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Autore: Sospiri_amore    20/11/2017    0 recensioni
TERZO LIBRO DI UNA TRILOGIA
Elena se ne è andata via da New Heaven appena finite le scuole superiori, da ragazza ha lasciato gli USA per l'Europa. Tutte le persone a cui ha voluto bene l'hanno tradita, umiliata e usata.
Dopo quattordici anni, ormai adulta, Elena incontrerà di nuovo le persone che più ha amato e odiato nella sua vita, si confronterà con loro rivivendo ricordi dolorosi.
Torneranno James, Jo, Nik, Adrian, Lucas, Kate, Stephanie, Rebecca più altri personaggi che complicheranno e ingarbuglieranno la vita di Elena.
Come mai Elena è tornata in America?
Chi è il padre di suo figlio?
Elena riuscirà a staccarsi dal passato?
Chi si sposerà?
Riusciranno i vecchi amici a trovare l'armonia di un tempo?
Elena riuscirà ad amare ancora?
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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OGGI:
Scotch marrone





Quando sono di fretta e cerco qualcosa non riesco mai a trovarla.

Succede sempre così.

Giro.

Guardo.

Non trovo ciò che voglio.

Anche adesso mi sta accadendo, mi manca poco per finire.

Quel maledettissimo scotch marrone si è come volatilizzato nel nulla.

 

Gli scatoloni con i vestiti sono quasi pronti, mancano gli asciugamani e qualche coperta, ma il più è fatto. Per fortuna le stoviglie erano già nell'appartamento quando siamo arrivati, di mio c'è solo qualche tazza e il bollitore, non devo impazzire ad impacchettare ogni singolo piatto e bicchiere presente in casa. Lo stesso vale per i mobili che mi circondano: appartamento già arredato. Una comodità per me che venivo da Madrid, un prezzo più che onesto. Peccato che dietro a tutte le mie scelte ci fosse Andrew. Già. Una vita troppo perfetta per essere vera.

 

Una vita che sta cadendo in frantumi.

 

Raccolgo i documenti lavorativi e scolastici, i passaporti, mio e di Sebastian, in una borsa di cuoio, insieme a tutte le fatture e bollette pagate. In bella vista sul tavolo c'è la domanda per togliere mio figlio dalla scuola materna. Dieci fogli che accuratamente compilati mi permetteranno di iscrivere Sebastian in una nuova scuola, in un nuovo paese.

 

Quale paese?

Quale nazione?

Non lo so.

 

Ho pensato all'argentina, Sebastian parla spagnolo, potrebbe inserirsi più facilmente lì, anche se credo che portarlo in Italia sia la scelta più comoda per me, un po' per la lingua, un po' perché posso muovermi nei piccoli paesi senza destare sospetto o la curiosità delle persone. Andrew avrebbe più problemi a trovarmi.

 

Chiudo l'ultimo scatolone con gli ultimi indumenti, ma non trovo lo scotch marrone.

Provo a guardare sotto il tavolino da caffè in salotto, dietro ai libri accatastati, tra i sacchetti della spazzatura.

Non lo trovo.

 

Conto fino a dieci.

Respiro profondamente.

 

Elena, non fissarti.

Salterà fuori quando meno te lo aspetti.

 

Devo fare altro.

Non devo fissarmi.

 

Decido di rivedere tutte le stanze per capire se ho dimenticato di prendere qualcosa di importante.

Il bagno è vuoto, qualche cosmetico di prima necessità e lo spazzolino da denti stazionano sopra una mensola di vetro. Tutto il resto l'ho già impacchettato. Il salotto pare un magazzino, ma a parte i libri non ho molte altre cose da portare via. La camera di Sebastian sembra così vuota senza tutti i suoi giocattoli e disegni attaccati alle pareti. Controllo per sicurezza nell'armadio, aprendo ogni cassetto per vedere se ho dimenticato qualcosa.

Niente, non c'è più niente.

Manca solo la mia camera. Il letto matrimoniale ha ancora le lenzuola e una coperta che toglierò domani mattina come ultima cosa prima che il camion dei traslochi arrivi. I bijoux sono tutti in una busta di raso che ho messo in una valigia di plastica nera. I vestiti sono piegati e inscatolati. Non mi resta nient'altro da prendere. Nulla.

 

Che strano.

Ho cambiato molte case, molte città e molti paesi, eppure questo ennesimo spostamento è quello che mi fa più male.

Lascio gli affetti ritrovati, le ansie mai risolte e i dubbi, molti dubbi.

Andrew mi ha usata per i suoi porci comodi, più per ripicca che per altro. 

Bottari e Salti sono suoi complici. 

Nik con la sua cocciutaggine, il suo affetto per me, mi ha confusa. 

Caroline e la sua ingenuità, illusa da Andrew per gioco, per sfregio. 

James e tutti gli altri che come sempre si sono rivelati le mie cartine tornasole dell'umore, capaci di farmi uscire dai gangheri e di innervosirmi. Sono passati quattordici anni e non riesco a perdonarli. No.

Mauro, il tuttofare gentile e disponibile.

Kate indaffarata con la mostra e il suo matrimonio. La mia dolce e cara a Kate. 

Papà, Tess e la mia piccola sorellina Maggie, un mondo d'amore. 

Quella scorbutica di Geltrude capace di scrollarmi di dosso tutto i dubbi mettendomene addosso cento nuovi.

 

Lascio questa vita.

La devo lasciare per sempre.

Devo lasciare Andrew dietro le mie spalle, devo allontanarmi da lui e fuggire via.

Solo così posso poter sperare che Sebastian abbia un futuro migliore, solo così posso sperare che la mia vita ritorni di nuovo mia.

 

Sono le dieci e trenta del mattino.

 

Prendo la borsa ed estraggo la lettera che Caroline ha scritto per Nik.

Una dichiarazione d'amore.

Un saluto.

Una confessione.

 

So benissimo che dovrei portarla a Nik, ma non ho il coraggio. Mi chiederebbe di cercarla, sarebbe straziato dal dolore ed io sarei di nuovo in gabbia. Non riuscirei a dirgli di no. Non sono mai riuscita a dirgli di no e lui ha fatto lo stesso con me.

Lo faceva anche quando frequentavo il Trinity.

Lo faceva perché è semplice credere ad una illusione e fingersi innamorato.

Vivere un affetto fa paura, Nik ha sempre avuto paura di affrontare i propri sentimenti.

Siamo così simili, lui ed io.

Illusi.

Sognatori.

A livello pratico, nella coppia, un vero disastro.

Lettori di romanzi d'amore che non sanno riconoscere i propri sentimenti.

Bambini in cerca di conferme, anche se quello che ci fa star bene è sotto il nostro naso e non riusciamo a vederlo.

 

Nik.

Nik è nei guai seri.

 

Mi gira la testa ogni volta che ci penso.

Sono tre giorni che non esco di casa se non per accompagnare Sebastian a scuola. Il resto del tempo l'ho passato a fare scatoloni e organizzare la nostra partenza. La mia fuga.

 

Spalanco la finestra della camera per inspirare la fredda aria di febbraio. Sento pungere le guance, è l'aria frizzante e secca.

 

Prendo la lettera di Caroline piegandola con cura e mettendola nella mia scatola di legno dove tengo le lettere che scrivo ogni anno a mia madre. Cosa le scriverò nella prossima? Che sono scappata per l'ennesima volta? Che Andrew mi ha manipolata?

 

Non lo so.

A questo punto della mia vita non so più nulla.

 

Cerco lo scotch marrone.

Non lo trovo.

Provo a guardare vicino agli ultimi scatoloni chiusi in camera, ma non c'è.

Apro le ante del mio armadio per vedere se accidentalmente l'ho dimenticato su qualche ripiano quando sento il campanello di ingresso suonare.

 

Non aspetto nessuno.

 

Il campanello squilla di nuovo.

 

Con cautela mi avvicino alla porta sbirciando dallo spioncino. È Kate. Riconosco la sua faccia anche se la sua immagine è deformata dalla lente.

«Elena. Elena. So che ci sei. Aprimi!», dice mentre batte sulla porta.

 

Merda, non so che fare.

Se Kate vedesse gli scatoloni capirebbe che qualcosa non va.

Non posso rischiare di rovinare tutto.

 

Infilo la catenina nel binario della porta, in questo modo posso evitare che Kate metta piede in casa. Con calma giro la chiave e apro la porta uno spiraglio, quel tanto che basta per infilare il volto.

«Ciao Kate, che c'è?», dico ostentando una nonchalance da attrice professionista.

«Sei sparita da giorni. Anzi sei sparita dal giorno in cui sei stata all'infermeria dell'ufficio legale. Che cavolo ti è preso? Ti stacchi da sola la flebo ed esci. Ma chi sei, Rambo?». Kate è furiosa, non ci vuole molto a capirlo, ha la faccia rossa.

«Scusa. Ho molte cose da fare e...».

Kate mi interrompe: «Che cosa ci sarà di così urgente, non lo so. La mostra deve essere allestita, i finanziatori vogliono incontrarti, hai saltato l'ultimo incontro. Che ti prende?».

«Te lo detto. Ho molto da fare e...».

Kate mi interrompe di nuovo: «Il tuo volto pare quello di uno zombie, hai le occhiaie e una cera orribile. Mangi? Vedi di non farmi preoccupare che non voglio altri stress», mi dice tenendo il broncio.

 

Stress, se sapesse lo stress sto passando io credo che le verrebbero i capelli bianchi.

 

«Hai ragione, devo solo riposare un po'. In queste notti faccio fatica a dormire. Adesso, se non ti dispiace, vado a sdraiarmi così recupero qualche ora di sonno», le dico sbadigliando forzatamente.

Kate mi guarda stranita spalancando gli occhi: «Cosa? No!». Con un gesto rapido infila il piede tra la porta e lo stipite impedendomi di chiuderla fuori. «Fammi entrare», mi dice imperativa.

«Kate, veramente ho bisogno di stare da sola e tranquilla. Cerca di capirmi, non ho voglia di parlare», le dico scocciata.

«Non mi muovo di qui», dice categorica incrociando le braccia al petto.

«Kate, smettila», le dico con un certo nervosismo.

«Cosa vorresti fare, schiacciarmi il piede?». Kate non arretra dalla sua posizione e neanche io.

«Vattene», le urlo con tutta la voce che possiedo.

«No», dice Kate seria. «Non me ne vado finché non mi dici cosa ti sta succedendo. Sto qui tutto il giorno, non mi muovo. Tanto prima o poi dovrai andare a prendere Seb, ed allora sarai costretta ad uscire».

 

Kate ha lo sguardo duro, fermo. Si vede lontano un miglio che non ha intenzione di mollare la sua posizione.

 

«Sei una vipera. Sei testarda. Sei cocciuta. Sei più fastidiosa di una zanzara», le dico sfinita.

«Sono solo tua amica e sono preoccupata. Tutto qui», mi risponde Kate.

«Non capiresti. È tutto così dannatamente complicato che non so da che parte iniziare. Ti giuro, è come un grande gomitolo fatto da decine di nastri che non riesco a districare», le dico con un filo di voce.

«Apri, fammi entrare. Non tenermi chiusa fuori. Insieme... insieme ne abbiamo passate di cotte e di crude. Vedrai che riuscirò ad aiutarti pure questa volta», mi dice accarezzandomi il volto.

 

Kate, la mia cara e pazza amica. Una delle poche persone su cui possa contare veramente. Ho necessità di parlare con qualcuno, ho bisogno di liberare il peso che sento dentro, ma ne lei e nemmeno io abbiamo gli strumenti per affrontare Andrew e i suoi misfatti.

 

«Kate. Non è il caso, credimi».

«Apri. Questa. Porta», mi dice fissandomi negli occhi.

 

Ci penso un attimo.

Poi.

 

«Sposta il piede. Devo chiudere per poter togliere la catena di sicurezza», le dico mentre spingo delicatamente la sua scarpa dal pavimento.

«Non fare scherzi. Se mi chiudi fuori passo tutto il tempo a suonare il campanello e urlare», mi dice minacciosa mentre si allontana dall'ingresso.

 

Con un sorriso amaro socchiudo la porta.

Kate sa sempre come prendermi.

Sfilo il gancio della catena di sicurezza.

Cerco di fare mente locale su cosa mi è successo nell'ultimo periodo.

Apro la porta e...

 

...e...

 

... e una orda invade il mio appartamento.

Corpi.

Voci.

Gesti.

 

Una cascata di suoni e odori famigliari.

Tacchi che scattano sul pavimento.

Cravatte che svolazzano.

 

Con la bocca spalancata osservo inerme l'invasione.

Non ho parole.

 

Kate è davanti a tutti loro e mi guarda con sguardo severo.

Tutti mi guardano con sguardo severo.

 

James.

Rebecca.

Jo.

Stephanie.

Lucas.

Adrian.

 

In un attimo mi ritrovo proiettata al giorno della mostra di Kate, quando erano lì davanti a me dopo quattordici anni.

In un secondo le emozioni sopite si animano come mostri famelici.

Lo stress e la rabbia paiono nutrire La bestialità che sento crescere dentro me.

 

Kate mi ha tradita.

Kate ha tradito la mia fiducia.

 

«Andatevene immediatamente», urlo a sgarciagola.

«No. Nessuno se ne andrà finché non ci dici che sta succedendo a te e a Nik». James picchia con le nocche su una pila di scatole del trasloco facendo rotolare per terra lo scotch marrone che era appoggiato sopra.

«Andatevene», ringhio furiosa.

«No, Elena. Basta. Basta. Non puoi fuggire, non reggeresti questa volta. È ora di raccontare tutto, devi dire loro quello che hai detto a me. Per questo li ho portati», mi dice Kate con le lacrime agli occhi, «L'altro giorno ti ho vista svenire, crollare, stare male. Non so cosa ti stia accadendo, ma credo che la chiave di tutto sia quello che è successo quattordici anni fa».

 

Con il magone e il fiato corto urlo.

Urlo la mia disperazione.

Non ho più la forza di fuggire.

Non ho più la forza per fare nulla.

 

Basta.

Basta.

È ora di farla finita.

È ora di affrontare il male che mi è stato fatto.

Ora o mai più.

 

... continua nel prossimo capitolo...

   
 
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