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Autore: Nadja_Villain    15/11/2017    0 recensioni
Prima che il mondo intero iniziasse ad appassire, Trish era solo un'adolescente turbolenta, cresciuta nei bassifondi della stessa città dei Dixon, tra piccola criminalità e svaghi al limite del legale.
Nel presente ha perso anche sé stessa. Quando Negan l'ha trovata era ridotta ad uno straccio, sia a livello fisico che mentale.
Era convinta che sarebbe riuscita a smettere di soffrire se avesse chiuso le porte alle emozioni. Era convinta che fosse rimasta sola, che tutti coloro che conosceva fossero morti, ma non è così...
Riuscirà il ritrovo con Daryl ad aiutarla a ritrovare qualcosa per cui lottare?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

5.1 # Pioggia arida

Passato.
Ginger Beard.

Abby si piegò sul tavolo occupato da due omaccioni che stappavano birre dalle undici e mezza della mattina. Quello barbuto, con un bottone della camicia esploso sul ventre rotondo, le diede una pacca talmente forte sul sedere che lei sobbalzò per lo spavento. Si abbassò immediatamente la minigonna e sfoderò la sua vocetta ultrasonica, soffocando l'istinto di tirare una pizza in faccia al panzone che se la rideva a crepapelle. Sbattè il vassoio sul bancone e cercò soddisfazione nel vetro delle bottiglie scaraventate nel fondo del secchio della spazzatura. Sollevò solo per un brevissimo istante lo sguardo per condividere con me un pensiero ardente di disgusto.

-Un giorno di questi mi vedi sclerare. - Mugugnò lanciando alle spalle uno dei suoi lunghi e vaporosi codini biondi.

Si affiancò a me e cominciò a sciacquare una pinta e a sfregarla con un panno come se fosse stata incrostata di chissà quale porcheria. Si tirò giù la gonna di nuovo, in risposta ad un fastidio impudico. Per tutta l'estate in cui avevo lavorato al Ginger Beard - la birreria in fondo alla ventiquattresima, frequentata pressoché da ragazzi senza pretese, ubriaconi e motociclisti solitari appena usciti dal Jake's già gonfi di alcool - l'avevo vista arrivare e andarsene con certi jeans che le fasciavano le cosce come salsiccia. Odiava apertamente la divisa che ci avevano assegnato e decisamente non era tipa da minigonne, sia per il fatto che non le sapesse portare, sia per il culo enorme con cui sculettava ampiamente.

-Un giorno gli rivolto il tavolo in faccia a quel vecchio balordo. - Sputò con rabbia.

-Ti appoggio. Però dovresti evitare di grattare così tanto, altrimenti con quegli artigli sfregerai tutti i bicchieri.

-Ti piacciono?!

Non mi ascoltò nemmeno. Posò la pinta sul lavello, fece un saltello per voltarsi verso di me mostrandomi le unghie acuminate, perfettamente ricostruite, laccate di un fucsia della stessa tonalità che doveva avere avuto la gomma sbiadita che masticava da venti minuti, la quale era causa dell'alito da fragola chimica che mi investì con prepotenza. Mi imposi di non respirare e stirai un sorriso che doveva assomigliare tremendamente ad una colica.

-Molto belle.

-Mi sono costate più di quello che potevo permettermi, ma chissene frega. Ogni tanto va fatta una pazzia per sé stesse! La tizia che me le ha fatte è bravissima, un giorno ti ci porto se vuoi, così magari la smetti di usare colori così noiosi e deprimenti.

Guardai d'istinto le mie unghie rovinate. Lo smalto scuro era scheggiato, un po' usurato, un po' rosicchiato. Forzando l'immaginazione, lo sostituii con il primo colore sgargiante che mi venne in mente. Di colpo mi vidi con un paio di codini alti e ricoperta di paillettes. Sentii lo stomaco raggrinzirsi. Constatai che fosse meglio non esprimermi. Riempii la pinta pulita sotto la spina della cola. Ci aggiunsi del ghiaccio e fuggii dalle grinfie zuccherose della mia collega.

Posai l'ordinazione sul tavolo di un trio di tifosi del football che aspettavano la trasmissione della partita. Due ragazzi che conoscevo solo di vista e Michael Flint, il volto che aveva capitanato la squadra della scuola per tre anni consecutivi finchè non si era spaccato un paio di costole e il setto nasale cascando da un albero, nel tentativo di infiltrarsi nella camera della figlia del sindaco, nonché regina indiscussa delle cheerleader. All'ultimo anno non se lo filava più nessuno ed ora, considerato lo stato dei capelli senza forma, dell'abbigliamento sciatto e dell'apparecchio intrecciato tra i denti della sua amica nerd, doveva essere stato costretto ad abbassare i propri standard principeschi. Era un bravo ragazzo in fondo, nonostante lo sguardo che hanno tutti quelli di buona famiglia verso "gli spostati" come me, quelli che si vestono in un certo modo e si isolano da tutti "per attirare l'attenzione, per provocare". Mi rivolse un sorriso di circostanza, che voleva dire tutto e non voleva dire niente e che durò anche fin troppo. Non erano molti quelli che mi avevano portato le condoglianze, un po' perché i miei amici si potevano contare sulle dita di una mano chiusa - Jimmy e Kenny si erano volatilizzati completamente. Avevo anche provato a ricontattarli, ma mi avevano sempre bidonata con delle deboli scuse - e un po' perché ad un certo punto avevo smesso di rispondere cortesemente ai falsi perbenisti che mai avevano pensato di avvicinarsi fino ad allora. Non che ne facessi un dramma. Non avevo bisogno di nessuno, io. Stavo bene solo con me stessa.

Annotai sul taccuino una nuova ordinazione. Questa volta per un quartetto di anziani arzilli che non dovevano essere della città o non dovevano uscire spesso, perché evidentemente non avevano idea della gente che girava per quel locale: due birre bionde, una rossa alla spina e un cappuccio per la signora. Portai via il piatto di un ragazzo che mi parve più fatto che ubriaco. Pagò e si rialzò tenendosi alla sedia. Mi preoccupò mentre usciva, insicuro sui suoi passi. Lo seguii con gli occhi, mentre nascondeva i riccioli sotto il cappuccio e proseguiva verso la periferia della città. Quello è andato, pensai. Ed erano solo le quattro di pomeriggio. Tirai un sospiro e mi feci coraggio perché entro poco avrei staccato.

Infilai il piatto sporco di resti di pizza nella lavastoviglie, mi lavai le mani e preparai le birre e il cappuccio. Mi chiesi dove fosse finita Abby. Mi affacciai verso i tavoli all'esterno e la vidi in piedi sui gradini, mentre arricciava una ciocca di capelli tra le unghie, sbattendo le sue ciglia finte e alitando in faccia ad una figura che non mi era mancata per niente negli ultimi otto mesi.

Di colpo sentii le mani bagnate e fredde. La birra aveva strabordato, la schiuma era andata a finire ovunque, superando il livello della grata. Ripulii tutto, cercando di non far cadere tutti i santi dal cielo. Asciugai l'esterno e il manico delle pinte, le riempii attentamente. Sperai che i vecchi non fossero troppo attenti da accorgersi del disastro al quale avevo provato ad ovviare furbescamente. Preparai il cappuccio e stappai le due bottiglie. Posai tutto equilibratamente sul vassoio e filai dritta al tavolo 12, evitando di guardare verso la porta d'uscita. Arrivata al tavolo, mi ricordai che una delle birre rosse era stata ordinata da qualcun altro. Dopo un momento di panico, una ragazza ben piazzata mi agitò la mano dall'altra parte del locale.

-Meno male, mi hai salvata. - Scherzai per allontanare una tensione che mi ero montata tutta da sola. Mi sorrise contenta, mentre affondava le mani in un piatto di patatine fritte.

Sfrecciai verso il bancone, occhi a terra. La porta del retro si aprì mentre passavo lo straccio sul bancone, un'operazione del tutto inutile dato che lo avevo già pulito dieci minuti prima: si trattava di un pretesto per poter spiare ancora un po' la mia collega che si lasciava convincere dall'uomo che per un istante solo, aveva rischiato di precipitare in fondo alla mia personale classifica di uomini spregevoli che lottavano selvaggiamente per prendere il posto di mio padre. Era la prima volta dopo quello che era successo, che lo vedevo in giro. Da quella notte, ero uscita di casa solo per finire l'ultimo anno di scuola. Non ero più andata a nessuna festa e avevo interrotto ogni tipologia di contatto con quella timida rete sociale che portavo avanti forzatamente.

Mio padre, nel frattempo, era sparito dalla circolazione. Il giudice non era stato convinto dalla storia che fosse stato lui a spingere suo nipote dal palazzo. Perché, diciamocelo, è scomodo accusare un volto pulito, con amicizie importanti e un avvocato con una certa fama. Soprattutto se la controparte consta di una figlia sregolata, una madre mentalmente instabile e un pivello appena laureato assegnato dai servizi sociali. Perciò, le tracce di droga nel sangue e la bustina ritrovata nella felpa erano bastate per confermare la pista più innocua: Greg aveva perso l'equilibrio, perché l'effetto degli stupefacenti avevano alterato i suoi sensi. Quindi mio cugino non solo era morto, ma era anche entrato nella lista dei defunti tossici della città.

La famiglia Dahanam si aggiudica un'altra splendida medaglia per la reputazione!

Mia madre, miracolosamente, aveva creduto alla mia versione. Avrebbe anche mosso una denuncia per abusi e iniziato una pratica per il divorzio, se solo l'allontanamento del portafoglio di mio padre non ci avesse spinte al lastrico. Non avevamo soldi e a causa del modesto stipendio da cassiera di mia madre e il mio da cameriera-barista, più straordinari non pagati, la graziosa villa con giardino che ci aveva promesso mio padre, andò nelle mani di una famiglia appena arrivata dalla città vicina. Avevamo traslocato da tre mesi in periferia, in un triste condominio, il cui proprietario affittava le camere come albergo a ore per coppie e incontri clandestini. A me non interessava dove vivessimo, ma per mia madre, che era abituata ad una vita di un certo livello, era stato uno dei colpi più duri da incassare.

Quando tornavo dai turni serali, la trovavo spesso addormentata sul divano davanti alla televisione accesa, la sigaretta spenta tra le dita e la cenere caduta sul pavimento, una bottiglia di vino scadente e stantio sul tavolino soffocato da documenti e bollette non pagate. Era chiaro che non potessimo permetterci un avvocato con le palle. Il più economico ci aveva risposto che aveva chiuso l'ufficio dopo aver perso la causa della sua vita, contemporaneamente sua moglie lo aveva abbandonato per un'altra e aveva deciso di suicidarsi.

Mia madre era stata tentata varie volte di richiamare il bastardo a cui dovevo il mio cognome e chiedergli un piccolo anticipo. Ero riuscita a persuaderla ogni volta, ma mi turbava lasciarla da sola: non potevo assisterla nei suoi deliri quando ero a lavoro. Non potevo permettere che un momento di debolezza buttasse all'aria tutto ciò che stavamo cercando di ricostruire da sole. Purtroppo mia madre aveva meno fiducia in noi, che io in lei.

Mio padre, per la verità, non l'aveva scampata del tutto liscia. Sapevo che si era trasferito anche lui, all'estero, per mascherare il suo impegno nel frequentare un corso obbligatorio sul dominio dell'aggressività impulsiva ed era stato separato dalla sua pregiata pistola. Nient'altro eravamo state degne di sapere, ma una cosa era certa: doveva cavarsela ancora di gran lunga meglio di noi. Doveva spassarsela alla grande in qualche posto esotico. Non avevamo mai scoperto dove se ne andasse davvero quando "tornava a lavoro" e spariva per settimane. L'unica cosa buona che aveva fatto in tutti gli anni della mia adolescenza era sparire. E quella volta, dal funerale, era diventato un fantasma.

Il ricordo di quel giorno mi lampava ancora nella mente. La confusione del rifiuto, il vuoto dei giorni seguenti, la valanga di colpe che non riuscivo a non attribuirmi erano delle catene che mi trascinavo accettandone l'esistenza. Alla fine tutto ricadeva su di me, sulla mia grossolana attenzione ai dettagli e alla mia scarsa riservatezza. Avevo permesso che Greg venisse risucchiato nella voragine dei nei miei problemi. La mia scarcerazione era pesata sulla vita a cui tenevo di più. Mi ero persino arrabbiata con lui quella sera per il mio stupido ego.

Non sarebbe dovuta andare così. Non dovevo esserci io dietro a quel bancone.

Ogni tanto si rianimava nei miei sogni, quel giorno, quando riuscivo temporaneamente ad ingannare la mia coscienza iperattiva. Mi rivedevo ancora distesa su mio letto rifatto, nella mia camera occasionalmente ordinata, col mio vestito da cerimonia e le scarpe ai piedi. Guardavo fuori dalla finestra coloro che dovevano essere i miei parenti, entrare ed uscire dalla casa di mia zia, nascosta dietro l'abete gigante nel giardino ben curato, ornato dalle aiuole colorate di fiori e inondato dalla luce di un sole giocondo. Mi sembrava stonata tutta quella vivacità primaverile per un funerale, quasi come se per me la gente dovesse morire solo in autunno o in inverno. È che ci abituano sin da piccoli, a vedere la pioggia come l'espressione di uno stato mentale. Nei film, quando muore qualcuno, il cielo piange la perdita assieme ai familiari. È un bagno di dolore che l'acqua conforta, fa sentire tutti collegati ad un sentimento comune. Ci si abbraccia e si piange insieme.

La notte in cui Greg era caduto da quel palazzo c'era solo una leggera foschia. La luna piena illuminava il buio come un potente lampione, dando l'impressione di avere perennemente una torcia sopra la testa. Il giorno dopo, il sole si schiantava contro il mondo in un cielo tanto azzurro da sembrare un'offesa, fregandosene del nostro dolore. E lì, sotto quei raggi abbaglianti, qualcuno si asciugava le lacrime, qualcun altro abbracciava la zia che se ne stava tutta stretta stretta tra le spalle, senza muoversi dal giaciglio di casa sua, come un elemento imperturbabile del suo florido giardino.

Ogni tanto, nel mio sogno, vedevo un'ombra specchiarsi nel vetro della finestra. A volte ci trovavo un riflesso familiare, ma non mi ero mai girata per scoprire chi fosse. Mi ero convinta che fosse Greg, che fosse venuto a salutarmi per l'ultima volta, che fosse lì per vegliare su di me.

Quel sogno tuttavia, non era l'unica cosa insolita che mi era capitata. Di fronte alla gradinata della chiesa in cui si era svolta la cerimonia, mentre stavano adagiando la bara nel carro funebre, aldilà della piccola piazza, avevo scorto il volto Merle. Lo avevo visto e lui mi aveva guardato senza dire una parola. Non mi fece neanche un cenno. Si guardò i piedi, schiacciando la cicca di sigaretta a terra e voltò le spalle.

Non nego che quell'immagine avesse preso uno spazio spropositato nei miei pensieri. Non riuscivo a capire il motivo per cui si fosse presentato, perché uno come lui non ci va ai funerali della gente senza un secondo fine. E se gli avesse fulminato il cervello l'idea di onorare la morte di un ragazzo che aveva conosciuto, perché appena mi aveva visto se n'era andato, come se non fosse nei suoi piani farsi vedere? La parte migliore di lui doveva rimanere seppellita sotto uno spesso strato di spinosa e barbara scontrosità... Oppure la mia mente devastata dal male, desiderosa di aggrapparsi ad un qualsiasi miraggio di bontà, aveva costruito un enorme castello in aria. Supposi che si sentisse in colpa, perché la roba che aveva ufficialmente ucciso mio cugino era sua. Allora, per non beccarsi un'ennesima denuncia, aveva provato la via del perdono. Secondo lui avrei potuto compiacermi nel saperlo dispiaciuto e in questo modo non avrei fatto parola con nessuno su quello che sapevo.

Era viscido anche in un gesto banale, in ogni minuscolo dettaglio del suo essere.

Un battito di mani mi strappò dall'ondata trascinante dei miei rimugini per sbattermi in faccia il presente.

-Ti sei incantata? - mi fece notare Todd, il titolare, uscendo dalla porta del retro. Pareva più nervoso del solito. - Che fa Abby? Abby! - battè di nuovo le mani per enfatizzare il richiamo. - Ci sono tavoli da pulire, clienti da servire! Le chiacchiere a fine servizio, per piacere!

Abby si mosse dalla sua postazione, non prima di aver cacciato appassionatamente la sua insidiosa lingua rosea nella bocca di Merle, il quale si aggrappò al suo portabagagli con ingordigia. Mi guardò con aria di sfida, il maiale, mentre sembrava volersela mangiare. Dovetti trattenermi dal vomitare. Quando considerò di aver spolverato per bene la cavità orale della sua nuova fiamma, Abby mi strappò il panno dalle mani, il solvente e sparì di nuovo fuori, scappando come una tredicenne con una cotta. Ero indecisa su chi dei due mi facesse più schifo.

Merle mi fissava con troppa insistenza. Cominciai a temere che si fosse messo in testa di attaccare bottone. E infatti avevo intuito bene.

-Guarda un po' chi si rivede... Non sapevo che anche tu lavorassi qui. - Mi fece, appeso alla porta d'ingresso, portandosi la bottiglia di birra alla bocca. Improvvisamente mi sentii completamente denudata di ogni difesa. Bloccata. Inadatta. Lo vidi di nuovo, nascosto sotto l'ombra del portico, in lontananza, solitario, con la sigaretta in bocca ed un'espressione indecifrabile, ma per nulla vuota. C'era qualcosa nei suoi occhi... Qualcosa che sfuggiva completamente al mio controllo e mi faceva dannare.

-Sì, ho preso il posto di Greg... Sai... Lavorava lui qui... - spiegai mite. I bicchieri sul piano di lavoro erano fastidiosamente riposti in modo illogico e ciò aggiungeva ulteriore agitazione a quella che reprimevo.

-Il cuginetto ti favorisce anche da sotto terra, vedo.

C'era una pinta di birra da due litri in mostra all'angolo del bancone. Ragionai se fosse il caso di sprecarla per lavargli quella faccia tosta che si ritrovava.
Decisi di intraprendere la via della pazienza. Allineai i bicchieri in ordine decrescente, senza aggiungere una parola, fingendo di non aver sentito.

Quando finalmente qualcuno lo chiamò da fuori, mi resi conto che mi tremavano le mani per il nervosismo. Lo guardai mentre si avvinghiava alla vita di Abby, scendendo con la mano sotto la gonna. Lei si era spostata con uno scatto, fingendosi contrariata, ma ridendo come un'oca giuliva. La coerenza non era il suo forte.

-Scusi, cameriera? - sentii vagamente chiamare da un tavolo all'interno.

Merle la salutò per l'ultima volta, con quella sua boccaccia infame. Scese i gradini. Sperai che una macchina lo investisse proprio in quel momento, ma attraversò la strada senza problemi e raggiunse il fratello che lo aspettava sul marciapiede opposto.

-Allora? Che sta succedendo oggi? Ci muoviamo? - Mi rimproverò Todd agitando le mani per attirare la mia attenzione.

-Emh... sì, sì. Vado subito! - Scattai. Mi asciugai le mani e mi resi disponibile al mio ultimo cliente. Per qualche assurdo motivo, mi sentivo ancora più a disagio di prima.

 Per qualche assurdo motivo, mi sentivo ancora più a disagio di prima

   
 
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