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Autore: Anya_tara    13/11/2017    1 recensioni
E' difficile rivelare ciò che si prova, se il cuore è gravato da un peso ... Camus di Aquarius lo ha scoperto, e tanto per cambiare ha fatto ciò che gli è più usuale: fuggire.
Ma ... dall'amore non si scappa. Soprattutto ... Se viene a cercarti nelle lande desolate della Siberia.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Aquarius Camus, Capricorn Shura
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“ There’s footprints in the snow,
I’ll follow wherever you’ll go,
I’ll be the lonely wolf
I’ll follow where you’ll go
In the silver night “
The Rasmus, “Silver Night”
 
Passi. Lunghi passi solitari. Affondano nella neve alta metri, che ricopre una terra sterile, ghiacciata, impietrita.
Non ha mai visto un cielo simile. Una sconfinata distesa blu scuro, disseminata di bagliori grossi come diamanti. Costellazioni invisibili alle loro latitudini ora spiccano vivide sullo sfondo limpido.
Poco male.
Seppure dovrà morire, almeno si porterà nella tomba uno spettacolo meraviglioso.
Cammina sereno, andando incontro al suo Fato. Non si è mai tirato indietro di fronte ad una sfida, non comincerà di certo adesso.
Non è la prima volta che lotta contro un compagno. Anche se gli è stato vicino in quegli attimi terribili, ed ha combattuto al suo fianco anche se dalla parte sbagliata.
Dopo sono divenuti rivali. Lo ha sfidato e l’ha vinto, il compagno. Forse. Perché il proprio intento, quello vero, era sbriciolare quella maledetta statua, e quello lo ha ottenuto nonostante gli sia costato la vita.
Un ululato distoglie per alcuni istanti la sua attenzione dai ricordi. Ma non si ferma, prosegue nell’oscurità luminosa, che gli rammenta il famoso paradosso di Olbers: “ Perché la notte è così buia?”.
Perché basta che un po’ di luce si perda per strada ad ogni passo.
E la loro … si è smorzata. In un modo o nell’altro, durante il loro cammino come Cavalieri di Athena, il fuoco del loro cosmo è stato bene o male offuscato da eventi indipendenti dalla loro volontà.
Sono simili, loro due. Per certi versi sono venuti meno alla loro missione.
Ha intuito la ragione di quella sfida, era abbastanza ovvio comprenderlo.
E gli è parso di capire anche il perché di quella fuga. Vuole regolare la questione quassù, nel cuore, anzi nella mente del ghiaccio polare, dacché il nome di questa piccola penisola nell’estremo Nord della Siberia vuol dire “cervello”. Capo Ayon, ai confini del mondo. Un oceano di ghiacci e neve, senza anima viva nel raggio di decine, forse centinaia di chilometri. L’ultimo villaggio se l’è lasciato alle spalle da un pezzo, laddove un buon uomo si è preoccupato di porgergli del pane, della carne di renna, o forse di yak – lui parla russo, ma quello standard, non conosce il dialetto stretto delle varie regioni – e del latte.
<< Molto freddo >>, gli ha detto semplicemente.
Lui aveva annuito. Abituato ai “gelidi” inverni della Meseta, alle nevi del Perdido, e scontratosi con le temperature dolorosamente pungenti di Asgard,  non aveva idea di quanto potesse mordere le carni e massacrare le vene quel maledetto inverno artico. Non immaginava neppure che dei comuni esseri umani potessero sopravvivere, in quei posti desolati, dimenticati dagli dei.
Poi, un pensiero brusco, tagliente. Lui bambino, che dall’assolata Francia, dalla mediterranea Grecia si era ritrovato catapultato in quell’inferno di ghiacci eterni, di notti lunghe sei mesi.
Chi aveva avuto il coraggio di spedirlo là? Solo perché nato nel cuore dell’inverno, aveva dovuto pagare il prezzo di imparare a maneggiare le energie fredde … il leggendario Zero Assoluto.
Anche lui è nato in pieno inverno. Eppure, il suo addestramento è stato differente; pesante, certo. A tratti crudele. Tra le nevi, anche il suo.
Ma a “casa”, nella terra che l’ha visto nascere. Non all’altro capo del mondo.
E questo lo fa un attimo retrocedere. Non c’è da stupirsi che anche il suo cuore, la sua anima siano divenuti simili a quei ghiacci, affilati persino più della lama nel proprio braccio.
Ma non può più tornare indietro. Il suo senso del dovere lo chiama lì, lo sprona ad andare, a proseguire sulle sue tracce, quasi lupo solitario anche lui, cercando le impronte dei suoi scarponi su quel manto bianco, l’odore nel vento che a tratti si alza impetuoso, gli scartavetra le guance, la punta del naso.
Andandosene, Aquarius gli ha inviato un messaggio: un conto in sospeso esige di essere pagato. Ciò che resta da stabilire, è se ha indovinato il motivo che l’ha spinto ad allontanarsi tanto dal Santuario.
Se è perché non vuole che gli altri sappiano la ragione all’origine di quella sfida. O se più semplicemente, perché colui che ora cammina tra i ghiacci da lì non potrà più fare ritorno.
Anche se potrebbe costargli caro, vuole sapere. Ignorare qualcosa è come un peccato mortale per lui. L’incognita, il punto interrogativo sono mostri che deve per forza sconfiggere: già troppe domande sono giaciute affastellate nella sua mente, troppi anni, non può più permettersi il lusso di lasciare irrisolti dei quesiti.
O delle questioni.
Si guarda la punta delle dita, nude malgrado la temperatura glaciale. Il loro ultimo incontro … non è stato dei più felici. E’ stato una lotta, da cui sono usciti entrambi sconfitti, con un nuovo pungolo nell’anima.
Ma adesso è qui.
E non c’è più tempo per pensare.
Aquarius deve averlo sentito arrivare, perché lo attende fuori nella notte polare. I suoi grandi occhi blu cobalto, costellati di piccole pagliuzze argentee. Somigliano tanto al cielo sopra di loro. << Sei venuto >>, dice soltanto, le braccia incrociate davanti al petto.
Esiste solo una risposta a questa domanda. << Sì >>.
Sì. Sono qui. Sono di fronte a te.
Sono pronto.
<< Lo sapevo >>. Camus china appena il capo, e non può fare a meno di chiedersi a che gioco stia giocando. I lunghi capelli color fiamma danzano come lingue di fuoco intorno al volto pallido. Sulle spalle ha quello che sembra una mantella, forse una coperta di lana dai colori vivaci che fanno apparire la sua pelle ancora più bianca.
Se la serra addosso, con forza. Forse, rivederlo gli ha procurato dispiacere. Gli ha causato qualche sensazione sgradevole, di rimorso, di vergogna.
<< Vieni dentro. Non restare qui al gelo >>, dice in tono neutro, senza mostrare alcuna emozione tranne quella rivelata dalla coperta.
E davvero non riesce a comprenderlo.
Sembra quasi … abbia freddo.
Camus. Freddo. Due termini finora fatti per essere sinonimi. Intercambiabili, quasi.
Eppure, pare quasi stia gelando. Più di lui, che solo in virtù degli allenamenti strenui a cui si sottopone da più di un quarto di secolo, non è finito assiderato in qualche posto sperduto.
E l’offerta di entrare, se nasconde qualche trappola, sarà peggio per Camus.
Dentro, l’izba è piccola, ma accogliente. In realtà ricorda più un grazioso chalet di montagna. Un fuoco vivace scoppietta nel camino, alcune poltrone più funzionali che belle e delle rozze sedie di legno sono la componente più numerosa del mobilio. Gli altri pezzi sono un pesante armadio di legno scuro, un tavolo rovinato dal tempo, e una sorta di madia, di credenza ibrida: si avvicina e la osserva con curiosità affascinata, mentre il compagno apre uno degli stipi e tira fuori due tazze di latta smaltata, un po’ sbeccate. E una bottiglia di quella che sembra essere vodka.
<< Scusa per il disordine … non sono abituato ad avere ospiti, qui. Tranne che i miei allievi >>, si giustifica Aquarius.
Alza le spalle. Non capisce neppure questo: perché si stia scusando, dopo averlo fatto andare fin lì. Se non ha intenzione di combattere contro di lui, ma solo di parlare non c’era bisogno di andare a rintanarsi in capo al mondo. Potevano tranquillamente discuterne a casa, in Grecia. Una scalinata era tutta la distanza da percorrere.
A meno che non stimi doverosa un po’ di cortesia. In fondo resta pur sempre un ospite, prima che un avversario, no?  
Un avversario che ha camminato per più di ottomila chilometri. E pronunciato solo una sillaba, ancora.
Curiosamente, delle due cose è la seconda a pesargli di più.   
Il silenzio. Per la prima volta … gli pesa non aprire bocca.
Le cose si stanno davvero mettendo male. Se perde le proprie certezze, cosa rimarrà, di lui alla fine?
Nulla più che cenere, forse.
Dalla cenere è risorto. Ancora. E ancora. La morte non ha cambiato ciò che era; forse, la guerra ha rimodellato alcune delle sue convinzioni.
Ma non si aspettava che “quello” … potesse agire con la violenza di un terremoto, di un uragano, devastando al punto che non si riconosce più. Cose che non erano accadute in anni ora succedono nel giro di una manciata di ore.
Possibile? 
Camus toglie il tappo alla bottiglia, versando il liquido nelle due tazze. E finalmente, senza rialzare lo sguardo, chiede: << Mi odi, Shura? >>.
<< Odiarti? Perché dovrei >>. Nonostante sia stupito, la sua non suona come una domanda. Non lo è. Non c’è ragione per odiarlo. Non ha fatto nulla, per meritarsi il suo rancore.
Semmai è il contrario. Non è forse questo, che ha spinto Camus a prendere questa decisione? Qualcosa di tanto inconfessabile, da aver richiesto come testimone soltanto l’incantato eterno silenzio dei ghiacci, per poter essere espiata?
Ma il suo caro vecchio amico, il dubbio, torna a bussargli sulla spalla quando Camus riapre bocca. << Ti ho sfidato. Ti ho sconfitto. Ti ho mandato incontro a … morte certa >>. E’ acuto, il suono del rimorso in  queste parole.
D’un tratto tutto si fa chiaro.
Non è andato via per ciò che pensava Shura. Ma esattamente per la ragione opposta.
Shura non ha dubbi su quale sia la risposta. Anche stavolta, ve n’è solo una possibile:  << Hai solo … fatto ciò che ritenevi giusto, Camus. E io ho compiuto il mio dovere >>.
Ma Camus non è convinto. Si mordicchia nervosamente un labbro, cingendo la bottiglia tornata sul tavolo con entrambe le mani. Se non sentisse il morso crudele dei -30 gradi nelle carni, anche sotto lo spesso cappotto che copre diversi strati d’indumenti, penserebbe che non è abbastanza fredda, e ci stia pensando lui.
Ma è soltanto per nascondere il tremore delle dita. Peccato non possa farlo anche con quello delle palpebre. Sembrano farfalle, le sue ciglia. Piumose, e folte, scure senza essere nere, un castano intenso dai riflessi rossicci. << Anche allora, hai compiuto il tuo dovere >>.
<< Sì >>.
<< Ma ti sei odiato >>.
<< Sì >>. Non può negare. E’ la pura verità.
<< Allora come fai a non capirmi? >>. Le mani scivolano, si scontrano col piano del tavolo. << Io … mi odio per quello che ti ho fatto. E se … sono tornato qui … è perché … io … non riesco a vivere così. Con questo … fardello >>.
<< Anche a Milo hai fatto del male. E più che a me. Dovresti chiedere scusa anche a lui >>.
<< Lui non l’ho ucciso, Shura >>. Gli occhi di cobalto si fissano nei suoi, vibrano di riflessi incandescenti. Per un attimo, Shura si chiede se sia soltanto l’effetto del fuoco nel camino, o arda anche nel suo compagno, quello.
Rimorso. Lui ne ha gustato l’amaro sapore per anni. E quello di Camus è del tutto fuori luogo … hanno lottato, sì.
Ma Camus non era preda di una menzogna. Ha levato la sua spada di Ghiaccio per una giusta causa. L’affetto di un amico fraterno con cui aveva un conto in sospeso.
E’ diverso dall’affondare la propria lama sacra nel petto di colui che gli è stato padre, fratello e maestro. E’ … completamente, diverso. << Avresti potuto, Camus. E poi … non sei stato tu >>.
<< E’ come se avessi affondato io la lama nel tuo petto >>.
<< Sciocchezze. Ascolta, Camus, io non so cosa ti abbia spinto ad andartene. Ma se è per questa ragione, hai commesso un errore. Non che non ti capisca, ma semplicemente non occorreva. Non hai fatto nulla di sbagliato. Per me sei un compagno. Un amico, per quanto questo termine per noi due non abbia il suo significato convenzionale. Non saremo mai due che vanno a rimorchiare il sabato sera insieme, o che spettegolano sugli altri. Ma … io mi considero tuo amico >>.
Camus serra le palpebre, e quando le rialza, gli occhi sono lucidi di lacrime. Fa sempre impressione, veder piangere Camus di Aquarius, il gelido Padrone dello Zero Assoluto. << Davvero? >>.
<< Sì >>. Gli si avvicina, con cautela, quasi temesse di farlo fuggire, come un timido cerbiatto, o un gattino.  << Adesso, mi faresti il favore di piantarla, e tornare a casa? >>. La mano di Shura si tende, in gesto di pace. Rimane sospesa, come una goccia di pioggia su un ramo. In attesa che qualcuno la sfiori, per raccoglierla. << Non vorrei che Milo dovesse darmele di santa ragione, perché stavolta sei scappato … a causa mia >>.
Camus finalmente sorride. Un sorriso bagnato di tristezza. Ma il tono è lieve, e anche la sua mano si leva, a sfiorare quella del compagno. << Ti ha già minacciato? >>.
Anche Shura sorride. Ma il suo è un mezzo sorriso nebuloso, indecifrabile. << Per farlo, dovrebbe sapere >>. L’espressione sul suo viso muta, si fa buia. Cupa, quasi. E Aquarius si sente fremere, di timore misto ad una strana sensazione, il desiderio di abbracciarlo, aiutarlo a tirar fuori quel groviglio di tristezze, malinconie dei giorni passati, di paure per quelli seguenti.
E di colpo ad essa si sostituisce qualcosa di più intenso, urgente quasi. La voglia di risentire quello che ha provato, a causa di quel “sapere” che si era erto all’improvviso tra loro, adesso.
Appena realizza, però, il timore prende nuovamente il sopravvento.  Perché a quei ricordi è allacciato, indissolubilmente e affiora imbrigliando saldo tutto il resto, respingendolo a viva forza come una vera e propria barriera fisica, di ghiaccio impenetrabile.
Come qualche notte prima nella Decima Casa.
Erano stati da Aldebaran, per festeggiare il loro ritorno alla Terra c’erano stati chiarimenti, e imbarazzi, e spiegazioni rimaste sospese, di cui improvvisamente non si era più avvertito il bisogno. Era stato sufficiente scambiare uno sguardo, con l’amico offeso, il compagno ritrovato, e l’affetto, potente come non mai nel Santuario, era tornato a scorrere.
E non soltanto lui.
Lui e Capricorn stavano risalendo ai loro templi, dopo essersi lasciati alle spalle Sagitter e Aphrodite: uno che non aveva ancora voglia di andare a dormire, e l’altro che invece si era pesantemente abbioccato sul divano del possente custode della Seconda Casa. Avevano alzato un po’ il gomito … Toro conosceva abbastanza bene i suoi compagni e … amici, da rifornirsi generosamente di alcolici di prima qualità provenienti dalle loro terre di origine, o di addestramento. Così era stato per lui: la Stoliĉnaja, un bicchiere dopo l’altro, aveva abbassato le sue difese, annientato la sua lucidità.
La vodka, che credeva amica, l’aveva tradito. Poco prima di giungere nella Casa di Capricorn, aveva messo un piede in fallo; e solo il tempestivo intervento di Shura l’aveva salvato dal bacio col gradino di marmo sotto di loro.
Però nulla l’aveva salvato da quel calore incerto, improvviso e inatteso. Dal respiro che si era fatto affrettato in entrambi, dallo sguardo annebbiato eppure rovente che era intercorso. Le dita che avevano cercato altre dita, le labbra che si erano fuse ad altre labbra. La mano morbida di Shura, incredibilmente vellutata per essere il fodero di Excalibur, si era posata sulla sua guancia. La sua bocca sempre serrata, quasi mai aperta in un sorriso si era schiusa, planando su quella di Camus, insinuandovi dentro la lingua con dolcezza, affondando e ritraendosi, sfidandolo quasi ad una giostra, una tenzone amichevole.
Un fiume di lava bollente si era riversato lungo la sua schiena; il fiato gli si era spezzato in gola, e ogni sua goccia di sangue era defluita dal corpo per raccogliersi dove necessitava di più.
E fin qui era ancora riuscito a non perdere il controllo.
Il guaio era venuto dopo, quando Capricorn l’aveva issato e portato dentro, nelle sue camere private. Sul suo letto, tra le sue lenzuola, dove aleggiava lieve un anelito del suo odore, quello stesso che ora gl’invade, potente e virile, le narici.
Si era sentito soffocare, improvvisamente oppresso. Non da Shura … da se stesso. Da qualcosa che era riuscito a distrarlo per qualche istante dalla dura lotta che stavano per ingaggiare contro i loro antichi amici e compagni, ch’era balenata in uno sguardo subito fuggito oltre. Camus non era riuscito a guardarlo troppo a lungo; quell’occhiata che si era posata su di lui, durata un battito di ciglia gli aveva strappato un respiro più profondo, doloroso quasi, dal petto cui erano state concesse solo dodici ore per continuare a custodire un cuore pulsante.
Che adesso lo stava assordando, mentre il compagno gli allargava le cosce. Che non aveva potuto essere azzittito nemmeno dai sospiri che si erano aguzzati in gemiti e infranti in ansiti.
E infine il piacere, un’onda calda che lo aveva travolto mostrandogli in tutta la loro spaventosa evidenza quanto traballanti fossero le sue difese, quelle stesse barriere che aveva sempre eretto tra sé e gli altri, persino il suo migliore amico, persino l’allievo che aveva cresciuto come un figlio.
Ma lo spossamento, unito all’alcol aveva avuto la meglio. Si era addormentato tra le braccia di Shura, ascoltando il ritmo del suo cuore acquietarsi, tornare regolare, pulsare contro la sua tempia.
Il mattino era stato difficile da affrontare. Quello che era avvenuto non poteva essere. Semplicemente.
Il senso di colpa, qualcosa da lui sperimentato raramente, era sbocciato durante la notte come un fiore carnivoro, gravandogli sul petto e impedendogli di respirare.
D’accordo, anche lui aveva sbagliato nella vita. Chiunque sbagliava. Ma riteneva di averlo fatto solo nei metodi poco “ortodossi” che aveva utilizzato a volte, le sue motivazioni erano giuste.
Stavolta no. Stavolta … aveva guardato l’uomo al suo fianco, mentre dormiva con un braccio saldamente assicurato alle sue reni, ne aveva inspirato per un ultima volta, avidamente, l’odore di buono, di sano, di muschio e felci tanto simili a quelli della tundra nella sua amata Siberia e di sesso, di carne e sangue che si erano mescolati ai suoi facendolo fremere, tremare e gridare.
E il rimorso si era fatto lama. La stessa che Surt gli aveva affondato in mezzo alle costole.
Aveva dovuto alzarsi. Rivestirsi, infilare la camicia senza nemmeno slacciarla … dalla testa, lasciando che i capelli si condensassero in lunghi rivoli d’oro scarlatto sulle sue spalle. E fuggire, senza lasciargli nemmeno due righe, un biglietto. O un bacio di commiato tra le scapole, in quel piccolo avvallamento formato dai suoi muscoli, che una lievissima peluria appena dorata rendeva simile ad un sentiero di polvere di stelle, una tentazione irresistibile da cui si era tratto a fatica.
Nulla.
Doveva capirlo da solo. E decidere se valeva la pena seguirlo, oppure comprendere le sue motivazioni, e attendere che tornasse da sé. Gettare quella notte nel dimenticatoio, e andare avanti con la vita, la loro vita, ognuno su un binario proprio, senza mai più toccarsi.
Tuttavia … è davvero sicuro, che sia ciò che vuole Shura? Perché … nulla rivela che … abbia qualche intenzione simile nei suoi riguardi. Non ha detto ch’è stato un errore, però non ha neppure azzardato altro.
Forse si sentiva solo in debito. Preoccupato, magari, per le eventuali ripercussioni. Temeva fosse scappato per la vergogna, il che in un certo senso era stato.
<< Sei stanco >>, osserva, osservando la pelle liscia, candida, differente dalla propria solo per le efelidi e meravigliandosi ancora una volta di quanto potesse essere contradditoria, per un uomo come Shura.   
<< Da morire >>.
<< Hai fatto un lungo viaggio … >>.
<< Già >>.
<< Solo per … venire a chiedermene la ragione >>.
<< E’ un ottimo motivo >>, replica tranquillo Shura.
<< Hai bisogno di scaldarti, e rimetterti in forze. Preparo qualcosa da mangiare >>. Si tira su, si avvicina al fuoco. Gli fa cenno di raggiungerlo, e Camus istintivamente allunga le mani a spogliarlo dal pesante cappotto fradicio di neve. Lo posa sul tavolo, e improvvisamente si sente a disagio, avverte il calore montare agli zigomi. E’ stato un impulso malsano, toglierglielo lui … anche perché non ha di queste intenzioni … potrebbe fraintendere e …
Forse, l’istinto ha più presa della ragione. E per lui, animato da sempre da un incessante raziocinio, questo non può essere.
<< Va’ a riposarti. Ti chiamo quando è pronto >>, dice, provando a trarsi da quell’impiccio; per darsi un po’ di contegno gli porge una delle due tazze che ha riempito prima.
E qui si rende conto del secondo errore. Forse non sarebbe stato il caso: in fondo, da quello era cominciato. Magari avrebbe dovuto offrirgli del tè, qualcosa d’inoffensivo. O più sensatamente dell’acqua.  
Ma ormai è tardi per i ripensamenti.
Sta combinando un pasticcio dopo l’altro.
Niĉevo, borbotta tra sé, in russo. Quand’è diventato così imbranato? Sembra una ragazzina al primo appuntamento … cosa davvero inaccettabile, tanto più che sono già stati amanti, anche se non erano granché lucidi.  
Ma amati?, si chiede d’un tratto, una domanda che ha il sentore di un’illuminazione, una rivelazione. Hanno mai permesso a qualcuno di andare oltre, di scendere a scandagliare i recessi delle loro anime, oltre quelli del corpo? Hanno mai messo il bando alle loro paure e lasciato che i sentimenti, come le sensazioni, facessero il loro corso anch’essi?
Quasi gli avesse letto nella mente Shura accetta la sua offerta, ma con l’altra mano gli trattiene il polso. Gli occhi neri affondano nel blu scuro, che si allarga teso, intimidito.
La tazza tocca il bordo del camino, inviolata. << Non stavolta, Camus >>. E le sue labbra toccano quelle di Aquarius. Gli raccoglie le guance nei palmi, insieme alle ciocche rosso intenso sfuggite alla treccia. Il bacio si fa morso, carezza, fluido e lieve e penetrante e doloroso. Si sposta sulla gola, sul petto, giù intorno all’ombelico, liberato dalla prigionia degli indumenti con tutto il resto dalle dita affamate di Shura.
Sono perfettamente sobri, stavolta, eppure Camus non riesce a comprendere cosa ci sia di differente mentre lo issa in braccio e lo porta sul tappeto, sdraiandolo davanti al camino.
Nulla. Assolutamente nulla. La passione di Shura è sempre la stessa, delicata e rapace, incisiva e soffice, paradisiaca.
Camus si drizza a sedere, il suo corpo un angolo acuto con le reni inchiodate ad una poltrona. Mentre Shura scivola in fondo lo guarda, osserva il pallore delicato della sua pelle, il corvino delle sue ciocche scompigliate rilucere nello scintillio rosso dorato. Gioca con i suoi capelli freddi di neve, gli artiglia la nuca quando lo raccoglie fin quasi in gola. Si lascia straziare, stremare, seviziare senza pietà dalla sua bocca, che lo costringe a invocare il suo nome, ad urlarlo nel silenzio della notte polare, a conficcargli le unghie nella schiena fino a farlo sanguinare appena spilla il suo seme.
Ed è adesso che viene il difficile. Ammettere che ha paura di soffrire non è tanto disonorevole, quanto  amareggiante. Per sé, ma soprattutto per Shura.
Nonostante abbia appena avuto un orgasmo sconvolgente, profondo, pulsante ancora nei suoi lombi s’irrigidisce senza volerlo.
E si disprezza per questo. Non riuscire a dimostrare un po’ di spina dorsale … per lui, che ha percorso così tanta strada e tutto quello a cui è riuscito a pensare era questo. Non acqua, non pane, non un giaciglio su cui ritemprare le membra affaticate e doloranti. Non le vampate benefiche provenienti dal focolare.
Ha voluto la sua bocca, il suo piacere, per dissetarsi. La sua carne, per sfamarsi. Alla trapunta imbottita, al materasso non morbidissimo ma accettabilmente comodo ha preferito il duro pavimento di terra battuta, e la sua pelle. L’ha portato vicino al camino ma Cam ha avuto l’impressione che l’avesse fatto per lui più che per sé, quasi gli avesse letto nel cuore l’assurda circostanza che si era venuta a creare.
Aveva freddo. Stava gelando dentro, da giorni, da mesi, anni, e non se n’era accorto.
Solo lo scontro con l’impeto di Shura era riuscito a farglielo sentire fino in fondo, quel ghiaccio spietato. E da quando se n’era andato via era tornato, persino aumentato, a dismisura quel senso di vuoto, davvero di zero assoluto, ove nulla si muoveva, nemmeno le rarefatte molecole di ossigeno necessarie a respirare.
E il suo unico pensiero era stato … che non voleva più tornare così. Non voleva più … essere così insensibile, quasi non fosse umano ma di ghiaccio anche lui.
Ma non vuole nemmeno sentire tutto quel freddo.
Shura si sdraia al suo fianco, gli sfiora una guancia, le labbra. Ha capito. Senza che ci fosse bisogno di parole: quando mai ne sono occorse, a Shura, o con Shura? Lo stretto necessario.
Simili. Sono spaventosamente simili loro due. Fragili. Per nulla disposti ad ammetterlo, o lasciarlo anche solo intravedere. << Va tutto bene? >>, gli sussurra, piegando il braccio sotto la testa a mò di guanciale. Gli sta restituendo il suo spazio, quello che Camus aveva sempre difeso con le unghie e con i denti dagli assalti degli altri.
La sua solitudine. La sua tranquillità. La sua libertà.
Ma che libertà è, una che t’incatena imprigionandoti nelle tue paure? Se la solitudine diviene gabbia, come si può parlare di libertà?
Si gira. Lo guarda. Scruta con attenzione il suo viso, solcato da infinitesimali rughe intorno agli occhi, alle labbra, due piccoli solchi sulla fronte. E le sue mani così letali, eppure così delicate. Insolitamente calde, malgrado la temperatura assassina che si era ritrovato ad affrontare.
Shura rialza le palpebre. E Camus smette di respirare. Non ha mai visto occhi del genere, l’iride un tutt’uno con la pupilla. Solo una piccola chiazza di luce interrompe quel nero uniforme, lucidissimo come una pozza d’inchiostro.
Ancora non lo tocca. Chiaramente, si aspetta che sia Camus a farlo … se lo vuole. E’ pronto anche a questo. A sacrificarsi, ancora una volta, l’ennesima, in nome di un bene più grande, una necessità più stringente. Ma non ci sono dei a richiederlo, non nemici, solo un uomo che si rode il cuore dal pensiero di poterlo deludere, e sta finendo col farlo comunque, e in modo ancora peggiore.
Il solito egoista, gli avrebbe sbattuto in faccia Milo, senza tanti complimenti. Pensi solo a te, e buonanotte ai suonatori.
Gli avrebbe fatto bene, parlare con il suo migliore amico, se l’avesse avuto lì. Lui non temeva nulla, la verità gliela sputava in faccia, come veleno. L’elisir stregato dello Scorpione, una pozione che possedeva la magica virtù di dargli delle salutari lezioni, e aprigli gli occhi su sé stesso, e il suo vero carattere.
Fa per aprir bocca, ma Shura lo precede. La sua voce irrompe nel silenzio non violandolo, anzi, quasi seguendo il crepitio dei ciocchi di legno, e l’ululato lontano del vento là fuori.
Anche Shura è una creatura dell’inverno, come lui. Nato a gennaio, si porta dietro la durezza della terra di quel particolare periodo dell’anno. Tutto dorme, ibernato, sotto coltri di neve o terra ghiacciata, dura come roccia. Tutto sembra arido, spento, severo ai limiti dell’austero ma in realtà dorme al sicuro, in attesa della primavera.
Entrambi sono ingannevoli. Se lo sono dimostrato a vicenda, abbastanza bene. Di quanto possa essere ardente, il suo compagno … e fragile lui.
E Shura la sente, questa fragilità. La comprende e non la disprezza, non la giudica. Ne prende atto, e cura. 
<< Cam, non devi pensare che l’abbia fatto perché voglio qualcosa da te. Anzi, è stato perché ero io a doverti qualcosa. E non ho alcuna intenzione di obbligarti a far nulla che tu non voglia >>. Gli serra la mano in un pugno, portandosela alle labbra, venerandone le nocche. << Non di nuovo. E’ già tanto che tu mi abbia concesso di toccarti ancora, dopo quello che ti ho fatto >>. Sospira, amaro. << Mi dispiace. Non avevo intenzione di approfittarmi di te. In realtà, pensavo fosse per questo che sei venuto qui. Per sfidarmi >>.
<< Sfidarti? >>.
<< Sì. Per esigere riparazione … al mio atto sconsiderato >>, ammette con un lieve sorriso dolente.
Il cuore di Camus si contrae in una morsa. Davvero gli ha dato a credere che fosse per questo? Che … quel suo principio di ribellione quando l’ha portato nella sua camera privata alla Decima Casa fosse stato dettato da altro, che non il timore di scoprire che poteva anche lui desiderare, bramare, provare sensazioni così intense da sconfinare nel dolore? Che poteva volere anche lui sprofondare nella vulnerabilità della condizione umana, essere carne e sangue e fuoco, godere del contatto con la pelle di qualcun altro, persino  di quella sottomissione forse non troppo involontaria? E avere la possibilità di nascondere la polvere sotto il tappeto di un’ubriacatura?
E pensare che parlano tanto di furia francese e ritirata spagnola. Quando invece era stato lui a scappare, anche se cedere a quella furia era stato così dolce … una foga meravigliosa, animata dalla fiamma vibrante che Capricorn custodiva dentro, retaggio della sua terra natia. 
Se c’era qualcuno che se n’era approfittato, quello era stato lui. Era alticcio, sì, parecchio, ma non tanto da non comprendere cosa stava accadendo.
Solo abbastanza da avere la scusa per lasciarsi fare ciò che Shura desiderava. E goderne anche lui, senza inibizioni, senza remore. Senza sentire rimorso per il silenzio, non dover ammettere  che lo stava facendo perché aveva l’anima in fiamme, non solo il corpo.
Non doveva affrontare faccia a faccia quello spettro. Rivelare i suoi sentimenti.
Ma non si aspettava che Shura credesse si sia trattato di un “incidente”. O peggio.
Non è giusto, no.
Deve dirglielo. Deve farlo, adesso. Deve farlo malgrado la morsa dal cuore sia salita allo stomaco, e finanche alle corde vocali, graffiandole.
Ma appena schiude le labbra quello che ne esce è solo una sorta di gracidio informe e sfiatato. Una specie di stridio, di sfrigolio, un rumore a metà tra il frizzare del fuoco e delle unghie sulla lavagna, non precisamente definibile. 
E’ uscito dalla sua bocca, quello? Tanta è la paura di esprimere a voce ciò che ha dentro, da privarlo della facoltà di parlare e ridurlo ad un brusio stonato, incomprensibile?
Tuttavia realizza che non è così appena Capricorn lancia un’occhiata di traverso alla porta, allarmato, sollevando d’impulso la mano destra. << Che cos’è? >>.
Camus scuote la testa, restando in ascolto. A breve il suono si ripresenta … un sibilo basso, costante, che ha messo Shura in allerta e a lui adesso strappa un sorriso. Ci è così abituato che ha smesso anche di udirlo, quando si verifica.
<< Lo so, cos’è. Non preoccuparti … Vieni >>. Gli prende la mano, lo tira su, e appena infila i calzoni e si getta addosso la trapunta ch’è sulla poltrona la riprende, portandolo fuori.
Il cielo, sopra di loro, è un prisma di colori. Un fuoco verde e viola, rosso e un fioco blu zaffiro . E dietro, in sottofondo, come un tocco d’arpa su una base di violino o piano, loro. Le stelle, sul velluto nero della notte. Mai così grandi, belle e lucenti. 
<< L’aurora boreale … ma certo. Che sciocco … >>. Shura resta a naso in su a lungo, ad osservare quel famoso fenomeno elettromagnetico detto anche “le luci del nord”. Come un bambino … come il bambino che gli hanno impedito di essere, il figlio di quell’infanzia che hanno strappato loro, gettandoli nell’arena, tra il sangue, lacrime e sudore, a combattere uno contro l’altro.
Shura adesso ha dieci anni. E sul viso, il muto splendore dell’incanto, della meraviglia … la bocca di Camus si schiude in un verso di sconcerto: ha l’espressione di chi guarda un miracolo avvenire dinanzi ai suoi occhi.
La stessa che aveva mentre erano insieme, rivolta però non al cielo ma a lui. La rammenta in modo sfocato ma sa di non sbagliarsi.
Ora quelle iridi così nere risplendono di tutti quei colori, quelle sfumature impossibili da replicare sulla Terra.
Quando torna a guardare lui, Camus gli sorride. Si avvicina, piano, e Shura lo serra tra le braccia, tenendolo ben avvolto nella trapunta.
<< Grazie >>, gli sussurra, posando la guancia sulla sua fronte.
Camus batte le palpebre. << Per cosa? >>.
<< Per avermi … permesso di vederla. Mi sarebbe sempre piaciuto farlo. Ti sono grato, davvero >>.
Quella frase è una chiave che fa scattare una serratura nascosta. Una molla, un meccanismo che fa decidere immediatamente ad Aquarius che vuole rivederla, quell’espressione rapita, quasi estatica. 
E vuole che rimanga lì, ancora, anche quando torneranno in Grecia, dove le Luci del Nord non possono brillare, se non nei loro ricordi.
E vuole ancora di più. Vuole essere lui … Luce del Nord, per Capricorn. Una tempesta magnetica in grado di sconvolgerlo, di emettere calore freddo, meraviglia della fisica. Un’aurora rosso intenso da cima a fondo, estremamente rara.  
<< Allora, se è così … vorresti fare tu una cosa per me, Shura? >>.
<< Certo. Tutto quello che vuoi >>.
<< Scaldami. Ho freddo … Coprimi >>. Si allunga verso di lui, cercando la pelle della gola, avvertendo il raspare della barba ricrescente, un’ombra appena più scura lungo la linea pura, spigolosa della mascella.
Lo sente fremere, ma non sa se d’eccitazione, o esitazione. Forse entrambe, con una lieve prevalenza della seconda, come realizza quando non sente più le sue mani addosso, ma ricadono inerti lungo i fianchi.
E allora insiste. Con più convinzione. Artigliandogli la nuca, e mordendogli l’incavo sotto l’orecchio. Ogni segno si porta dentro una parte del suo opposto, dice.
Ora lo mette a frutto anche lui. Appropriandosi delle doti del Leone per inchiodare la preda.
<< Scaldami >>.
Shura non se lo lascia ripetere ancora. Lo prende in braccio, rientrando in casa, posandolo nuovamente davanti al caminetto; gli posa una mano sull’osso sacro e lo sdraia, restando in equilibrio su un ginocchio, per non gravargli addosso.
Ma non è di quel fuoco, che Camus ha bisogno adesso. Tende le dita e slaccia il primo della lunga sequenza d’indumenti che Shura portava sotto il cappotto: una pesante giacca sopra un maglione di quelli fatti a mano, lavorati a grosse trecce di lana; sotto, una camicia, di ruvida flanella, e ancora, una maglia a maniche corte.
Reclina indietro la testa, ed espira con forza. << Ma … sotto mi tocca lo stesso lavoro, per spogliarti? >>, chiede, ridendo.
Shura non gli risponde. Si allunga su di lui, riportandolo giù, schiena al tappeto; Camus tende le mani al bottone dei calzoni, scontrandosi con quelle di lui, intrecciandosi, perdendosi mentre glieli abbassa. Lottando per gioco si lascia cogliere le labbra con quelle ancora sapide del suo sapore, aprire le gambe per fargli spazio, coprire dal suo corpo davvero come da una coperta viva, calda e pesante, ansimante e odorosa. S’inarca nell’accoglierlo, prima i suoi cauti polpastrelli, a lungo, senza fretta; poi il suo membro, che lo obbliga ad una resa non nuova, tuttavia diversa, consapevole, forse un po’ temuta all’inizio ma che presto diviene attesa, desiderata.
Camus ansima nuovamente, stringendoglisi addosso. I suoi affondi teneri, pigri, sono soltanto l’inizio: ricorda piuttosto bene, oltre la patina dell’alcol di cui sono vagamente ammantate immagini e sensazioni,  dove possono condurre i fianchi di Shura: una danza furibonda, un duello serrato, in cui ci si può difendere strenuamente opponendo con energia i propri, oppure assecondarne i movimenti aderendogli addosso, seguirne il ritmo ora calzante ora più quieto ma profondo. Le bocche che si uniscono, le dita s’incastrano, sfilandosi e infilandosi negli spazi liberi lasciati da quelle dell’altro.
<< Shura … >>. Una preghiera, un lamento, un gemito. Camus stesso non saprebbe dire che tono ha dato a quell’invocazione … forse quello di tutti e tre. Il dolore è inevitabile, ma sopportabile e si vergogna ad ammetterlo ma rende più intenso il piacere. E’ una sofferenza squisita, sublime, non tanto per il male fisico in sé quanto per i significati di cui è pregna. E’ un dono, un pegno, anche se ben piccola cosa in confronto a quella che non ha potuto impedire si abbattesse sul corpo di Shura.
Non può cancellarla.
Ma può compensarla. Allaccia le gambe al suo bacino e rotola, passandogli sopra. Prende un respiro, un istante in cui gli fa scorrere le mani sul torso forte, scolpito come roccia.
E si abbassa, con lentezza studiata. Inizia a cavalcarlo con spinte misurate, non per sé, per lui, per dargli quanto più piacere possibile, condurlo per gradi al culmine, permettergli di assaporarlo per intero. Sente i suoi occhi ardergli sulla gola, sul volto, socchiudersi tra un ansito e l’altro. Le dita gli artigliano le cosce, risalgono nel mezzo di esse, lo gratificano di nuove carezze, di tocchi che lo riempiono di altri brividi, non di freddo, ma di sollievo.
La lama ha trapassato il ghiaccio. E oltre l’immediatezza dell’amplesso ha compenetrato lo strato al di sotto, entrando nel nucleo nascosto, fin lì soltanto scalfito, da un’amicizia di lunghissima data e un affetto filiale per un allievo rimasto solo al mondo. Oltre che dalla devozione alla loro Dea.
Si china sul suo orecchio per un brevissimo istante. Conoscono e parlano entrambi diverse lingue, oltre il greco antico e moderno; ma nulla, nessuna di esse, ha la sonora musicalità dell’occitano. La lingua dei Pirenei … metà francese, metà spagnolo, che affonda le sue radici nelle antiche canzoni di gesta, nelle romanze d’amore.
<< Que t’aimi >>, mormora. E forse per la prima volta da quando hanno iniziato a brillare in cielo … le Luci del Nord hanno udito quella soave melodia di suoni.
 
Que t’aimi. Solo una cosa può rendere l’occitano più dolce e musicale di quanto non sia già.
La voce di Camus. Incrinata dal respiro affannoso dell’amplesso.
Ha cercato di tirarsi indietro. Di rifiutarsi. Ma non ce l’ha fatta. Il bisogno, non il mero desiderio, di toccare di nuovo Camus, di sentirlo sotto le dita, di riaverlo sulla sua bocca l’hanno piegato tanto da cedergli.
E ancora, non aveva voluto vedere. Non aveva voluto credere … fidarsi del suo cuore, sempre troppo maltrattato, messo in disparte dal suo stesso proprietario, che Camus provava qualcosa per lui.
Ora è obbligato a farlo. L’ha udito dalle sue stesse labbra, che aderiscono alla perfezione alle proprie, allentandone la morsa, succhiandole, affondandovi i denti, penetrandole con la lingua.  
Si perde, Shura. Abbandona le ultime remore, senza aver bisogno dell’aiuto dell’alcol per lasciarsi andare. La velocità aumenta, assieme alla pressione … il sangue ribolle nelle vene, ogni suo senso coagula le percezioni in un unico punto, nel fondo della pancia, dove avverte più intensa la presenza del compagno.
Ed è il collasso. L’energia raccoltasi dentro di lui si espande raggiungendo il punto più alto, l’ebbrezza della vetta. E il guardare giù è una vertigine dolcissima, una perdita di equilibrio inesorabile. Una caduta che non si può evitare, né provare a frenare in qualche modo.
Il fiotto che sgorga dal suo membro sancisce l’impatto. Un oblio al contempo pieno di luce e di vuoto. Una luce talmente abbagliante da divenire oscurità: o forse sono i suoi occhi a reagire così, per difendersi da quel riflesso, abbacinante come immagina sia il riverbero del sole sulla superfice del ghiaccio perenne.
Dai pezzi del suo essere rimette insieme, lentamente, la realtà, si riappropria del contatto con essa, con la pelle di Camus, la seta rosso ramata dei suoi capelli.
Una mano si avventura in cerca di un’altra. Hanno smesso di fuggire entrambi, da sé stessi, dai loro errori, dal loro passato. Dalla paura dei propri sentimenti.
Fuori è ancora buio, solo le luci del Nord si oppongono ad esso, per ora. Il sole è lontano, non emergerà dalla linea dell’orizzonte a lungo … ma non è più così importante.
Camus gli si accoccola sul petto, il braccio lungo il fianco. Shura gli cinge le spalle, lo tiene stretto e si attira una delle sue cosce vellutate sulle proprie.
Ora può riposarsi.
<< Ti fermerai, Shura? >>, gli domanda Camus, sfregandogli la sommità del capo sotto la gola.
<< Non so. Forse … solo finché dura la notte >>.
Camus scoppia a ridere. Ed è un suono bellissimo, inusuale e perciò ancora più prezioso.
Come le sue lacrime. I suoi sorrisi. E i suoi gesti, una volta spogliati dall’armatura che tiene addosso quando toglie la Sacra Cloth dell’Acquario. La sua tenerezza. Le sue carezze, le mani che adesso si posano sul petto di Capricorn, esattamente come la notte nella Decima Casa; così calde, tanto lievi e dolci, nonostante le temperature assassine che sono in grado di creare, e gestire.
Dei, quanto si somigliano, loro due. Così preoccupati di non mostrare le loro emozioni da tenersi tutto chiuso dentro a doppia mandata. Saturno, custode esigente fino ad essere spietato, grava su entrambe le loro costellazioni caricandole del suo peso intrinseco. Anche se l’Acquario può contare sul potente influsso di Urano, pianeta aereo, che denota la capacità di conquistare la libertà, e d’infrangere le regole, sotto sotto in Camus regna la ferrea disciplina che segna anche il Capricorno. Nulla da stupirsi, se hanno così tanta paura dei sentimenti. 
Ma anche la roccia e il ghiaccio possono infrangersi, sotto un’eccessiva pressione. O un fuoco inesorabile.
Quella che avrebbe dovuto essere la loro ultima missione per Athena, per riscattare se stessi, per rinnovare la loro fedeltà alla Dea era stata un duro banco di prova. I loro spiriti, così gravati di tante emozioni contrastanti, non erano riusciti a sostenere il peso di un tale fardello senza mostrare almeno una crepa.
Quello sguardo. Era durato meno di un secondo, tanto che in un’altra circostanza Shura avrebbe potuto credere di esserselo immaginato, lui, che per sua natura si abbandonava difficilmente alla fantasticheria o meglio, la soffocava appena prendeva piede nella sua mente. Sognare, per Shura di Capricorn, equivale a soffrire. E allora via, a sradicare tutto senza pietà. Per andare avanti, a vivere un’esistenza di lotte, di sangue, di solitudine.
Ma gli occhi di Camus in quell’attimo erano stati una finestra su un altro mondo. Un mondo di pace, di ardore, di piccole gioie condivise. Un mondo in cui il suo letto, le sue stanze, il suo cuore non dovevano essere per forza  così freddi. 
Che ironia. Dal freddo  proveniva la cura per scacciarlo. Come a dire: combattere il fuoco con il fuoco.
Ma Camus non era poi così gelido come voleva far credere. Forse non si era neppure accorto di essere arrossito, ma la sua pelle diafana era stata rivelatrice. Le piccole efelidi si erano fatte più scure, e le pagliuzze argentate degli occhi avevano emanato luce come stelle.
Preso a far proprio quel breve, fragile miracolo non si era reso conto di essersi mostrato anche lui. E aveva distolto in fretta gli occhi, temendo di essere stato beccato a studiare l’armonioso profilo del Custode dell’Acquario, le sue lunghe ciglia scure, le sue labbra pallide. Le sue deliziose lentiggini, il rosso invincibile dei capelli sciolti sulle spalle nere della Surplice.
Ma quell’immagine era ormai incisa nelle sue iridi, e appena lo aveva avuto tra le braccia, senza alcuna condanna pendente sulle loro teste, nessuna clessidra pronta a svuotarsi con la sabbia delle loro vite … appena quegli occhi si erano spalancati increduli nei suoi, alla distanza di un respiro quel fuoco era divampato con violenza, e non aveva potuto sottrarsi a quel richiamo. Aveva colto quella bocca fremente, sentendo le vene spezzarsi una per una e riversare il magma della passione nelle sue membra. Lo aveva tirato su come un fuscello portandoselo in casa. Un piano del Fato non avrebbe potuto essere meglio congegnato: di tante scalinate risalite, giustappunto su quella di casa sua, all’ultimo gradino, aveva dovuto avere quel cedimento, Aquarius. Il cammino fino alla sua stanza era breve e sicuro, poteva percorrerlo ad occhi chiusi.
Non si era chiesto se Camus lo voleva. Se era d’accordo. Se era pronto … ad accoglierlo, ad aprirgli le gambe e concedergli l’onore di trovare ricetto nel calore del suo corpo.
Perché sapeva. Quel cuore maltrattato non gli serbava rancore, e gli aveva suggerito tutte le risposte prima ancora che lui porgesse le domande. Nemmeno davanti a quel principio di ribellione, subito placato con un nuovo bacio, e un lieve morso sotto il mento, aveva dubitato.
Avesse tenuto un contegno distaccato, o avesse continuato a ribellarsi, be’, forse si sarebbe fermato. Senza aria con cui alimentarsi, persino il fuoco più violento alla fine si sarebbe spento annientandosi in cenere. Ma Camus gli si era concesso, e non solo lasciandosi fare quelle cose così intime. Anche lui l’aveva toccato, aveva ricambiato le sue attenzioni con uguale intensità, inarcandosi, artigliandogli le spalle, i fianchi per tenerli vicino ai suoi, aggrappandosi a lui mentre gli allacciava le braccia al collo, tremando ansimante quando Shura gli aveva effuso nelle viscere il suo orgasmo.
La luce del giorno però aveva ricondotto con sé i timori. Soprattutto, il posto freddo al suo fianco …  aveva contribuito a rafforzarli. E non gli aveva permesso di vedere che non era stata che un alibi, l’ubriacatura che aveva dato ad entrambi l’opportunità di … darsi l’un l’altro. Capire che anche per Camus fosse stata una mossa furba, abbandonarsi all’abbraccio dell’alcol quando in realtà ciò che bramavano davvero era quello dell’altro.
Brutta cosa, la scarsa fiducia in se stessi.
Ma seppure possa fare ben poco per porvi rimedio così, su due piedi, non può tuttavia dubitare di Camus. Il modo in cui avevano fatto l’amore adesso, completamente presenti, partecipi, non poteva più accettare di vedere sollevate illazioni di sorta. Nessuna scusa. Nessun … fraintendimento. << Un altro mese, come minimo >>, dice, puntandogli addosso i suoi occhi. E quel mondo è di nuovo lì. Un oceano sconfinato, in cui tuffarsi senza esitazioni.
Shura lo avvicina a sé, gli bacia la tempia. L’aurora boreale, pur con tutta la sua magia, e i suoi misteri … non è bella quanto la dolcezza che riesce ad infondergli Cam solo standogli vicino.
E adesso, a differenza di quel meraviglioso gioco di luci, può toccarlo. Stringerlo e tenerlo accanto. << E allora sia. Finché dura la notte >>.
 
 
   
 
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