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Autore: Sospiri_amore    17/11/2017    0 recensioni
TERZO LIBRO DI UNA TRILOGIA
Elena se ne è andata via da New Heaven appena finite le scuole superiori, da ragazza ha lasciato gli USA per l'Europa. Tutte le persone a cui ha voluto bene l'hanno tradita, umiliata e usata.
Dopo quattordici anni, ormai adulta, Elena incontrerà di nuovo le persone che più ha amato e odiato nella sua vita, si confronterà con loro rivivendo ricordi dolorosi.
Torneranno James, Jo, Nik, Adrian, Lucas, Kate, Stephanie, Rebecca più altri personaggi che complicheranno e ingarbuglieranno la vita di Elena.
Come mai Elena è tornata in America?
Chi è il padre di suo figlio?
Elena riuscirà a staccarsi dal passato?
Chi si sposerà?
Riusciranno i vecchi amici a trovare l'armonia di un tempo?
Elena riuscirà ad amare ancora?
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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OGGI:
Vagare nella confusione





Non ho fatto nulla.

Nulla di quello che mi ha chiesto Nik.

Nulla di quello che avrei potuto fare.

Non ho gli strumenti per riuscire da questo caos e non ho la minima intenzione di imbarcarmi in una guerra che non potrei vincere: Andrew è più forte e più potente di qualunque persona conosca, la sua furbizia arriva a livelli che la mia ingenua semplicità non riesce nemmeno ad immaginare. Non riesco proprio a concepire il marcio che vive in lui.

 

Riempio lo scatolone con tutti i documenti che ho nel mio piccolo ufficio in centro. Un furgone mi aspetta per strada pronto a caricare tutti i fogli, poster e scatolame vario che ho accumulato in questi mesi. 

 

Un anno di bugie.

Un lavoro falso.

 

Possibile che non mi sia accorta di nulla?

Perché non ho colto i segnali?

 

Un lavoro fantastico pagato bene.

Il trasferimento a Boston vicino a mio padre e ai miei affetti.

Un ufficio con affitto basso in centro città.

 

Sono una povera sciocca.

 

I depliant con le traduzioni del mio ultimo lavoro giacciono ancora incartati vicino all'ingresso. La Palabra Traduction ha sempre fatto così. Lo facciamo per cortesia nei tuoi riguardi, mi diceva la mia capa a Madrid, solo adesso capisco che erano solo fandonie. Altra cenere che mi gettava negli occhi per non farmi vedere l'ovvio, per non farmi capire di essere manovrata da Andrew.

 

Il portatile è già nella sua custodia, gli schedari svuotati, le cartacce chiuse in un sacco della spazzatura. Voglio lasciare questo posto il prima possibile. Il traslocatore mi aiuterà a portare tutta questa roba a casa, per un po' allestirò lì il mio ufficio, fino a che avrò trovato un nuovo appartamento. Sarà dura stare senza lavoro, senza un'entrata che mi permetta di essere autonoma economicamente. Sono disposta a fare qualsiasi lavoro pur non di ricevere denaro da Andrew. Non voglio che mi paghi mai più.

 

La porta bussa.

Si apre.

 

«Arrivo subito. Entri pure e prenda gli scatoloni all'ingresso», dico ad alta voce mentre controllo per l'ultima volta i cassetti della scrivania in cerca di qualcosa di dimenticato.

«Elena, che succede?», una voce in Italiano fin troppo famigliare mi raggiunge.

 

È Mauro, l'inserviente del ristorante Petit.

Il ristorante di Andrew.

 

«Devo andare. Il mio tempo qui è finito. Mi dispiace», gli dico asciutta.

«Il direttore del ristorante è molto dispiaciuto che tu te ne vada, mi ha mandato per chiederti se non hai cambiato idea», mi chiede con i suoi soliti modi gentili.

«No. Non ho cambiato idea. Vi ringrazio di tutto, ma...».

 

Mauro mi interrompe.

 

«Hai l'aria così abbattuta. Sei sicura di stare bene. Il tuo viso è scavato. È come se un velo grigio ti coprisse», mi dice prendendomi per mano e bloccando la mia ossessiva ricerca di oggetti inesistenti dimenticati negli schedari.

 

Un groppo mi si ferma in gola.

Come faccio a spiegargli tutto?

 

«Ho molti pensieri. Ho un amico nei guai e il lavoro non va come dovrebbe», provo a sintetizzare.

«Sai cosa si dice dei guai? Se li condividi con gli amici pesano di meno. Non dovresti tenerti tutto dentro, non ti fa bene». Mauro mi accarezza con premura come un nonno farebbe alla propria nipote.

«Lo so, ma a volte non è il caso di sbandierare in giro ciò che più ci affligge. Non trovi?». Metto in spalla la borsa con il portatile facendo tintinnare le chiavi tra le dita.

Mauro sorride dolcemente.

 

Il traslocatore arriva.

Gli indico le cose da portare nel furgone e, senza dire parole, l'uomo inizia a sgombrare il locale.

 

Abbraccio Mauro, resto qualche secondo ferma in cerca di calore e tranquillità.

 

«Mi raccomando saluta Luca e digli di finire l'università. Lavori tanto per pagare i suoi studi, almeno questo te lo deve», gli dico provando a scherzare.

Mauro è commosso. Gli occhi lucidi tra le pieghe delle rughe sembrano ambre luccicanti: «Sarà un ottimo... anzi il migliore esperto in computer e informatico di Boston. Se non fosse così lo prenderò a calci nel sedere», mi risponde ridacchiando.

 

Il buon vecchio tuttofare che si prodiga per pagare la retta universitaria al nipote.

L'uomo instancabile e gentile, una delle migliori persone che io abbia mai conosciuto.

 

Mi mancherà.

 

«Addio, Mauro», dico in italiano senza avere il coraggio di guardarlo in faccia.

«Ciao», mi risponde con voce commossa.

 

Chiudo la porta alle spalle.

Inserisco le chiave nella toppa e me ne vado.

Esco per l'ultima volta dal piccolo ufficio che è stato un rifugio per l'ultimo anno della mia vita. Anche se non ho un legame affettivo molto forte con quel luogo mi sento derubata, come sé quella parte della mia vita fosse esistita per concessione di Andrew.

La mia vita è una messa in scena.

 

«Signora Voli dovrebbe firmare questa ricevuta. Nel giro di un'ora sarà tutto a posto». Il traslocatore ci ha messo poco a caricare il furgone, del resto erano poche cose. Porterà tutto al mio appartamento, il portiere del palazzo lo aiuterà a sistemare.

«Perfetto. Grazie per l'aiuto».

L'uomo mette in moto il veicolo non preoccupandosi di lasciarmi lì, sola, a fissare il vuoto. Un vuoto che corrode le pareti della mia anima.

 

Elena, reagisci.

Non puoi stare ferma sul marciapiede.

Muovi un passo, poi un'altro.

Kate ti aspetta.

 

Kate.

È da giorni che non vedo Kate, non sono neanche andata a restituirle le sue riviste da sposa. Con la scusa di occuparmi di Sebastian e con la bugia di Nik ammalato e chiuso in casa sono riuscita ad evitarla, non tanto perché non la voglia vedere, ma più che altro perché lei è in grado di leggermi come nessun altro. Non voglio che capisca che sono turbata, non voglio che si preoccupi di nulla.

 

Prendo la metropolitana.

Mi sento vuota.

L'assillo che Andrew spii ogni mia mossa mi ha messo una paranoia tremenda.

 

E se quella vecchietta con il cane mi stesse seguendo?

E se quei ragazzi con lo skateboard fossero spie di Andrew?

E se il venditore ambulante non fosse chi sembra?

 

Tutti mi paiono architettare, confabulare e osservare ogni mia mossa.

Mi gira la testa.

Le immagini iniziano a vorticare.

Attaccata al palo della metropolitana cerco di reggermi, ma non riesco. Il vagone traballa veloce sulle rotaie. Crollo su un sedile vuoto cercando di mantenere un minimo di dignità vista la situazione imbarazzante.

Lo stomaco brontola con cattiveria.

Non so da quanto non mangio.

Non ho fame.

Credo di non avere fame.

Il cibo è come fosse spazzatura, come se ingoiassi cenere, niente mi soddisfa.

Lo stomaco brontola di nuovo.

Cerco bella borsetta qualcosa da mangiare, ma l'unica cosa che trovo è una caramella di frutta mezza schiacciata e appiccicosa.

Non potrei mangiarla neanche se volessi.

La testa gira.

Ingoio la saliva che ho in bocca, mi pare di sentirla risuonare dentro il mio stomaco vuoto.

 

Elena, tra poche fermate sei arrivata.

Sii forte.

 

Appena il vagone si ferma mi precipito sulla banchina sotto lo sguardo stupito dei passeggeri. Cerco un negozietto, un chiosco, qualsiasi cosa venda del cibo.

 

Eccolo.

 

Un piccolo negozio che vende dolciumi dall'aria stantia proietta la sua insegna sui pavimenti in plastica delle gallerie della metropolitana.

Il cibo esposto non mi ispira per niente, la vetrina non è molto invitante.

 

Lo stomaco brontola più aggressivo che mai.

 

Prendo una specie di biscotto gigante ripieno di marmellata di fragole, l'unica cosa dall'aria sana lì dentro.

 

Un morso.

Trattengo i conati.

Un altro morso.

Ingoio a fatica il boccone.

Un morso ancora.

Lo stomaco pare acquietarsi.

 

La testa ha smesso di girare.

Pericolo scampato.

 

Elena, fallo per Kate.

Non mollare.

 

Esco dal sottosuolo masticando il dolce in cerca di aria fresca. Il biscotto non è proprio il massimo, ma almeno mi ha dato gli zuccheri necessari per tirare avanti.

Mi ripeto, come fosse un mantra: Alice Drobawy, Millenium Street 32.

Lo dico così tante volte che non saprei.

Ho bisogno di tenere occupato il cervello se non voglio impazzire.

 

«Ciao». Kate mi urla dall'altro lato della strada proprio di fronte il negozio di Alice.

 

Agito la mano prima di attraversare di corsa la strada.

 

«Non vedevo l'ora arrivasse questo giorno. Alice è dentro che lavora. Ci siamo conosciute prima, mentre ti aspettavo. Voleva mostrarmi cosa aveva in mente, ma ho preferito aspettare te per non farle ripetere tutto due volte ». Kate è talmente entusiasta che non sta più nella pelle.

«Guarda che potevi entrare, del resto il vestito lo devi scegliere e indossare tu», le dico cercando di imitare il suo entusiasmo.

 

Kate mi trascina dentro il negozio.

Tutto è rimasto uguale all'ultima volta che ci sono stata: un'esplosione di colori e tessuti.

 

«Bentornate», ci dice Alice sempre bellissima e con un look originale e curato. «Ho conosciuto Kate e mi sono fatto un'idea su cosa le potrebbe piacere».

Senza aspettare una nostra risposta la ragazza inizia a togliere capi da tutti gli stendini mettendoli in mostra davanti a noi.

 

Bluse.

Corpetti.

Giacché.

Top.

Camice.

Body.

Gonne.

Sottogonne.

Pantaloni.

 

Una valanga di indumenti, tutti favolosi, riempiono ogni spazio possibile ed inimmaginabile. Sembra un paradiso, l'albero della cuccagna per ogni appassionata di moda.

Kate si mette a discutere con Alice sulla possibilità di unire due parti, chiede consiglio su cosa le possa stare bene, si fa aiutare a decidere cosa comprare.

Alice prende misure, fa girare Kate, la sveste, la riveste come fosse una bambola. La guarda da ogni angolazione possibile rimuginando sulle sue scelte. Infila spilli, mette pinze. Solleva. Gira. Appiattisce. Alza.

 

Quelle due sembrano in sintonia.

La schiettezza di Alice si amalgama perfettamente con la praticità di Kate.

 

Ed io.

Io osservo.

Annuisco.

Faccio finta di essere interessata. Non per cattiveria e menefreghismo, ma perché proprio non riesco a concentrarmi su quello che dicono.

 

«Questo è il tuo modello. Allora Kate, niente gonna lunga visto che non sei molto alta. Ti farò un bel vestito che metta in mostra le tue spalle, ma non sia troppo scollato. Darei un po' di volume qui...», Alice tocca l'orlo della gonna che sta indossando Kate, «... visto che in fin dei conti si tratta di un abito da sposa. Stringo un po' sui fianchi e, se per te va bene, metterei dei cristalli azzurri che richiamano il colore dei tuoi occhi».

«Ovviamente realizzato con quella bellissima seta con quei riflessi unici che mi hai mostrato prima», finisce di dire Kate saltellando sul posto in preda a una incontenibile euforia.

 

Kate ed Alice battono tra di loro la mano dandosi il cinque.

Io sorrido felice per aver aiutato la mia amica anche se oggi non ho fatto un gran che.

 

Alice inizia a mettere a posto tutti i capi sparsi per il negozio andando, di tanto in tanto, a prendere appunti su un foglio dove annota spunti e idee per l'abito di Kate.

«Tra un paio di settimane puoi venire a provare l'abito. Si tratta del capo base su cui costruirò tutto il resto. In questo modo potremo fare modifiche o aggiungere parti».

Kate batte le mani: «Perfetto, non vedo l'ora», le dice con voce squillante mentre usciamo dalla boutique.

 

Aria fresca.

 

«Alice è favolosa. Non vedo l'ora di presentarla a Jane, adorerà le sue creazioni. Devo dire che sono stupita dal talento di questa ragazza...». Kate parla a raffica. «... Stento a credere che così giovane riesca a fare cose del genere e...». Kate mi trascina senza smettere di parlare. «... tutto nel suo negozio è favolo. Non sapevo cosa scegliere. Hai presente quel top lavanda, quello con le perline applicate? Ecco, di quello mi piaceva la forma, ma...».

 

Kate ammutolisce all'improvviso.

 

«Che succede?», le chiedo stupita dalla sua reazione.

Non mi risponde, mi da una spallata per indicare di fronte a noi.

 

Jo.

Jonathan è in mezzo alla strada con le mani in tasca.

Ci fissa.

 

«C-ciao», dico io confusa.

«Che ci fai qui?», gli chiede Kate con inaspettata durezza.

«Rebecca ha saputo del tuo appuntamento con Alice. Alice cuce ogni abito di Rebecca, sono molto amiche», dice asciutto Jo.

«Non hai risposto alla mia domanda», dice Kate senza mostrare la minima emozione.

«Voglio sapere, perché l'hai fatto?», chiede Jonathan.

«Fatto cosa?». Kate è ironica, lo percepisco dalle sfumature nella sua voce.

«Perché improvvisamente non sono più adatto ad essere il tuo testimone di nozze», urla Jo infuriato, «Sono o non sono il tuo migliore amico?».

«No. Non lo sei», urla Kate.

 

Jonathan indietreggia qualche passo.

Guarda la mia amica come si trovasse un alieno davanti a se.

 

«È colpa sua, vero? Elena ha rovinato anche te?». Jo si avvicina a passi lunghi verso Kate.

«No, caro mio. Ti sei rovinato da solo. Mi fai schifo sei una delle cose più disgustose che io conosca», dice Kate a Jo che impallidisce a sentire quelle parole.

 

Io, in disparte, osservo tutto e taccio.

Vedere Kate così infuriata mi fa male.

Mi fa male perché è colpa mia.

Il racconto di quello successomi quattordici anni fa ha rovinato la loro amicizia. In queste settimane non avevo mai pensato al dolore provato da Kate nel sapere che Jonathan fosse un bastardo manipolatore. Lo considerava il suo migliore amico e adesso, per colpa mia, Kate sta rovinando il proprio matrimonio.

 

Il disgustoso biscotto mangiato poco prima contorce il mio stomaco.

Ingoio la saliva che ho in bocca.

Una forte acidità risale per l'esofago.

Spero di non vomitare.

 

... continua nel prossimo capitolo...

 
   
 
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