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Autore: Anya_tara    19/11/2017    0 recensioni
Perché? Perché per una volta tanto voglio andare così, senza dover per forza trovare un senso a tutte le cose. Voglia di una storia leggera, senza troppi "ma" e troppi "se". Che sa di Francia e profuma d'antan. Con la voce del "passerotto" in sottofondo. E di rinnovare un legame su cui ho scritto troppo poco, ancora.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Scorpion Milo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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No, niente di niente!
No, non rimpiango niente!
Né il bene né tutto il male che m'hai fatto, e mi sta bene così.
 
 
Camus si desta. Intorno a sé, i luccichii familiari dello specchio dalla cornice d’ottone, un vecchio ricordo di nonna Amélie; del bordo della pendola, che da molto tempo non batte più l’ora, eredità di nonno Gustave; e infine quello più caro, la Cloth Box della Sacra Armatura di Aquarius.
E’ tornato. Come un sogno ha vissuto la morte … si può dire così? Attraversare, forse, sarebbe meglio. Come un fiume: il Lete dell’oblio, il Piriflegetonte del fuoco eterno, l’Acheronte dell’afflizione, il Cocito dei lamenti. E lui, lo Stige dell’odio, dai poteri arcani. Li ha guadati ed è tornato indietro, senza voltarsi.
 
No, niente di niente!
No, non rimpiango niente!
È stato tutto saldato, spazzato via, dimenticato.
Me ne fotto del passato.
 
Ha compiuto molti errori, Camus. Ma sempre per la verità e la giustizia. A differenza degli altri se ha sbagliato l’ha fatto in buona fede. Per l’amore di padre che porta a Hyoga. Perché Athena potesse trionfare, salvare l’umanità.
Alla fine ha ottenuto ciò cui mirava. Il suo bambino, quello di cui si era ritrovato padre senza saperlo, senza … aspettarselo, era divenuto uomo. La sua Dea era salva, e con il mondo, pur ancora così imperfetto, così distratto, così sbagliato e così bello. 
 
Coi miei ricordi,
innesco la fiamma,
i miei dispiaceri ed i miei piaceri,
non ho più bisogno di essi.
 
Ricorda, Camus.  Le mani tenere che si posano sui capelli di fiamma. Che carezzano la pelle tempestata di efelidi, sulla schiena, sul petto, dov’è più sensibile un uomo. Anaïs era bella. Kora esperta. Jekaterina … lei era pura. Come il suo nome. Magica come il suo nome. Sapeva farlo vibrare, conosceva ogni suo punto debole, riusciva a costringerlo ad invocarlo, il suo nome … un suono russo per un nome greco. Un nome ambivalente, misterioso e oscuro come le impenetrabili foreste della taiga siberiana. E lei attingeva la sua antica sapienza alla natura, all’istinto, alla sua fame di lupacchiotta ingenua e sensuale.
Ricorda il dolore. Strappato alla sua casa rammenta il rimorso provato per sentire nostalgia di quel tempio troppo addobbato, troppo ricco, con troppi stucchi dorati e troppe tele d’autore. Le tende di pesante broccato alle finestre che impedivano alla luce di entrare. La boiserie di mogano impenetrabile come una muraglia di acciaio e cemento. L’aria greve dei costosi sigari che il padre, non molto contento di quel figlio troppo gracile, troppo delicato fumava seduto alla sua possente scrivania intagliata, scuotendolo a intervalli regolari nel posacenere di cristallo.
Ricorda quelle stesse mani tenere di donna su di lui, che lo pettinavano e lo vestivano con quei buffi completi simili a quelli di un marinaio in miniatura. Ma di mari Camus non ne avrebbe mai solcati; e l’unico conosciuto sarebbe stato quello placido, gelido e mortale in cui avrebbe affondato il relitto che custodiva la madre di Hyoga.
Natasha. Altre mani di donna, di madre. Mani che riposavano da lungo tempo nel ghiaccio eterno. Mani che un figlio anelava ancora di poter stringere.
E le mani di Saori. Su di lui. Mani spirituali, intangibili. Mani divine rosse e dorate, dal calore indescrivibile. Mani che l’hanno richiamato alla vita, tra i mortali. L’hanno tratto al buio e riportato nella calda luce del sole di Grecia.
 
Rimossi gli amori
e tutti i loro tremolii,
dimenticati per sempre.
Riparto da zero.
 
E le sue, di mani? Mani in grado di creare e gestire lo Zero Assoluto. La temperatura a cui ogni palpito anche infinitesimale di vita cessa di muoversi. Mani sottili, pallide, mani da ragazza.
Mani fredde, cuore caldo.
 Mani dalle lunghe unghie a mandorla, che un giorno lontano aveva dipinto di rosso. Scarlatto, vermiglio, cremisi … melagrana e carminio. Erano passate da ogni sfumatura, in ricordo
di un atto imperdonabile, un istante in cui aveva perduto ogni freno e quelle stesse mani da fanciulla si erano abbattute con violenza inimmaginabile su un altro corpo bambino dilaniandolo allo sterno.
Dalla parte del cuore.
Mani che si erano imbrattate … no, si erano consacrate in quel sangue, lavate, benedette. Mani che poi avevano conosciuto il piacere, nascosto, segreto, dei primi atti da ragazzo. Mani che avevano arrecato sollievo, col loro freddo, alla parte più calda di sé. Mani che avevano stretto, bramato, tremato per placare un desiderio inconfessabile. Mani che avrebbero volentieri assestato un sano ceffone, ma si erano richiuse frementi per non stuzzicare la belva. Per non scostare la pietra sotto cui riposava, in attesa della vittima, l’aculeo velenifero dell’aracnide dorato.
Mani che si erano unite, la morte nell’anima, per scagliare il colpo dei traditori. Si erano aperte come fragili conchiglie mostrando una perla ch’era veleno. Consegnando il suo destino al fendente di Atropo.
 
No, niente di niente!
Neanche del bene che m'hai fatto.
 
Altre mani. Che gli si sono serrate alla gola. Strette. Obbligando il sangue e il cuore a pulsare in fiamme contro di esse, scorrere nelle loro linee come una corrente. In un modo quasi erotico, anche se non era il momento.
Mani che l’hanno percosso. Un pugno allo stomaco e una presa per il collo. Hanno rischiato di finire in pezzi di ghiaccio cristallino per squagliarsi sotto il caldo dell’Arena. Si sono intrecciate alle sue, furibonde, affamate, di quella fame che ti prende dopo settimane nel deserto. Le hanno obbligate a cedere nella morsa crudele delle proprie, degne rappresentanti del suo cognome.
Lefkánkatha. La dura corteccia, il rosso sfrontato delle bacche. Le spine affilate che si conficcano nelle sue nocche facendogli risucchiare l’aria tra i denti.
Mani da amante, calde e forti, dalle dita d’acciaio, la pelle vellutata.
Mani che hanno afferrato e stracciato con violenza il velo brumoso della menzogna. Che non hanno atteso, hanno preteso. Mani che si sono mosse sul suo corpo con desiderio, artigliando fin quasi a macchiarsi di rosso anch’esse.
Mani che gli hanno mostrato l’amore. Che si sono avvolte intorno ai suoi capelli tirandoli per sentirlo gemere e gridare. Mani caparbie, dalle unghie affilate come chele, l’hanno riempito di segni quasi marchiandolo, intrappolandolo, costringendolo alla resa. Mani che se ne sono fregate di ciò che aveva già soddisfatto quel corpo: mani che hanno allentato, allargato, sfiorato e solleticato.
Mani che l’hanno accarezzato. Hanno percorso infinite volte la distanza dalla nuca all’osso sacro, in un infinito pellegrinaggio. Hanno scostato le ciocche dal volto sudato inseguendo l’arco della mandibola. Mani che se ne sono lavate di tutto, fiorendo di quei piccoli boccioli bianchi, delicati. Come fiocchi di neve sui rami contorti.
<< La prossima volta che ci provi, ti ammazzo >>, hanno sussurrato le sue labbra, incollate all’orecchio che ancora pulsava del rombo del sangue in tempesta. Rosse anch’esse, come frutti, le mele che portavano il suo nome. Il frutto proibito simbolo del peccato originale.
Camus si volta. Incontra un nuovo scintillio, quello dei capelli di Milo, delle sue lunghe ciglia nere e folte aperte a ventaglio sugli zigomi scolpiti. Della sua pelle ambrata distesa come una pozza di miele su un mare di panna. Milo che sa essere dolce e crudele, fuoco e acqua, amante e tiranno.
Si drizza, si allunga a posargli un bacio sulla punta del naso perfetto. Quando hanno coniato l’aggettivo “greco” per rappresentare la perfezione lui non era ancora nato, ma di certo se lo fosse stato l’avrebbero fatto per lui.
<< Je t’aime, stronzo >>, sussurra in un filo di voce. Ora che non può sentirlo. Non glielo ripeterà da sveglio: no, non il poco edificante epiteto che gli ha affibbiato. Quello se lo merita e lo farà sempre o non sarebbe più lui.
S’alza, infila i calzoni e una camicia. Sulla pelle l’odore intenso del suo uomo. Apre la finestra, riempie il briki d’acqua e polvere posandolo sull’incerto fornelletto a spirito. Ancora luccichii, l’ottone lucidato del bricco, l’acciaio nuovo di zecca del fornello. Mentre attende che si formi la kaimaki, accende la piccola radio a batteria dall’antenna argentata nell’angolo del ripiano di legno.
E inizia a canticchiare, a mezza voce, le parole che conosce da sempre, così gli pare, legando i capelli, cinguettando da una parte all’altra, rimettendo a posto quello che nella furia della sera prima hanno rovesciato, come fossero su una nave che vacilla in pieno oceano e dovessero aggrapparsi a ciò che capita per rimanere saldi.
<< Des nuits d’amour à plus finir, un grand bonheur qui prend sa place, les ennuis, les chagrins s’effacent
Heureux, heureux à en mourir… Quand il me prend dans ses bras … Il me parle tout bas … Je vois la vie en rose … >>.
<< Ehi, kokkinolaímis, non è un po’ presto per la colazione? >>. A braccia conserte, torace scoperto, la cicatrice un rivolo appena più chiaro dell’abbronzatura, Milo si poggia contro l’arco. 
<< Ho fame >>, replica semplicemente, alzando le spalle sottili. 
<< E io ho sonno. Che facciamo? >>. 
<< Potresti tornartene a casa tua, ad esempio >>. 
Milo lo fissa incredulo. Storce le labbra e poi sorride. << Mi lasceresti andare via? >>.
<< Naturellement. Anzi, se non te ne vai da solo, ti ci mando a calci io >>.
<< Non parli sul serio >>.
<< Mettimi alla prova >>. 
Un lampo e Milo è su di lui. Lo cattura tra le sue braccia, e Camus si sente come il pettirosso imprigionato nel fitto dei rami spinosi.
Gli plana nell’incavo della gola, rapace. Camus sente venir meno tutte le sue resistenze, quelle giocose. Morsi e baci languidi con il sottofondo del gorgoglio nel briki.
<< Cos’è che stavi borbottando prima? Non è che mi stavi mandando al diavolo, no? >>.
Camus sorride. << Può darsi >>. Gli si volta finendogli addosso. E gli punta gli occhi nei suoi.
Á chacun son couleur, pensa filosoficamente. Édith in rosa, lui in azzurro mare.
<< Vorrà dire che ti prenderai il resto >>, sentenzia Milo sospirando tranquillo. << Dopo il caffè >>. Si siede, giocherellando con il rampicante dell’edera che tracima dal portafiori.
<< Lo sai che ti odio, vero? >>.
<< Certo. Per questo sono qui >>. Milo stira un sorriso meraviglioso, posa i gomiti sul ripiano di ciliegio lucidato.
Camus leva gli occhi al cielo. Spegne il fornellino e versa il caffè, porgendone poi una tazza a lui che non smette di fissarlo. << E non hai niente da dire? >>.
<< Anch’io >>.
Aquarius scuote piano la testa. Si avvicina, lasciando che Milo lo attiri a sé. Che gl’infili una ciocca dietro l’orecchio e prenda una mano tra le sue. << Che dici, ricominciamo? >>.
<< Cosa? >>.
<< Ti amo >>. Lambisce le labbra di Camus con dolcezza. E quando allontana la bocca, vi aggancia lo sguardo. << Vuoi ancora che me ne vada? >>.
<< Di corsa … >>. Un sorriso. Un altro bacio. Un caffè che si fredda senza essere stato toccato. C’è tanto altro … E un sospiro. Un nido morbido intessuto di braccia e capelli fiammanti. Un calcio non troppo gentile e una caviglia che finisce al sicuro sotto un ginocchio. Dita che scivolano lungo l’addome. E si ferma. Lenta, insinuante. E un sussurro vittorioso. Ero sveglio stamattina. Ti ho sentito.
<< Tanto lo sapevi già >>. Pausa. << Che sei uno stronzo >>.
E la lotta. Una guerra di risate e lenzuola. Di sudore e invocazioni. Di pelle che aderisce. E un istante di tregua, per rendere più dolce la resa all’uno, e permettere di assaporare meglio il trionfo, all’altro.
<< Canta pure quanto vuoi, kokkinolaímis >>. Un tocco sulla fronte, sulla sommità del capo. << Ma ormai l’hai detto >>.
<< Mi pareva di aver capito che ricominciassimo >>.
<< Quello che ti conviene … >>, ridacchia Milo.
<< Sì. Sempre >>. Prende fiato, stirando quasi con pigrizia una lunga gamba levigata di traverso al fianco. Un respiro più profondo. Il profumo dei rami bagnati di mandorlo, di pero, di pesco là fuori.
E ancora un luccichio. In fondo al buio, quando le palpebre si abbassano per forza di cose.
Il più bello e raro di tutti.
 
No, niente di niente!
Poiché oggi, la mia vita, le mie gioie
tutto riparte con te
 
*Angolino di Saga: non chiedetemi perché, vi prego. I pranzi di famiglia domenicali, un pomeriggio deprimente e le canzoni che ascolti per caso quattro volte in due giorni miscelati e shakerati fanno di questi scherzi. Non me ne volete.
- Entrambi i brani sono di Édith Piaf, sia quello che dà il titolo alla storia che quello canticchiato da Camus, “La vie en rose”.
- “Kokkinolaìmis” in greco è “pettirosso”, o quanto meno così sostiene Google Traduttore. Se erro, avvisate.
-“ Lefkánkatha” in greco sta per “biancospino”, sempre a detta di GT. Se erro, come sopra.
- il “briki” è il bricco appunto utilizzato per preparare il caffè alla greca o turca che dir si voglia; la “kaimaki” è la schiuma che si forma alla bollitura, attributo imprescindibile di un buon caffè greco.
- la nonna Amélie è ispirata al personaggio del film con Audrey Tautou; mi piace l’idea che nella vita di Cam ci sia qualcuno con uno spirito simile. Nonno Gustave invece deve il nome allo scrittore Flaubert, in un certo senso il contrappasso della prima.
Sto dimenticando qualcosa? Ah, già. Credo che questa storia sia stato lo spirito di Milo a suggerirmela, incacchiato a morte per quello che gli ho combinato in “Nemesis”. Il fatto che ultimamente Camus compaia in molte mie nuove idee … mah, quello me lo spiego meno. Misteri della fede in Athena … :D
 
   
 
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