Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: Uudenkuu    24/11/2017    4 recensioni
Un breve racconto di una fenice, di una morte e di una rinascita dalle ceneri.
“Devo proprio dirtelo, la tua musica mi ha cambiato la vita. Non esagero, dico sul serio. La mia vita era senza uno scopo, sai,” e Yoongi non capì il motivo di quel bisogno d’aprirsi così tanto perciò strizzò le labbra fini in una smorfia di disappunto, “Ma l’ho trovato. La tua musica me lo ha fatto trovare. Ci credi? Che ho capito di non poter fare l’avvocato? Devi credermi. Sono Park Jimin.”
“Min Yoongi.”
Un barlume di speranza invase le iridi languide del più piccolo.
“Ho trovato un senso, Min Yoongi!”
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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The show that never comes
Part 1
 

I piccoli piedi feriti a dall’eccessivo allenamento, zampettavano all’ingresso dell’Accademia di Danza più prestigiosa della città. E le gambe ad essi associati tremolavano come budino rancido, incattivito da tutta quella tensione che circolava nel corpo ben formato del ragazzo. Jimin era riuscito a mettere da parte un bel po’ di soldi grazie al lavoro part-time e, per dimostrare fedeltà all’amico Yoongi, si era iscritto al corso per principianti. Non aveva alcuna intenzione di mostrarsi saccente e passare all’intermedio, timido e umile com’era, ma aveva l’impressione di dover subire ore ed ore di nozioni già acquisite con acrobatiche e non molto eleganti cadute. Il pavimento di legno della sua vecchia mansarda era scalfito dal fruscio possente delle scarpette da ballo e tumefatto in corrispondenza delle botte delle cadute più rovinose. Eppure, nonostante vantasse di una discreta collezione di lividi, le gambe oscillavano pericolosamente davanti all’ingresso dell’Accademia, impedendogli di fare l’ultimo gradino per oltrepassare la soglia. Aveva paura, temeva di non poter essere all’altezza, di aver intrapreso la strada sbagliata. Avvertiva lo sguardo di suo padre, minaccioso raggio dai cieli, che lo aggrediva e lo accusava di aver disonorato il nome di famiglia. La voce del defunto tuonò nella sua mente, annebbiandogli la vista. Dovresti fare l’avvocato! Diceva la voce, O almeno un mestiere che sia adatto ad un uomo, un padre di famiglia! La danza lasciala alle donne! Gli uomini devono essere forti e utili alla società! Alla famiglia! La famiglia. Jimin non voleva metter su famiglia, non voleva inondarsi di bambini capricciosi, né addossarsi il peso di responsabilità che non aveva ricercato. Voleva solo ascoltare la musica di Yoongi ancora una volta e danzarci sopra, fondere la propria arte con la sua in un canto celestiale destinato a durare. Voleva perpetuare nei timpani di ogni essere vivente anche dopo essere scomparso, rimanere stretto al suo amico come etere, raggi cosmici in grado di imprimere ogni cosa. E l’immagine delle dita pallide e sottili del ragazzo dai capelli verde acqua fu in grado di scacciare via quella voce terrificante e di permettere al suo piede di compiere quell’ultimo, dannato passo. La mano sudata si protese verso la porta di vetro che, qualche istante prima d’esser toccata, venne risucchiata all’interno del muro per permettere al visitatore di entrare nell’edificio.

Dalla sala d’attesa della reception, Jimin era in grado di vedere le ragazze allenarsi attraverso l’enorme vetrata che seguiva il lato lungo dell’ambiente. Era l’unico accomodato su quelle sedie di plastica nere, disposte attorno ad un piccolo tavolo di cristallo, rettangolare e colmo di tabloid scandalistici. Il pavimento era d’un mattonato grigio, un po’ anonimo, con delle fantasie aranciate triangolari, disposte irregolarmente su ciascun pezzo; il resto delle pareti era d’un bianco sbiadito dal tempo e ossidato dal respiro dei ballerini. Il segretario, un ometto giovane dall’aria irritata, era ingabbiato in un cubicolo anch’esso di vetro; incastrato tra una scrivania di legno chiaro, una sedia in ecopelle girevole, un armadietto dello stesso colore del tavolo e la piccola porta d’accesso alla cella. Stava discutendo al telefono con qualcuno che non aveva pagato la retta, così Jimin credeva d’aver capito, e si dispiacque all’idea di dover intraprendere una conversazione con un uomo già stizzito. Era già abbastanza imbarazzante per un uomo doversi iscriversi ad una scuola di danza.

“Prego, avanti.” Squittì l’uomo, visibilmente infastidito, incastrando i propri piccoli occhi luccicanti nello sguardo terrorizzato del ragazzo.

“S-sì, ecco, io,” e si affrettò all’ingresso del cubicolo, con le guance piene tutte imbrattate di rosso, “Vorrei iscrivermi. A-ad un corso d-di danza.”

“Tu? Tu saresti un ballerino?”

 
E il segretario si ricredette, fece anche delle scuse ufficiali annesse ad un paio di inchini profondi, quando vide il ragazzo ballare. Non era ben visto dal suo gruppo, né dalle ragazze, né dai pochi ragazzi che c’erano, forse invidiosi della sua eleganza e bravura naturale. Non c’era nulla che, con un po’ di impegno, non riuscisse a fare. Gli insegnanti gli stavano dietro con piacere, forse con un pizzico d’affetto in più rispetto agli altri studenti, ammorbiditi da come la sua goffaggine ed insicurezza andassero via una volta partita la musica. Proprio come quando Yoongi suonava, Jimin dimenticava di essere Jimin e si fondeva con le note fino a scomparire. Perdeva il senso della propriocezione, di sé stesso e dei limiti corporei, diventava pura energia e zero materia in una danza che lo illuminava come una stella pulsante poco prima di esplodere. E chi lo guardava rimaneva strabiliato dalle sue abilità eteree, dalle sue mosse così sinuose, così sentite, così fuori dal comune. Come se un angelo scendesse sulla terra e prendesse il suo posto durante gli allenamenti e le esibizioni.


Anche Yoongi se la cavava alla grande, avvantaggiato dagli anni di allenamento in solitudine che aveva fatto, al quinto piano della sua scuola. Le lezioni, fortunatamente per lui, non comprendevano una gran necessità di contatto fisico, né di parlottii insensati, perciò non ebbe nulla da ridire. Quasi niente, perché con l’insegnante doveva pur averci a che fare. Quest’ultimo pareva aver preso in simpatia i modi di fare scorbutici del ragazzo che nascondevano, molto in profondità, uno strato di sensibilità ed empatia e talento musicale fuori dal comune. Gli stessi occhi aguzzi che erano in grado di incenerire qualsiasi persona nel raggio di dieci metri, erano anche in grado di captare il mondo da una prospettiva diversa, quasi sfasata di qualche grado. Come se fosse capace di osservare e plasmare i corpi energetici al di fuori delle persone e delle cose e li usasse come soggetti per fare la sua musica. L’apprendimento della tecnica e di un sistema più metodico ed organizzato per imparare, eseguire e comporre rendeva più precisa e pulita la sua scrittura, metteva ordine nella matassa disordinata che si impossessava dei suoi pensieri quando sentiva il bisogno di accarezzare il suo pianoforte. Yoongi era molto riconoscente al suo insegnante, perché non ne aveva trovati di molto pazienti fino ad ora, ma faticava a dirglielo. Qualcosa, in lui, gli impediva di avvicinarsi materialmente a questa persona per poter esprimere la gratitudine, perciò sperava che se ne accorgesse da solo. In qualche modo.
Yoongi spaventava tutti i suoi colleghi, perciò non era mai infastidito dai dispetti di nessuno. Al contrario, Jimin si era presentato come un’esca perfetta per gli aspiranti professionisti più grandi di lui, che tentavano di ricacciarlo al suo posto con scherzi di cattivo gusto. Gli insegnanti gli dicevano che erano terrorizzati dal suo talento e dalla possibilità che potesse sorpassarli in eventuali provini e selezioni, ma Jimin proprio non capiva. Era abituato a sentirsi stimolato da chiunque fosse più bravo di lui, ma mai aveva fatto qualcosa di sbagliato per assicurarsi dello spazio in più. Era troppo ingenuo per un mondo cattivo come quello, così Yoongi gli ripeteva. E Yoongi era anche quello che prendeva le sue difese in maniera più aggressiva e meno diplomatica quando lo infastidivano in sua presenza.


“Mi hanno preso le scarpe e la biancheria, questa volta.” Mugugnò Jimin al suo amico, che era stato segretamente fatto entrare nello spogliatoio maschile dopo l’ennesimo allenamento del primo. Aveva i piedi zuppi di sangue e di bende disciolte e di lividi, non avrebbe di certo potuto andarsene in giro con quelle scarpette. Yoongi aveva provato a dirgli che non c’era nessun problema ad uscire senza biancheria, che lui stesso lo facesse più spesso di quanto non volesse dimostrare, ma si era solo beccato un paio di schiaffetti innocenti da parte di un Jimin sommerso dalla vergogna. Perciò si trovavano lì, seduti l’uno accanto all’altro su una panchina di ferro, in mezzo a due vagonate di armadietti semi aperti.

“Se scopro chi è stato, è finito. Ma prima di tutto dobbiamo trovare la tua roba. Tu con quei piedi non provare nemmeno a camminare, chiaro? Vengo a prenderti io. Aspettami.”

“Grazie, grazie, grazie!” sibilò fra le lacrime.

Yoongi aveva setacciato l’intero spogliatoio, nella speranza di ritrovare le cose rubate al suo amico, e, proprio mentre stava per abbandonare la speranza, aveva visto un laccio venir giù dallo stretto muro separatore tra un bagno e l’altro.

“Molto, molto divertente.” Disse fra sé e sé, con la voce a fischiargli fra i denti.

Richiuse la tavoletta del wc e ci salì sopra, con la fatica di chi non si allena da un bel po’ di tempo, recuperando sia la biancheria che le scarpe. Chiunque avesse architettato quello scherzo, aveva sperato che l’equilibrio fosse abbastanza precario da far cadere la roba di Jimin in uno dei water aperti. Ma lasciar morire ed uccidere erano equivalenti per la mente del livido dalla rabbia Min Yoongi.

“I tuoi compagni sono davvero degli stronzi.” Commentò, affiancando nuovamente l’altro ragazzo che, avendo terminato le lacrime a disposizione, continuava a soffiare fra le mani come un gattino ferito, “Dai, alza quella testa. Sii uomo. Ho recuperato la tua roba.”

Gli occhietti di Jimin, lucidi come lagune splendenti sotto un’alba cerulea, si sollevarono sul corpo del più anziano. La propria espressione di estrema gratitudine lo mise a disagio, eppure non fece nulla per farlo smettere. Non lo schernì, non lo rimproverò, continuò semplicemente a reggere scarpe e mutande nella mano destra, allungata verso il volto arrossato del più giovane. Deve aver pianto tanto, pensò Yoongi, che sia stata una buona idea quella dell’accademia?

“Non provare a camminare, stasera rimani da me. Ti porto in spalla io.”

Così, mentre gli anfibi neri di Yoongi strusciavano fra il viale di foglie sconfitte dall’autunno, Jimin si stringeva al suo collo con le braccia e al suo fianco con i piedi nudi. Il venticello umido gli solleticava le dita, ma evitava di muoversi troppo per non dar fastidio all’altro. Gli alberi si susseguivano, sibilandosi segreti sconosciuti al resto del mondo, con il vento ad accompagnare i movimenti ritmici e rotondi. Oltre a quelle già per terra, delle foglie svolazzavano in giro, trascinate dalla brezza ogni giorno più rigida, in attesa di trovare un posto tranquillo su cui planare e riposare per l’eternità. Il sole era ormai già tramontato e il cielo, dipinto qua e là da sfumature violacee, si imbeveva di un blu più profondo. Yoongi era rimasto in silenzio per il timore di sentirsi dire che l’accademia fosse un peso troppo grande da sopportare. Sperava di poter rimandare la discussione, di poter far finta che non esistesse fino ad allora. Ma Jimin cominciò a parlare, stupito dall’espressione concentrata del compagno.

“Yoongi, che ti prende?”

L’interlocutore si schiarì la voce, “No, pensavo che, insomma, dopo oggi… Vorresti, non so, lasciare?”

“Lasciare l’accademia?”

Il tono di voce di Jimin era sorpreso e questo lo tranquillizzò.

“Sì, insomma. Non ti stanno facilitando le cose…”

“Yoongi, non è la prima volta che tentano di sabotarmi tutto quanto. Ma questo non è di certo abbastanza, niente sarà abbastanza. Perché il mio desiderio più grande è di diventare un professionista per te e per la tua musica e non permetterò a niente e a nessuno di fermarmi! Eri mica spaventato? Che volessi mollare tutto? Dopo averti convinto a diventare mio amico? Ma figurati! Nessuno può fermare Park Jimin! Sono una roccia, io!”

E Min Yoongi rise, rise come mai aveva fatto in vita sua. 




Note dell'autrice

Prima di tutto, devo avvisarvi che ho nella testa 'i bet it got my haters hella sick' a ripetizione da quando ho visto il remix di MIC DROP di Aoki. Mi sono sentita anche personalmente coinvolta, considerando il titolo di questa storia. Quindi boh, le note protrebbero essere un po' idiote perché i BTS mi hanno rubato l'esistenza un'altra volta.
Flash più corto, preparatorio a ciò che sta per avvenire. Primo punto: Min Yoongi che ride. Jimin è riuscito a fargli mostrare completamente i suoi sentimenti. Ha aperto la crisalide nel quale il primo si nascondeva e gli ha carezzato le ali prima di farlo volare. Il rapporto tra i due mi emoziona sempre molto. 
Mentre Yoongi però è duro e nessuno lo infastidisce, Jimin è un mochi che viene sempre preso di mira, nonostante non ci sia alcun motivo apparente eccetto la sua bravura. Almeno ha qualcuno disposto ad aiutarlo. Ma non vuole mollare, perché il suo obiettivo è completare Yoongi. E' qualcosa di molto più importante.
Io non ve lo vorrei dire, ma tenetevi stretti i momenti belli perché diciamocelo: sono finiti. Brace yourselves, amici miei. Parte l'angst potente.
   
 
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