmente, non poteva
nemmeno
prendere in considerazione l’ipotesi di rivelargli
l’esistenza di Tito: da
quello che le aveva detto a casa della sacerdotessa, l’uomo
era determinato a
salvare le apparenze e, con ogni probabilità, non avrebbe
certo accolto a
braccia aperte il giovane romano, quando questi si sarebbe presentato
per
riprendersi Lidia.
Per cui mi conviene darmi una mossa e raggiungere
il campo, si
disse la fanciulla, costringendosi ad alzarsi in piedi e a ignorare i
crampi
nelle gambe. Magari potremmo incontrarci
proprio
lì, pensò, chiedendosi se i legionari
che erano venuti a farle visita
fossero veramente intenzionati a favorire la sua fuga. L’idea
continuava a
sembrarle assurda come la prima volta in cui l’aveva sentita,
ma confidava nel
fatto che Tito e i suoi amici avessero un piano.
A nord, ha detto quell’ufficiale, rifletté
la ragazza, cercando di
orientarsi nel bosco ormai immerso nell’oscurità.
Doveva aver passato parecchio
tempo ai piedi dell’albero e di certo ormai Ulf doveva
essersi accorto della
sua fuga. Ho perso fin troppo tempo! Pensò,
mentre l’ansia tornava ad assalirla. Ma
da che parte è il nord?
Ricordava
quando, da bambina, un amichetto le aveva detto che sugli alberi il
muschio
cresceva sempre verso nord, ma, anche ammesso che fosse vero, gli
alberi che la
circondavano in quel momento erano completamente ricoperti
di muschio. Tastando quasi alla cieca il tronco del
tiglio più vicino, la giovane pensò di aver
individuato un lato su cui il
morbido tappeto umido cresceva più rigoglioso. Questo è il nord?
Fortunatamente,
l’abbozzo di sentiero proseguiva proprio in quella
direzione… o, almeno, così le
pareva. Per un istante, Lidia si chiese se non sarebbe stato meglio
abbandonare
il sentiero, ma subito scartò quell’idea: se
avesse abbandonato anche quell’esile
traccia, si sarebbe sicuramente persa nel cuore della foresta.
Ammesso che io non mi sia già persa!
Lentamente,
facendo attenzione a dove metteva i piedi, la fanciulla si mise di
nuovo in
cammino, ma dopo qualche minuto un suono terrificante le
ghiacciò il sangue
nelle vene: un verso roco e al contempo stridulo, a metà tra
il latrare di un
cane e il gracchiare di un corvo enorme. Il suono si levò da
un punto
imprecisato alle sue spalle e rimbombò
nell’oscurità della notte. Lidia non
ebbe dubbi: non poteva che essere il grido dell’orso nero, la
terrificante
fiera di cui aveva sentito tanto parlare. La ragazza si
portò una mano alle
labbra, ricordando i terribili racconti di viaggiatori solitari fatti a
pezzi e
divorati con una ferocia senza pari.
Spaventata
a
morte, incurante dei rovi e delle ortiche, la fanciulla si
catapultò in avanti,
correndo, ne era certa, per salvarsi la vita. Non sapeva a quale
velocità
potessero muoversi gli orsi – e di certo non intendeva
scoprirlo. Mentre
correva a perdifiato nel tentativo di sfuggire alla bestia che
continuava a
lanciare quelle grida spettrali, un altro richiamo, del tutto simile a
quelli
emessi dalla belva alle sue spalle, giunse da una macchia di alberi
davanti a
lei. Con un gemito terrorizzato, la ragazza scartò di lato,
nascondendosi tra
un folto groviglio di felci: un nascondiglio assolutamente misero, ma
era
meglio di niente.
Lidia
rimase
acquattata per un paio di muniti, tremando e tendendo le orecchie: se
il primo
animale continuava a essere estremamente rumoroso, il secondo si era
zittito –
ma doveva per forza di cose essere ancora lì, da qualche
parte, dato che non
l’aveva sentito allontanarsi.
La ragazza
si
schiacciò a terra, facendo del proprio meglio per respirare
in maniera regolare
e per non lasciarsi sopraffare dal sentore pungente delle felci e del
terriccio
marcio sul quale si era distesa. Dopo alcuni minuti, quando tutto nella
foresta
sembrava essere tornato alla normalità, Lidia si convinse a
rimettersi in piedi
e a dare un’occhiata in giro, ma, proprio quando si stava
issando sulle
ginocchia, dalla sua destra giunse un fruscio e dal sottobosco
sbucò una sagoma
confusa. Con un grido di puro terrore, la giovane fece in tempo a
scorgere un
muso triangolare, un sottogola chiaro, due enormi occhi neri e un
piccolo paio
di corna diritte, poi scattò via, allontanandosi
dall’animale e incespicando
nei propri piedi. Il capriolo, evidentemente terrorizzato almeno quanto
lei, si
allontanò a grandi balzi, dando alla ragazza una chiara
visione della sua coda
bianca.
Tremante,
Lidia
si accasciò sul sentiero. Non era
un
orso, si disse, cercando di calmarsi, non
era un orso.
I caprioli
erano del tutto innocui, lo sapeva bene; quell’incontro
l’aveva tuttavia scossa
e la giovane romana ci mise qualche istante a riprendersi dalla
tremarella che
l’aveva colta. Quando sentì di essersi calmata a
sufficienza, Lidia si raccolse
nuovamente i capelli in una crocchia, cercando di fare ordine nella
propria
mente. Doveva calmarsi. C’erano fin troppi pericoli reali, in
quel posto, non
aveva assolutamente bisogno di farsi spaventare anche dai mostri
inventati
dalla sua mente. Del resto, quando il Legato le aveva presentato il
villaggio,
non aveva fatto alcuna menzione delle belve che si nascondevano nei
boschi, no?
Con ogni probabilità, non c’era proprio nessun
orso, in quella regione.
Un
po’
rassicurata, la fanciulla si rimise in piedi e, per sicurezza, rimase
immobile
per qualche istante, ascoltando e catalogando mentalmente i rumori
della
foresta. Fu allora che sentì, in lontananza, un fruscio di
foglie calpestate.
Si trattava forse dell’altro capriolo, attratto dai richiami
di quello che lei
stessa aveva messo in fuga?
Ma no, i caprioli saltano e questa cosa…
questa cosa sta correndo!
Malgrado
le
sue migliori intenzioni, Lidia sentì il panico tornare ad
assalirla. Tremante,
la fanciulla cercò disperatamente di capire quanto
lontano fosse l’essere che stava producendo quei rumori, ma
si rese conto di
non averne la minima idea.
Si sta avvicinando, questo è certo!
Pensò, sbiancando. Non era il galoppo regolare di un cavallo
e non era nemmeno
un passo umano; era piuttosto uno scalpiccio erratico, disordinato, di
qualcosa
che non procedeva in linea retta, ma vagava e frugava senza sosta. Era
il
passo… è il passo di un
lupo! Non che
avesse mai visto o sentito un lupo,
ma Lidia sentì che c’era qualcosa –
forse il suo istinto – che le gridava a
gran voce che la verità fosse proprio quella. I lupi
vivevano in branchi, lo
sapeva, ma di certo esistevano esemplari solitari…
Senza
fermarsi
a riflettere oltre, ignorando il freddo e la fatica che iniziavano a
morderle
le ossa, la fanciulla si costrinse a rimettersi in movimento,
accennando
addirittura una sorta di corsetta stremata. L’animale
sconosciuto, però, si
muoveva troppo rapidamente e ben presto Lidia si rese conto che non
aveva
alcuna possibilità di sfuggirgli. Sperando di passare
inosservata, la fanciulla
abbandonò di nuovo il sentiero e si nascose tra gli alberi. Forse passerà oltre,
pensò, chiudendo
gli occhi.
Il
tramestio
si fece sempre più vicino e poco tempo dopo la ragazza fu
addirittura in grado
di distinguere il respiro pesante della bestia. Doveva essersi fermata
e, a
giudicare dai sibili che emetteva, stava annusando freneticamente
qualcosa. Le
sue tracce, con ogni probabilità. Quando l’animale
raspò il terreno con una
zampa e mosse qualche passo nella sua direzione, Lidia non
riuscì a fare a meno
di sporgersi dal suo nascondiglio, cercando di scorgere la creatura che
le
stava dando la caccia.
Forse è una volpe, si disse,
speranzosa.
Forse è solo… ma
no. Era un lupo. Un
lupo enorme, dal pelo grigio, ispido, sorprendentemente alto sulle
zampe – era
effettivamente molto più grande di quanto si fosse aspettata
– dotato di una
lunga coda che portava alta sul dorso.
Lidia non
riuscì a trattenere un gemito e, non appena udì
quel suono, l’animale alzò il
muso dal terreno, piantandole addosso i suoi occhi scuri e avanzando
nella sua
direzione con un passo straordinariamente felpato. Lentamente, guidata
da un
istinto sconosciuto, la fanciulla indietreggiò fino a
raggiungere il sentiero.
Il lupo la seguì, senza perderla d’occhio, ma
senza nemmeno attaccare. Quando
si rese conto di essere su un terreno meno accidentato, Lidia
tentò il tutto per
tutto e provò a scappare, ma in due balzi
l’animale si portò davanti a lei e
prese ad abbaiarle contro.
Con un
breve
grido, la ragazza indietreggiò di nuovo, ma questa volta il
lupo continuò ad
abbaiare, ancora e ancora, spingendola indietro, verso i suoi compagni,
forse,
verso un albero, verso una pietra… In preda al terrore,
Lidia pensò che volesse
metterla con le spalle al muro, tagliandole ogni via di fuga prima di
balzarle
alla gola. Forse abbaiava per confonderla, forse per attirare il resto
del
branco, forse…
I lupi non abbaiano.
Quel
pensiero
le attraversò la mente con straordinaria chiarezza, ma non
appena l’ebbe
formulato Lidia si sentì afferrare per un polso e tirare
contro qualcosa che
non era certo un albero o un masso. Istintivamente la fanciulla
gridò e si
divincolò, ma un braccio le circondò le spalle e
il petto, immobilizzandola,
mentre una mano le calò sulla bocca per impedirle di urlare
di nuovo. Quasi
inconsciamente, la ragazza aprì la bocca e la richiuse con
forza su quella
mano, mordendo finché il sapore del sangue non le invase la
bocca.
L’uomo
che
l’aveva aggredita sussultò, allentando un
po’ la presa. Alzando lo sguardo Lidia
poté constatarne l’identità: Ulf.
Prima che
potesse dire o pensare qualsiasi cosa, l’uomo
tornò a premerle il polso sulla
bocca e la ragazza, visti i risultati, morse anche quello. Questa volta
il
germanico era però preparato e, liberandole le braccia, la
afferrò per i
capelli, tirandoli con forza e strappandole un grido di dolore che la
costrinse
a mollare la presa. Approfittando di quel momento, l’uomo la
spinse
violentemente contro un masso coperto di muschio, facendole sbattere la
nuca
contro la roccia. La ragazza fece scattare in avanti le mani e
provò a
graffiarlo, ma lui fu più veloce e riuscì a
bloccarle i polsi prima che potesse
andare a segno.
«Perché
cazzo sei
scappata?» le ringhiò in faccia. Tra le ombre del
bosco, Lidia riusciva a
vedere la rabbia sul suo volto; eppure, la voce dell’uomo
rimase bassa, come se
non volesse farsi sentire da qualcuno.
«Bastardo»
le
scappò detto, prima di riuscire a controllarsi.
Per nulla
turbato dall’insulto, Ulf la scrollò, tenendola
per le spalle, e ripeté la
domanda. «Perché sei scappata? Posso sapere che
cazzo ti passa per la testa? Ti
dico di andare a letto e tu scappi! Perché?»
Respirando
affannosamente, lei lo guardò in faccia: era spaventata, ma
per una volta la
rabbia stava avendo la meglio sulla paura, permettendole di
affrontarlo. «Lo
sai benissimo, il perché!» sibilò,
accusatoria.
Lui fece
un
suono a metà tra l’incredulo e lo scocciato.
«Unna» sbottò. «Hai creduto a
quello che ti ha detto Unna. Sapevo che eri stupida, ma non pensavo
fino a
questo punto.»
Lidia
avvampò,
punta nell’orgoglio. «E perché non avrei
dovuto?» urlò. «Non so nulla di te e
probabilmente…»
Ulf le
tappò
immediatamente la bocca con una mano. «Non urlare!»
le intimò. «Vuoi farti
sentire da tutto il paese? Tu non hai idea… tu non hai idea
di come funzionino
le cose, qui, quindi chiudi quella bocca e fa’ quello che ti
dico io!»
La ragazza
ansimò come un animale in trappola, ma si zittì,
mentre Ulf stringeva di più la
presa sulle sue braccia, arrivando a farle male. «Te lo
ripeto un’altra volta:
vediamo se ti entra in testa» disse lui, tenendola inchiodata
al sasso umido.
«Io non voglio avere nulla a che fare con te. Sei patetica,
immatura e con ogni
probabilità completamente cretina. Il solo pensiero di
toccarti mi fa orrore,
chiaro?» L’uomo la scrutò con aria
critica, poi rincarò la dose. «E sei pure
bruttina, quindi non hai proprio nulla da temere, da me. Non in quel
senso,
almeno.»
Lidia lo
guardò, boccheggiando a vuoto. I vaghissimi sensi di colpa
che la sua coscienza
aveva iniziato a provare per il fatto di aver creduto a sua sorella,
anziché a
lui, vennero immediatamente spazzati via dalle sue parole.
«Perfetto» sbottò, riprendendosi.
«Perfetto! La cosa è reciproca: mi fai schifo pure
tu!»
Ulf
annuì,
secco. «Bene.»
Lidia
sospirò
e si divincolò finché l’uomo non si
staccò da lei. «Stando così le
cose», disse,
sistemandosi per l’ennesima volta i capelli spettinati,
«puoi anche lasciarmi
andare. Raggiungo l’accampamento romano e sparisco,
così siamo contenti tutti e
due.»
«Ma
lo vedi,
che sei proprio stupida?» sbottò lui.
«Tu non vai proprio da nessuna parte: noi
due dobbiamo restare insieme, dobbiamo fingere che questa cosa funzioni a meraviglia e non dare a
nessuno motivo di credere
che non sia così. Non te l’ha spiegato, la
sacerdotessa?»
«Me
l’ha
spiegato, sì» ammise Lidia, prima di aggiungere,
mentalmente: ma non me ne frega niente. Perché,
se ci
pensava bene, il fatto che in Germanica potesse scoppiare una guerra
non le
faceva né caldo né freddo: a lei bastava trovarsi
lontano da lì, quando sarebbe
successo.
«E
allora?»
sibilò ancora Ulf, incrociando nervosamente le braccia
davanti al petto.
«Continuo
a
non capirne il senso» protestò Lidia.
«Se io odio te e tu odi me, chi potrebbe
mai pensare che così, magicamente, le cose si
risolvano?»
«Nessuno
lo
pensa», sbuffò l’uomo, «ma
tutti hanno ben chiaro qual è la cosa più
importante:
la pace. Beh, tutti a parte te, a
quanto pare.»
La
fanciulla
indietreggiò di un passo, offesa.
«Ma…»
«Cosa
credi?»
riprese Ulf, con una nota tagliente nella voce. «Pensi forse
di essere l’unica
a dover fare dei sacrifici? Tu non hai
assolutamente idea di come funzioni il mondo,
credimi!»
«Non
sono così
stupida come credi» lo contraddisse Lidia, sentendo di
doversi difendere dal
disprezzo dell’uomo.
«A
me non pare
proprio» ribatté lui. «Del resto, quale
persona dotata di cervello se ne
andrebbe in giro da sola, di notte? E per di più in un bosco
che nemmeno
conosce?»
La giovane
si
strinse nelle spalle, fingendo indifferenza.
«Perché, avevi paura che potesse
mangiarmi un orso?» Malgrado fosse intenzionata a mantenere
un tono distaccato,
la fanciulla non riuscì a evitare che nelle sue parole si
infiltrasse una
leggera nota tremula.
«Ma
magari!»
sbottò il germanico. «No, non ci sono orsi, qui:
in compenso ci sono un sacco
di persone che sarebbero ben felici di levarsi di torno una romana. Non ti consiglio di andartene in
giro da sola, di questi tempi: né di notte né di
giorno.»
Nell’udire
quelle parole, Lidia sbiancò. Cosa intendeva, quando diceva
“levarsi di torno”?
E quali persone? E perché?
«Li
hai visti,
quei soldati, no?» riprese Ulf. «Cosa credi, che
siano qui in villeggiatura?
Pensi che a tutti stia bene avere quei legionari a casa
nostra?»
Lidia fece
per
replicare, ma improvvisamente la sua gola si fece secca,
così la giovane si
limitò a scuotere il capo, tenendo gli occhi bassi e
cercando di elaborare
quello che l’uomo le aveva appena detto.
«Perciò»,
continuò ancora il germanico, «non devi
più azzardarti a provare a scappare: è
chiaro?»
«Mh.»
Lidia
annuì, un gesto talmente vago che avrebbe potuto dire tutto
o niente.
Evidentemente
infastidito dal suo atteggiamento, Ulf le afferrò il mento
tra due dita e la
costrinse a guardarlo. «A me non interessa nulla di te. Se
dipendesse da me,
saresti libera di andartene adesso, in questo preciso istante. Vuoi
andare a
farti ammazzare? Prego, fai pure! Ma, sfortunatamente, le cose sono un
pochino
più complicate di così»
mormorò, abbassando la voce e stringendo ulteriormente
la presa sulla mascella della ragazza. «Se tu te ne vai e
altri seguono il tuo
esempio, succede un casino. Se tu te ne vai e la sacerdotessa pensa che
io non
abbia fatto del mio meglio per trattenerti, succede un casino. Hai
afferrato il
concetto?»
Senza
fiato,
Lidia esalò un “sì” quasi
impercettibile. Continuando a fissarla negli occhi,
Ulf la attirò a sé. «Se questa storia
si venisse a sapere, Donna Erin ci
terrebbe d’occhio a vista. Ci obbligherebbe
a fare le cose come dice lei e la cosa non sarebbe piacevole
per nessuno
dei due.» Vedendo forse la paura nei suoi occhi,
l’uomo allentò la presa e
lasciò che la sua mano scendesse sulla spalla della ragazza,
posandovisi sopra,
ma senza stringerla. «Io ti capisco, davvero»,
fece, con voce più calma, «stare
qui non ti piace e hai paura. Per questo ho cercato di essere gentile
con te,
pensavo di lasciarti più libertà possibile e di
non sconvolgere troppo la tua
vita. Però, evidentemente, di te non ci si può
fidare.»
Il cuore
di
Lidia ebbe un sussulto e la ragazza chinò il capo, mentre la
sua mente si
riempiva di vecchie eco. «Ti do ancora una
possibilità, l’ultima»
continuò
l’uomo, lasciando scivolare via la mano.
«Dopodiché, se per farti collaborare
ci sarà bisogno di metterti sotto chiave e trattarti come ti
aspetti di essere
trattata, lo farò. Mi sono spiegato?»
Perfettamente, pensò Lidia,
annuendo piano.
Soddisfatto, Ulf le afferrò un braccio. «Forza,
torniamo a casa» disse,
trascinandola con sé.
La
fanciulla
lo seguì docilmente, troppo turbata per opporre resistenza.
“Di te non ci si
può fidare”, le aveva detto. Di te non ci si
può fidare. Perché sei una buona a
nulla. Perché non riesci mai a capire quello che devi fare.
Perché hai la testa
per aria. Quante volte suo padre le aveva detto quelle cose? E adesso
Ulf
glielo aveva ripetuto: se due uomini tanto diversi tra loro la
pensavano allo
stesso modo, forse, allora, un fondo di verità
c’era?
Con gli
occhi
improvvisamente offuscati dalle lacrime, la giovane inciampò
in una radice e
rischiò di finire a terra. Fu solo la mano di Ulf stretta
attorno al suo
braccio a impedirglielo e quella consapevolezza le strappò
un singhiozzo: non
era quella, la mano che voleva sul suo corpo.
Tito! Pensò, disperata. Che
cosa aveva
ottenuto con quella bravata? Solo di mettere sul chi va là
il germanico,
rendendo ancora più difficile un’impresa che si
era fin da subito presentata
come terribilmente complicata. Perché era così
imbranata? Non era nemmeno
riuscita a far perdere le sue tracce in mezzo a un bosco!
Oh, ma tutto stava andando così bene,
prima
che arrivasse quella maledetta bestia! Stringendo
rabbiosamente i denti, Lidia
lanciò un’occhiata carica di rancore alla vaporosa
coda grigia che appariva e
spariva attraverso gli alberi.
«E
così
credevi che ci fossero gli orsi, qui.»
Dopo
alcuni
minuti di silenzio, la giovane sussultò quasi, nel sentire
la voce di Ulf. In
tutta risposta, la ragazza si limitò a sollevare
stizzosamente una spalla. Cosa
accidenti ne doveva sapere, lei, della fauna locale?
«È
per quello che hai urlato, poco prima che ti trovassi? Pensavi di
essere
inseguita da un orso?»
«…
credevo»
mugugnò, allungando il passo e incassando il collo nelle
spalle, la voce ancora
impastata a causa delle lacrime.
Davanti a
quella risposta, l’uomo emise un suono che assomigliava in
maniera sospetta a
una risata soffocata. «Era un capriolo, vero?»
sghignazzò.
Oltraggiata,
Lidia strappò il braccio dalla presa del germanico, che,
colto di sorpresa, la
lasciò andare. «Ma va’
all’Inferno!» sibilò lei, allontanandosi
a grandi passi
lungo il sentiero. La risata bassa dell’uomo la
inseguì e la ragazza sentì
nuovamente la rabbia bruciarle lo stomaco.
Oh, quanto avrebbe
pagato per veder arrivare veramente
un orso, in quel momento. Giusto per vedere la faccia di quello
là: era certa che non avrebbe più
riso tanto, allora. Se se lo mangiasse,
poi, sarebbe perfetto!
Con uno
sbuffo
sdegnoso, Lidia marciò verso la casa dalla quale era
scappata, mettendo quanti
più metri possibili fra se stessa e quell’uomo
orribile che si divertiva a
prendersi gioco di lei.
***
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