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Autore: Giuf8    12/11/2017    0 recensioni
E Ethan e Jackson? Come si sono conosciuti? In che zona di Londra? Chi ha fatto la prima mossa? E il primo bacio?
Non potevo proprio lasciare questa storia solo nella mia testa.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ethan, Jackson Whittemore
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tempo di cambiamenti
 
Ethan
 
Ethan si svegliò, l’aereo che traballava paurosamente e il pilota che chiedeva di allacciarsi le cinture di sicurezza perché avrebbero incontrato una turbolenza. Eseguì i comandi veloce, non aveva mai volato da solo e la cosa lo innervosiva. Per un istante la sua mente si perse a chiedersi che cosa sarebbe successo se si fosse trasformato lì su quell’aereo, in mezzo a tutti, senza nessuno a coprirlo, niente maschere solo lui da lupo e i passeggeri.
“Dolce o salato?” la voce lo riscosse e fece un balzo sul sedile.
“Come?” chiese guardando negli occhi la hostess e sentendosi incredibilmente stupido.
“Dolce o salato? Lo spuntino, come lo vuole?”
“Ah… salato, salato e un bicchiere d’acqua” borbottò. Si pentì della scelta non appena si girò e vide che aspetto invitante avessero i biscotti del vicino, osservò schifato i… cos’è che erano esattamente? Grissini? Che salati c’è da dirlo erano salati.
“Sempre così prendi il salato e pensi sia meglio il dolce, se prendevi il dolce, invece, volevi il salato. Rubavi sempre quello che ordinavo io” la voce di Aiden gli arrivò così chiara che dovette guardarsi intorno per accertarsi che se la fosse solo immaginata.
Come tutti i viaggi in aereo che si rispettino perse velocemente la cognizione del tempo, sotto di sé vedeva soltanto un’enorme distesa blu. Si perse a guardare il mare, pensando ai kilometri che lo separavano sempre più dall’America. A pensarci si stupiva ancora di aver preso quel volo, si era come reso conto, dopo mesi vissuti in squallidi motel che la sua vita per ripartire aveva bisogno di un cambiamento. Era stato con un incredibile sforzo di volontà che si era alzato dal letto, si era rasato e con poco più di una sacca aveva preso il biglietto per il primo volo. Londra.
Devo essermi ammattito, nemmeno so che cosa ci sia a Londra, a parte il Big Ben, gli autobus rossi e la regina Elisabetta. Ormai è fatta Ethan, anche perché scendere da qui la vedo dura.
Reclinò il sedile e chiuse gli occhi cercando di riprendere il sonno da dove era stato interrotto.
 
L’aria fredda gli faceva accapponare la pelle e condensare il fiato in calde nubi bianche. Correva. Sentiva il cuore battergli nel petto eccitato, il brivido della caccia. Gli artigli che si conficcavano nel terreno, i muscoli che si tendevano senza sforzo e lo lanciavano a velocità disumane. Era felice, libero, selvaggio. Poi lo avvertì. Un dolore lo colpì allo stomaco facendolo ruzzolare a terra, la leggiadria di un attimo prima volatilizzata nel nulla. Gli artigli, le zanne e gli occhi blu che lottavano per rimanere a galla, perché il dolore ti rende umano, il dolore non è cosa da lupi. Abbassò gli occhi all’elsa della spada che ancora fuoriusciva dal suo corpo. L’afferrò con una mano e provo ad estrarla ed i suoni intorno a lui si fecero ovattati, spenti come i colori che si andavano attenuando. Sentì un liquido colargli dalla bocca, impiegò qualche istante a capire che si trattava del suo sangue. Sangue nero che gli riempiva la vista, la bocca e i polmoni. Faceva male, male come niente in vita sua. Guardò in su e lo vide, soffriva anche lui, glielo leggeva negli occhi. Fu quello sguardo l’ultima cosa che vide. Poi fu nero, nero come il suo sangue. Ethan.
 
Ethan si rizzò a sedere, il fiato corto e gli artigli conficcati nel sedile. Si guardò intorno disorientato e i ricordi riaffiorarono poco a poco, Aidan, l’aereo, Londra. Trasse un profondo respiro, cercando di regolarizzare il cuore e infondendo calma nei nervi contratti di modo che riuscisse a ritrarre gli artigli. Lui, un licantropo appartenente ad uno dei branchi più potenti mai esistiti, lui, un ex alfa, che si ritrovava a perdere il controllo come un novellino e, per giunta, in uno spazio chiuso pieno di gente. Ma che gli stava succedendo?
“Metta il sedile diritto, per cortesia, stiamo per atterrare” gli disse gentile la hostess.
“Grazie al cielo” pensò.
Si chiese come fosse possibile sentirsi così oppressi e con quel senso di claustrofobia essendo a oltre diecimila metri di quota.
Ottomila, cinquemila, tremila. Vedeva le case farsi sempre più vicine e poco dopo sentì l’urto delle ruote che colpivano l’asfalto. Trasse un sospiro di sollievo e si accorse solo in quel momento di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo.
“Ethan che ti succede?” si disse.
Fortunatamente quando si è un lupo mannaro che passa la maggior parte del suo tempo a correre nei boschi non si ha un gran guardaroba, nemmeno quando il lupo in questione è molto attento alla moda. Ethan non amò mai tanto la sua natura come quando vide la folla accalcarsi urlante intorno al nastro di ritiro bagagli. Osservò la sua sacca, che veniva tranquillamente superata in misura dalle borse di alcune signore e un sorriso sghembo gli riempì il volto.
Si sentiva diverso, in quel posto in cui suo fratello non era mai stato forse non avrebbe avvertito così tanto la sua mancanza. Era stato in lutto a sufficienza, ora doveva trovare la forza per ricominciare davvero. Prese l’ennesimo respiro della giornata e si diresse verso l’uscita dell’aeroporto pieno di aspettative.
Le porte scorrevoli si aprirono lasciando intravedere il paesaggio umido di Londra. Nonostante la pioggia, il freddo e le persone nervose che si rubavano i taxi a vicenda si rese conto di essere felice come non gli accadeva da tempo.
Fece un passo verso l’esterno con un sorriso ebete sul volto, quando gli sembrò di essere travolto da un treno. La borsa che portava sulla spalla destra nell’urto cadde a terra, centrando in pieno una pozzanghera e schizzando acqua ovunque. Preso in contropiede dalla forza dello scontro si ritrovò a ruotare su se stesso per mantenere l’equilibrio.
“Ehi” urlò dietro al ragazzo che l’aveva colpito e che stava proseguendo come se nulla fosse.
“Ehi” ripeté “Sarebbe meglio se guardassi oltre il tuo brutto muso mentre cammini qualche volta”
L’altro si fermò, stette fermo così per un tempo infinito, tanto che Ethan si chiese che genere di problema avesse. Molto lentamente il ragazzo si voltò verso di lui.
“Fino a prova contraria, sei tu l’idiota che cerca di uscire dall’entrata” sbuffò con astio.
Rimase a guardarlo negli occhi ancora per qualche secondo, finché un suo amico tornò indietro a chiamarlo. Solo allora interruppe lo sguardo e proseguì per la sua strada.
Ethan si girò e quando vide un cartello enorme con un divieto d’accesso si sentì travolgere da un’ondata di imbarazzo.
Si chinò per raccogliere la borsa e così facendo tagliò la strada ad un uomo che aveva tutta l’aria d’essere molto di fretta.
“Ma dove hai la testa?” gli chiese questo.
Ethan si raddrizzò mettendosi la sacca zuppa d’acqua sulla spalla, incurante che questa bagnasse anche gli ultimi vestiti asciutti che gli erano rimasti: quelli che indossava.
“Ma dove ho la testa?”
Ethan proprio non lo sapeva, ma per la prima volta da davvero molto, molto tempo, i suoi pensieri non erano occupati dalle immagini di suo fratello agonizzante tra la sue braccia. Per la prima volta da molto tempo, quando batté le palpebre non vide le sue mani impregnate di sangue, ma un paio di bellissimi occhi azzurri, non sentiva i respiri strozzati di Aidan, ma una voce astiosa che gli dava dell’idiota.
 
Jackson
 
L’odore dell’erba appena tagliata gli arrivava alle narici con zaffate regolari, le luci del campo infastidivano i suoi occhi sensibili e il sudore salato che gli colava dalla fronte bruciava come acido. Eppure Jackson non avrebbe voluto essere da nessun altra parte al mondo. Sentire i muscoli in tensione, la mente focalizzata su un obbiettivo e tutta la sua forza incanalata nel suo corpo pronta ad agire. Tutto questo lo faceva sentire libero e, soprattutto, gli regalava qualche ora di tranquillità in cui non sentiva più la necessità di dover uccidere la prima persona che gli rivolgesse una domanda di troppo.
“Jackson vieni qui” gli urlò il coach a bordo campo.
Lasciò cadere la mazza piatta al suolo e si diresse irritato verso di lui, aveva appena iniziato a giocare, maledizione.
“Carl si è preso la polmonite” iniziò brusco l’allenatore “Vorrei che lo sostituissi per oggi.”
“Ma coach… Carl è un ricevitore, io non…” provò a protestare.
“Senti Jackson, tu fai ciò che ti dico, ok? Se ti dico di portare il culo in panchina tu esegui, se ti dico di andare a prendermi un caffè obbedisci e, maledizione, se ti dico che per oggi farai il ricevitore ti metterai due stupidissimi guantoni e riceverai. Sono stato chiaro?”
“Sì, coach” sputò irritato raggiungendo la sua nuova postazione.
“Io sono un battitore maledizione, non mi aiuta a sfogarmi prendere una palla al volo”.
L’allenamento proseguì senza altri intoppi e Jackson se la cavò molto bene nel suo nuovo ruolo, era fin troppo semplice. Questo almeno finche non toccò a Mick tirare ed impresse al tiro un affetto particolare  sembrò dare alla palla vita propria e contro cui il ricevitore non poté nulla. Jackson sentì il lupo che era in lui risvegliarsi alla vista di quel proiettile che gli veniva scagliato addosso. Normalmente non si sarebbe esposto così tanto, perché sapeva benissimo che quella palla per qualunque essere umano sarebbe stata imprendibile, mentre per i suoi riflessi non era nulla più di una palla che viaggiava a una velocità moderata a pochi centimetri da lui. Tuttavia sentiva ancora le parole del coach e la rabbia di fondo che gli lasciava un sapore acre in bocca e, quasi senza rendersene conto, si ritrovò con la palla tra i guantoni proprio mentre veniva fischiata la fine dell’allenamento.
Ricevette pacche sulle spalle dai compagni di squadra che si complimentavano per la presa.
Raggiunse la panchina bevendo un sorso d’acqua e buttandosi ciò che restava tra i capelli che poi sfregò con l’asciugamano. Si stava mettendo in coda per l’ingresso dello spogliatoio quando fu chiamato dal coach.
Lo raggiunse a passo veloce, mentre il sudore che gli si asciugava sulla pelle iniziava a farlo rabbrividire.
“Ottimo lavoro oggi” gli disse coinciso.
Quell’uomo gli piaceva per quello, sapeva trattarti come l’ultimo parassita vivente a questo mondo, ma era anche in grado di complimentarsi con l’atteggiamento più benevolo del mondo quasi fossi suo figlio e non faceva grandi giri di parole per dire ciò che pensava. Lo diceva e basta.
Per un secondo il pensiero gli corse a Bobby Finstock e si sentì invadere da una punta di nostalgia, si chiese perché mentre era a Beacon Hills vedeva Bobby solo come un cane pazzo, mentre ora gli sembrava, quasi, molto quasi, degno di rispetto.
“Mercoledì la squadra partirà per il Galles per sostenere la prima partita del campionato”.
Jackson trattenne il fiato. Era una faccenda dannatamente seria il campionato tra scuole private e il solo fatto che il coach gliene stesse parlando, a lui, che giocava a cricket solo da sei mesi a quella parte lo inorgogliva.
“Carl ha davvero la polmonite, quindi, se ti interessa il posto da ricevitore è tuo”.
Jackson rilasciò deluso tutto il fiato che aveva nei polmoni.
“Lo so che tu vuoi giocare come battitore, sei anche bravo, non lo nego. Ma non posso togliere il posto a chi gioca da molto tempo, questo lo capisci vero?”
Annuì.
“Bene, inoltre con i tuoi riflessi mi sei più utile come ricevitore che in qualsiasi altro ruolo. Allora, sei dei nostri?”
“Se mi da il permesso, coach, prenderò quegli stupidi guantoni e riceverò.”
“Ottimo Jackson, è l’atteggiamento giusto” disse dandogli una pacca sulla spalla.
“Ci vediamo all’aeroporto tra due giorni.”
 
Il taxi percorreva imperterrito le strade trafficate di Londra che il clima uggioso contribuiva solo a rendere più caotiche. Jackson se ne stava seduto sul sedile posteriore guardando fuori dal finestrino ed atteggiandosi a personaggio triste di un videoclip musicale. Quando l’auto si fermò davanti all’aeroporto il taxista scaricò il suo piccolo trolley e lo aiutò a sistemarsi la borsa della squadra più comodamente sulle spalle, in cambio, ovviamente, di una lauta mancia.
Un messaggio di John gli comunicò che l’amico era già arrivato e lo aspettava all’interno all’asciutto.
Si chiese come avrebbe fatto a reggere l’intera durata del volo seduto accanto a quell’essere che aveva il dono di riuscire a fare delle più piccole vicissitudini della vita della vere tragedie greche. Sentiva la sua parte lupesca agitarsi al solo pensiero.
Iniziò a camminare riflettendo su quale fosse il metodo più efficace per evitarsi quella lenta tortura, sapeva benissimo che un paio di cuffiette e fingere un sonno molto pesante non sarebbero serviti a nulla.
Fu forse perché la sua mente era persa in questi ragionamenti, o forse perché camminava guardandosi i piedi per non farsi cadere negli occhi la pioggia fine. Fatto sta che si ritrovò a urtare con tutta la sua forza contro qualcuno che stava uscendo proprio in quel momento. Nello scontro l’altro perse la borsa che portava sulla spalla che finì per centrare la pozzanghera ai piedi di Jackson schizzando i suoi pantaloni puliti, per non parlare delle scarpe.
Sentì il suo lupo, già nervoso, ringhiare nelle profondità del suo essere e risvegliare il canima.
“Maledizione oggi proprio non va”.
Non si voltò nemmeno a guardare il ragazzo che sapeva stava lottando per mantenere l’equilibrio, lo fece per il suo bene, perché sapeva quanto poco gli mancasse a perdere il controllo.
“Ehi” gli urlò l’altro.
“Pazzo di uno, non puoi lasciar correre una buona volta?”
“Ehi” ripeté l’altro “Sarebbe meglio se guardassi oltre il tuo brutto muso mentre cammini qualche volta.”
Jackson non poté nulla. Sentì gli artigli perforargli il palmo della mano che teneva serrato dalla rabbia. Il respiro gli si fece affannoso e la bocca si contrasse in una smorfia nel tentativo di non mostrare le zanne, con l’ultimo barlume di lucidità chiuse gli occhi per non mostrare il loro luccichio ai passanti. Poi li sentì.
“Fammi divertire un po’ anche me, ti prendi ssempre tutto il divertimento” sibilò il canima.
“Stattene buono nel tuo cantuccio rettile, il primo round è mio” tuonò il lupo.
“Sono più forte di te cane”
“Ma chi vuoi prendere in giro? Chi ha paura di una lucertola?”
“Statevene zitti tutti e due!” gli sembrò di urlare.
Iniziò a respirare lentamente a grandi boccate e sentì le zanne e gli artigli ritrarsi, mentre gli occhi perdevano il loro luccichio. Valutò la possibilità di andarsene senza ribattere, perché sapeva che facendolo avrebbe rischiato di perdere la calma, più di quanto avesse già fatto.
“Tanta potenza in un corpo cosssì codardo” sentì provenire dai meandri del suo essere.
“Non sono un codardo”.
Si voltò piano verso lo sconosciuto e sbuffò:“Fino a prova contraria, sei tu l’idiota che cerca di uscire dall’entrata” la voce resa roca dalla trasformazione mancata.
Rimase fermo sostenendo lo sguardo dell’altro ragazzo con superiorità, non si accorse di come quello sguardo astioso passò a perdersi negli occhi neri che lo ricambiavano, però accadde.
La rabbia che aveva accumulato dentro di se fino un attimo prima sembrò svanire. Sentì il suo lupo agitarsi dentro di lui, ma in un modo che non aveva mai sperimentato, un modo che non riconobbe.
“Jackson” si sentì chiamare. Con un pizzico di rammarico distolse il suo guardo e seguì l’amico.
 
Ore dopo, mentre l’aereo stava per terminare il suo volo e mentre John continuava a blaterare di cose futili accanto a lui, Jackson si sentiva ancora osservato da quegli occhi neri, li sentiva su di se come nessuno sguardo aveva mai fatto. In qualche modo era come se gli avessero scavato dentro, nel profondo, oltre il lupo, oltre il canima, oltre tutta la rabbia repressa e avessero scovato lui.
“Jackson non essere ridicolo” si disse “Nessuno può sapere che cos’hai dentro di te e soprattutto, Jackson, tu sei etero”.
Eppure, il ricordi di quegli occhi lo perseguitò per giorni.
 




Ciao a tutti!
Vorrei ringraziare tantissimo chiunque abbia sprecato del tempo per leggere questa… emh… cosa.
Ringrazio anche tutti quelli che hanno aggiunto la mia storia tra le preferite\seguite\da ricordare.
Spero di non deludere le vostre aspettative e che la storia, fino a qui, vi sia piaciuta.
Un abbraccio e al prossimo capitolo,
Giuf8
   
 
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