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Autore: rainbowdasharp    24/11/2017    1 recensioni
"Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?"
| leotsu (e presenza di altre coppie, seppur accennate), soulmate!au |
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Leo Tsukinaga, Tsukasa Suou, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 8: Prigioni


“Gli incubi divennero sempre più frequenti, tanto che neanche il Paradiso sembrava essere più in grado di salvarmi. Allora, una notte, al mio risveglio imperlato di sudore freddo, trovai il mio salvatore ai piedi del letto, le vesti bianche che accarezzavano il suo corpo come se avessero paura di adagiarsi troppo a lungo sulle sue membra.
- Non devi temere – mi disse, accarezzandomi il volto. - Le tue paure sono innocue. Puoi combatterle con lo stesso coraggio con cui sei arrivato sin qui.
Di quale coraggio parlasse, io non lo sapevo. Ma, fino a quel momento, mi aveva accudito con così tanta tenerezza che non riuscii ad ammettere neanche a lui che quegli incubi di fuoco, fiamme e distruzione mi perseguitavano proprio perché, al contrario di quello che credeva, io ero un codardo.”

 

La prima cosa che Leo si premurò di fare fu educare Robin alla cultura popolare – il che significava che il loro primo “appuntamento” si risolse in una maratona divisa in due diverse sere di Star Wars, che per Leo equivaleva alla sua personale Bibbia cinematografica.

Ma più che i film, che Leo seguiva sempre con l'entusiasmo di un bambino, per quella volta fu ben altro ad attirare la sua attenzione: c'era il calore di Robin, al suo fianco, che era più che abbastanza per renderlo euforico. C'erano quei momenti in cui il più giovane era preso al puno giusto dalla trama del film e di cui lui approfittava con malcelata soddisfazione per lasciargli baci leggeri sul collo, così da farlo sussultare ogni volta. Il suo volto arrossato era di certo indice del suo imbarazzo, eppure Robin non protestava e si limitava a dargli un buffetto sul naso.

«Come faccio a seguire il film, se fai così? Sei peggio di un folletto dispettoso!»

Di fronte questa uscita, che causò a Leo un attacco di risa che durò per cinque minuti buoni, il rosso rinunciò al molestarlo almeno per gli ultimi due capitoli.

Robin seguì tutti e nove i film con interesse altalenante (chissà per colpa di chi), ogni tanto sussurrando domande perplesse ma infine apprezzando nell'insieme la saga, anche se ammise di preferire i grandi colossal basati sulle leggende e fatti storici, anche se spesso aveva borbottato, differivano così tanto dalle storie che conosceva da spegnere ogni suo entusiasmo.

Il loro terzo appuntamento, invece, fu di nuovo improntato alla loro ricerca dei Dissidenti anche se ormai non sembrava più essercene bisogno: avevano dovuto aspettare il week-end a causa delle lezioni universitarie di Robin così, il sabato seguente, alla mano l'indirizzo dell'hacker che Madara aveva fornito a Leo, si ritrovarono a vagare insieme per il centro della città, approfittandone un po' anche per godersi la prima vera e propria giornata primaverile.

Un'altra cosa del suo giovane... compagno che Leo aveva capito era che non era molto bravo a nascondere i suoi stati d'animo. Un po' come la sera in cui avevano conosciuto Rei Sakuma, Robin quel giorno sembrava nervoso, neanche fosse costretto ad avere a che fare con criminali della peggior specie.

«Hai paura di essere derubato in pieno centro, di sabato pomeriggio?» lo provocò, prima di dargli una pacca sulla schiena per convincerlo a procedere.

Il moro ovviamente sussultò, ma sembrò chiudersi ancora di più nel suo maglione bianco panna a collo alto. «Gli hacker non sono, come dire, illegali?» mormorò, guardingo, seguendolo comunque lungo la strada.

«Madara mi ha assicurato che è ok» lo rassicurò il più grande, prima di prendergli una mano e strattonarlo alla stregua di un bambino ansioso di raggiungere il negozio di giocattoli. «Il nobile Robin ha forse paura di uno stregone dei computer?» chiese, con un tono drammatico degno del teatro shakespeariano.

Fu abbastanza per strappare un sorriso al ragazzo, che scrollò la testa e fece più forza sulla presa delle loro mani. «Ma quale paura, è solo--»

«Leeeeo!» Una voce li interruppe e fu così inaspettata che entrambi lasciarono andare la mano dell'altro dalla sorpresa, per poi voltarsi verso la direzione della voce: c'era un ragazzo, alto (uno dei più alti che Leo conoscesse, in effetti...), i capelli castani raccolti in parte in due trecce che sparivano dietro la nuca e l'abbigliamento degno di un fan di film western che correva con entusiasmo verso di loro, agitando la mano come un ossesso pur di farsi notare.

Madara Mikejima – come poteva non essere altrimenti? Leo avrebbe dovuto immaginare che, dicendogli quando sarebbe andato a trovare questo famigerato hacker, si sarebbe palesato anche lui; il suo istinto di protezione nei suoi confronti (in parte motivato visto che, come Ruka non mancava di ricordargli spesso e volentieri, non era proprio un asso in contesti umani e sociali) in certe occasioni rasentava non solo l'imbarazzante ma anche l'invadente... come minimo, doveva essersi insospettito (o preoccupato) quando gli aveva assicurato di star bene e che sarebbe andato tranquillamente da solo.

«Ma dai, incredibilmente puntuale!» esclamò Madara una volta che li ebbe raggiunti, per poi scoppiare in una sonora risata; gli diede una pacca sulla schiena (forse un po' troppo forte) e poi... poi notò Robin, che li guardava con un sorriso di circostanza sulle labbra.

Tra le tante, tantissime credenze e leggende sul Predestino, c'erano anche quelle che parlavano di persone così particolari ed uniche da riuscire a vedere l'infinita rete di fili e collegamenti tra Predestinati e Leo, in tutto il suo scetticismo al riguardo (insomma, chi sarebbe rimasto sano di mente, in quel caso? Gli occhi pieni di quella tortura, condannato a sapere se qualcuno era davvero destinato ad una persona oppure no, già conoscendo l'esito della loro storia?), si era sempre ritrovato a pensare che uno di quegli individui così rari non potesse che essere Madara. Era sempre stato così, speciale, almeno da quando lo conosceva (ed era tanto, tanto tempo): capace di arrivare al momento e nel luogo giusto con un tempismo disumano, in grado di risolvere i conflitti più tediosi, la persona migliore da desiderare al proprio fianco nei momenti difficili.

In grado di regalarsi al prossimo con il sorriso sulle labbra.

E quando gli occhi dell'amico si posarono su Robin, Leo vide quello sguardo: se avesse dovuto metterlo a parole, inchiostro su carta, l'unica parafrasi in grado di rendere l'idea sarebbe stato un unico, solitario fulmine in mezzo ad una campagna deserta, nel cuore della notte. Aveva la durata di un battito di ciglia, ma lo aveva colto così tante volte che ormai ai suoi occhi era diventato familiare, più che riconoscibile – solo che Robin era l'ultima persona di cui volesse conoscere “l'altro capo del filo”.

Leo inspirò a fondo e si intimò di mantenere la calma: dopotutto, Robin aveva accettato lui, non il Predestino.

«Ehi, ehi! Da quando non mi presenti più i tuoi amici, Leo?» ridacchiò Madara, prima di gettare le braccia al collo del moro, stringerlo fin troppo energicamente e poi sollevarlo in aria. Leo vide con chiarezza Robin chiedere aiuto... o era pietà? «Io sono Madara, ma puoi chiamarmi Mama! Lo fanno tutti ormai!» continuò a parlare, imperterrito prima di far tornare la sua povera vittima coi piedi per terra.

«Oh, piacere» provò a riprendersi il giovane, schiarendosi appena la voce mentre si sistemava i vestiti stropicciati. «Il mio nome è Robin Kurosawa».

«Robin?» chiese, in un moto di entusiasmo il più alto. «Come uno dei tuoi personaggi, Leo! Ora ho capito perché sembravi tanto di buonumore al telefono!»

Ci fu un imbarazzante silenzio di almeno un minuto, o almeno così parse a lui. Certo, Leo non ebbe la possibilità di contare, era troppo intento ad imprecare mentalmente per mettersi a scandire con esattezza ogni secondo. Come Madara fosse riuscito a collegare il suo buon umore a Robin, sottintendendo così una qualche relazione tra loro... era un mistero.

«Di... buonumore?» chiese il più giovane, guardando Leo con un'espressione a metà tra il sorpreso e il compiaciuto.

Fu abbastanza perché il romanziere decidesse di troncare la conversazione il più velocemente possibile. «Piuttosto, che ci fai qui?»

«Avevi detto che eri da solo! Non pensavo di interrompere un--»

«Va bene, va bene! Andiamo» quasi ringhiò il rosso, iniziando a spingere Madara e la sua mole colossale lungo la strada – ovunque, ma il più lontano possibile da Robin. Cercò in ogni modo di sovrastare ogni protestadel più alto con un tono di voce maggiore del suo, mentre il suo—ragazzo li seguiva a ruota.

Non dovettero camminare poi a lungo: l'imponente pasticceria, dalle forme squadrate e moderne, piena di insegne luminose attirava così tanto l'attenzione che trovare il portone indicato fu facilissimo, considerando che era proprio accanto all'entrata. Madara li precedette, entrando per primo dalla porta anonima (anzi, a dirla tutta sembrava quasi... dimenticata, quasi avesse perso la sua battaglia con la vetrata adiacente) facendo loro strada nella piccola stanza che li attendeva.

Più che un negozietto, come Mama lo aveva definito, il posto sembrava uno sgabuzzino reso a malapena abitabile nonostante l'invasione di computer e tecnologia di ogni genere: era una stanza piuttosto piccola, con un paio di scrivanie, a destra e a sinistra, le postazioni rivolte verso il centro, completamente sommerse di parti di case smontate, hardware, schede video e non, viti, strumenti per ogni genere di riparazione; era un ambiente circolare in cui era difficile riconoscere il colore delle pareti, dati i poster, gli armadi, le librerie quasi tutte ammassate contro di esse, in alcuni casi anche a casaccio, data la particolare forma del fondo – il disordine però non disturbava affatto Leo: era, dopotutto, lui stesso la dimostrazione che una mente fresca e reattiva lavorava persino meglio nel caos e nello stress, così qualcosa gli suggerì che questo famoso hacker potesse essere un tipo interessante.

Forse non avrebbe trovato niente di rilevante sui Dissidenti e sul sito che lo aveva fatto incontrare con Robin, ma... forse avrebbe trovato un altro essere umano in grado di stimolare la sua ispirazione – anche se non aveva mai scritto niente di impronta fantascientifica o sci-fi; dopotutto, l'incontro con Rei e con quella folla di ragazzi che ballavano aveva acceso una gran voglia di scrivere in lui (e non solo, a giudicare da quello che era seguito in macchina...); quindi, una volta dentro, si mise subito a curiosare in giro alla ricerca del loro uomo.

«Yuuki?» chiamò Madara, senza neanche prendersi la briga di guardarsi intorno; Leo, intanto, continuava a curiosare tra i fogli, trovandosi di fronte a calligrafie disordinate e nervose e tutt'al più scoprendo lasciti di scatole di takeaway e lattine vuote. Stava proprio per sbirciare, infine, lo sfondo del desktop sul computer che pigramente stava ancora acceso nonostante nessuno lo stesse utilizzando quando, da sotto la scrivania, un tonfo non lo fece quasi sussultare.

«Ahi, ahi...» udirono lamentarsi, mentre una scompigliata chioma bionda faceva capolino tra i fogli, una mano presa a massaggiare la nuca, forse dolorante. Un ragazzo giovane, dai grandi occhi verdi in parte nascosti da occhiali di una spessa montatura blu, apparve sotto lo sguardo incuriosito dello scrittore e, quando si rese conto di essere osservato così da vicino, sussultò e quasi ruzzolò all'indietro.

Poco ma sicuro, era facilmente impressionabile.

«Scu—scusate!» si scusò in fretta, scattando in piedi come un soldato, quasi sull'attenti. Gettò un'occhiata nervosa a tutti loro, cercando di capire chi avesse davanti, fin quando probabilmente non riconobbe Madara: solo allora, le sue spalle tornarono morbide, la postura meno rigida. Il super hacker Makoto Yuuki si passò una mano tra i capelli, sollevato, prima di sedersi (in qualche modo) sulla sua poltrona. Fu allora che Leo, con un po' di disappunto, notò un segno simile ad una voglia sul suo collo, di una forma ancora sfumata ma che di certo ricordava un lucchetto: un segno del Predestino, piuttosto fresco per di più. «Scusate, non immaginavo che arrivaste in anticipo...»

«Veramente sono già le quattro passate, Yuuki!» esclamò Madara, con una sonora risata anche se, a giudicare dallo sguardo del ragazzo, c'era ben poco di divertente; doveva essere stato talmente tanto assorbito dal suo lavoro da non essersi accorto dell'orario.

Oppure, si era semplicemente addormentato sul pavimento. A Leo succedevano entrambe le cose.

«... Beh, sì, devo... aver perso di vista l'orologio» borbottò, cercando di giustificarsi. Goffamente, tentò di liberare almeno in parte la scrivania, sollevando sia pile di scartoffie che componenti dall'aria pesante, traballando sotto il loro peso; Leo si aspettò più volte di vederlo cadere, ma a quanto pareva era piuttosto abituato a sostenere oggetti pesanti, nonostante le apparenze graciline.

Una volta che la scrivania fu sgombra abbastanza da potersi parlare faccia a faccia senza oggetti a disturbare la visuale, Yuuki tornò con aria stanca alla sua postazione; estrasse poi la tastiera del suo pc fisso da sotto il tavolo e se la posizionò davanti.

Inutile a dirsi, i tre ospiti rimasero in piedi, non tanto per l'assenza delle sedie quanto più per l'assenza di spazio per potercele mettere.

«Mi... scuso per il disordine, ma negli ultimi mese c'è stato un po' di trambusto e il mio socio è quasi sempre in giro» sospirò il ragazzo, sistemandosi nervosamente gli occhiali sul naso. Più che disordine, pensò Leo, quello doveva somigliare più al caos primordiale – ma si tenne la considerazione per sé, perché per quanto per lui fosse simbolo di una mente brillante, non era ritenuto generalmente un complimento. «Piacere, io sono... beh, Makoto Yuuki, lo avrete... già... capito?» guardò confuso entrambi i volti nuovi, per lui, al fianco di Madara.

Leo esibì uno dei suoi migliori sorrisi, di quelli così affabili da confondere le persone, quasi spaventarle per la carica che a stento trattenevano. «Piacere, io sono Leo Tsukinaga eee...» in un impeto di entusiasmo, fece un balzo alle spalle di Robin per prenderlo per le spalle e sospingerlo in avanti, quasi costringendolo a porsi al centro dell'attenzione; lo scrittore aveva notato che, da quando erano entrati, il giovane non aveva proferito parola e (questo sì, che era strano) non si era neanche proposto di aiutare Yuuki a spostare gli ingombri dalla sua scrivania. Il moro, quasi dando ragione ai suoi sospetti, si irrigidì ed immediatamente abbassò lo sguardo, forse nel panico – un panico, però, di cui Leo non comprendeva la natura: era riuscito, anche se dopo un primo timore, a fronteggiare un individuo così opprimente come Rei Sakuma... Il loro signore dei computer, al confronto, aveva tutto l'aspetto di un giovane nerd appassionato di informatica, pressoché innocuo. «Lui è Robin Kurosawa! Saluta, Robin!»

Il biondo chinò appena il capo in segno di saluto, che Robin ricambiò impercettibilmente. Yuuki si sistemò ancora una volta gli occhiali, che evidentemente tendevano a scivolare più di frequente di quanto non avrebbero dovuto e poi sgranò appena gli occhi, in un'espressione sorpresa: sembrava aver appena ricollegato qualcosa.

«Ma tu sei-»

«Yuu-kun? Sono tornato!»

Chiunque Robin fosse, per l'hacker, Leo non lo seppe mai.

La voce, proveniente dal corridoio, che con tanto entusiasmo si era annunciata... per lui era inconfondibile, a dir poco indimenticabile. Leo glielo aveva detto spesso, seppelliti sotto le coperte, che quella sua voce così peculiare sembrava graffiare le pareti del suo cuore, roca e affamata com'era.

Quando Izumi comparve sulla porta della stanza, aveva un grande pacco tra le mani che nascondeva gran parte della sua figura, eccezion fatta per un'iride azzurra intenso, come il mare delle coste caraibiche e uno spruzzo di ribelli capelli color del ghiaccio. Leo sapeva che non avrebbe dovuto voltarsi in direzione di quella voce, sapeva che forse era ancora presto per vederlo ma il suo corpo reagì d'istinto, richiamato dal canto della sirena dei ricordi: a nulla erano serviti quei mesi di lontananza, perché quando i loro sguardi si incontrarono, la stanza sparì.

Al suo posto, c'era di nuovo il viale alberato, in mezzo a quel pomeriggio di autunno: le foglie secche e ingiallite per terra, trascinate dalla brezza mortifera che le allontanava dalla loro casa per accompagnarle a morire lì, sull'asfalto nudo, incolore; le auto che passavano chiassosamente al loro lato; il marciapiede composto prevalentemente di ghiaia, come per voler far sembrare la passeggiata più romantica quando rendeva semplicemente più scomodo il camminare.

E quelle parole, ancora, che risuonarono nella mente di Leo come se qualcuno le avesse urlate a pieni polmoni: “L'ho trovato”. Poi anche la voce di Shu, di solo qualche settimana prima, sussurrò al suo orecchio, con fare provocatorio come solo lui poteva fare, con quell'intenzione malcelata di metterlo alle strette senza neanche sforzarsi: “Ho scorto un lucchetto, sulla pelle”. Un lucchetto, come Makoto Yuuki.

Si sentì mancare l'aria nel momento stesso in cui la stanza tornò al suo posto, circolare e caotica, con tutti i presenti: Izumi per poco non lasciò cadere a terra il pacco che teneva, in evidente difficoltà; Robin, alle sue spalle, forse non riusciva a seguire la situazione così come non avrebbe potuto fare il giovane informatico... Madara, d'altro canto, era al corrente di quello che era accaduto tra loro, forse anche nei minimi dettagli, eppure era impietrito allo stesso modo.

Il Predestino era crudele, sì, ma il destino non era di certo da meno.

«Leo...» lo sentì mormorare, la sua voce ridotta ad un sussurro e quelle due sillabe divennero già improvvisamente troppe, insostenibili; lo scrittore si rese conto di non aver mai odiato così tanto il suo nome come in quel momento, che suonava così giusto su quelle labbra. Ed era frustrante provare di nuovo quel calore nel sentirlo pronunciato da lui, ma ancor più doloroso era vederlo esitare, spaesato, perché il solito Izumi lo avrebbe liquidato con uno schiocco di lingua ed un'intimidazione bella e buona.

Quello era il suo Izumi, però. Un ricordo bellissimo, un'illusione mortifera che non riusciva ancora a scacciare e che si sovrapponeva anche adesso all'uomo reale che aveva davanti, lo stesso che aveva mosso qualche passo, incerto, verso di lui, dopo aver poggiato lo scatolone a terra. L'uomo col lucchetto.

Aaaah, era così bello. Così bello da far paura, quasi, proprio come quando lo aveva conosciuto e lo aveva dovuto lasciare andare. Si chiese perché il Predestino pensasse che un essere così maldestro come Makoto Yuuki lo meritasse al posto suo; si chiese perché continuasse a guardarlo con quegli occhi pieni di senso di colpa, che lo affossavano ogni volta, un metro più giù, fino a raggiungere il centro della Terra. Si poteva morire, sotto il peso di uno sguardo? Sotto il peso di un ipotetico futuro insieme che avevano ad entrambi strappato da sotto il naso?

Per assurdo, il suo corpo reagì come la sera in cui il Predestino lo aveva messo davanti al reale futuro: doveva fuggire. Lontano, il più lontano possibile, prima che Izumi trovasse il coraggio di carezzargli la mano, come stava per fare – con gentilezza, riguardo, come se fosse chiaro il suo essere sul punto di frantumarsi una volta per tutte. Leo fu così svelto nell'aggirarlo che neanche Robin ebbe il tempo di fermarlo: in un attimo, era di nuovo in strada, con gli occhi che bruciavano, la voce di Madara nelle orecchie che sfumava lontana, nel tentativo di riportarlo indietro... Ma no, non si sarebbe fermato.

Le occhiate confuse ed irritate dei passanti lo sfioravano, come lame taglienti, ferendolo in più punti ma la sua corsa non si arrestava e ad ogni sguardo accelerava la corsa: il grande viale della città scorreva senza forma alcuna sotto i suoi occhi, sbagliato anch'esso, deformato da quel dolore al petto lancinante, che non riusciva a mettere a tacere. Si fermò solo molti minuti dopo, vicino alla stazione della metro da cui erano venuti lui e Robin solo qualche ora prima.

Gli faceva male tutto: le gambe, il petto, la testa. Sentiva il volto umido di lacrime che non ricordava di aver mai versato davvero, vedeva le mani tremare dalla rabbia e dalla frustrazione senza che fosse capace di nascondere alcunché – era nudo, le sue emozioni esposte alla mercé della città nonostante avesse cercato il più possibile di farsi invisibile, accucciandosi in silenzio vicino ad una siepe. Si prese il capo tra le mani, nascondendo il volto contro le ginocchia nella speranza di calmare sia il respiro che i singulti dati dal pianto che adesso non riusciva più a trattenere. La sua voce lo implorava di uscire, di farsi sentire, di farsi testimone del grossolano, ridicolo errore che era il mondo.

Non seppe per quanto rimase lì, in quella posizione: più cercava di calmarsi, di svuotare la mente, controllare quelle emozioni impazzite, meno sembrava consapevole della sera che calava, impietosa, almeno finché non si rese conto di avere freddo. Capì che il suo corpo era spossato: sentiva gli occhi gonfi, le forze venire meno, la testa pulsare e...

«Leo!» Un abbraccio. Una stretta calda, come un fulmine a ciel sereno, in cui la disperazione di Leo trovò finalmente, seppur per qualche momento, pace. Sentì delle mani stringerlo, forte e il rosso si rese conto che conosceva quel profumo; era lo stesso a cui si stava abituando, giorno dopo giorno, a sentire vicino – sul suo divano, sui suoi vestiti, nella sua quotidianità.

Robin.

“Egoista”, si rimproverò. Era fuggito di fronte a Izumi sotto gli occhi di quel ragazzo, che di certo non poteva sapere; si era lasciato trovare in quel modo, distrutto nell'animo, da chi aveva trascinato nella sua vita in un impeto istintivo (non ingiustificato, questo no; a Leo piaceva Robin, ma era ancora tutto da costruire, da scoprire) e, anche se del dolore lancinante che aveva provato per tutto quel tempo, sentiva ormai solo l'emicrania e la stanchezza – anche grazie a quell'abbraccio – lo scrittore si rese conto che lo aveva... dimenticato, per quegli attimi. Izumi, nella stanza, aveva spazzato via tutto quello che in mesi aveva cercato di riparare. Un tornado.

Eppure, quelle mani accarezzavano ancora la sua nuca come se niente fosse accaduto – anzi, forse proprio perché qualcosa era accaduto - con quella dolcezza che in un'altra occasione forse Leo avrebbe scacciato. Sentiva le dita attraversare i suoi capelli, forse con l'intento di calmarlo; il silenzio lo stava aiutando lentamente a rilassarsi, a cercare ancora più contatto, mentre si ripeteva nella mente che era un debole, come un mantra, e che doveva chiedere scusa a Robin e--

«Se vuoi parlarne, io sono qui» gli sussurrò il giovane, senza cercare il suo sguardo. Non lo stava mettendo sotto pressione, gli stava... concedendo una via di fuga.
Leo non poté fare a meno di stringere con ancora più forza la sua giacca tra le dita, odiandosi – non lo meritava, per niente. Non sapeva cosa spingesse questo giovane ragazzo a stare al suo fianco, a seguirlo nella sua follia e curare le sue ferite degne di un animale con la rabbia, ma Leo non era all'altezza di tutto questo.

Se proprio voleva strappare Robin a chiunque fosse il suo Predestino, forse qualcuno in grado di amarlo davvero, in modo genuino e sano... beh, doveva lavorare sodo, per far sì che creassero qualcosa insieme. Anche loro.

«Come mi hai trovato?» si sforzò di chiedere, la voce resa quasi irriconoscibile dalle ore di pianto, senza distanziarsi troppo da lui. Sentì un fastidio pressante alla mascella, per averla tenuta stretta troppo a lungo nel vietarsi di urlare.

Robin replicò dopo una risata leggera, come se la situazione in cui si trovavano non fosse estremamente... difficile. «Mi piacerebbe dirti che ti ho trovato subito, ma ci ho messo un paio d'ore prima di arrendermi e pensare di tornare in stazione e provare a chiamarti al cellulare» ammise, nella sua schiettezza spesso tagliente, ma che in quell'occasione strappò a Leo un sorriso.

«Mi sarei preoccupato, se tu mi avessi trovato subito. Avrei cominciato a pensare che avessi i superpoteri, tipo un Super Tempismo».

«Mi avrebbe fatto comodo, però» sussurrò, trovando forse solo in quel momento il coraggio di guardare Leo, ancora premuto contro il suo petto: i loro occhi si incontrarono, anche se il più grande fu svelto nel distogliere lo sguardo e così perse la piccola smorfia che attraversò il volto dell'altro. «Non mi piace l'idea che tu fossi... solo, con questo stato d'animo».

Ci fu un breve attimo di silenzio, tra loro. Leo si chiese perché questo giovane continuasse ad insistere in quel modo, dopo quel che aveva visto: chiunque altro, al suo posto, avrebbe girato sui tacchi e se ne sarebbe andato, sentendosi evidentemente di troppo – una reazione così esplosiva, da parte sua, di certo tradiva l'enorme mole di sentimenti contrastanti che ancora provava nei confronti di Izumi, seppur l'entrata di Robin nella sua vita avesse cominciato a dissipare lentamente l'intricata foresta di rovi che circondava ancora il suo cuore.

Leo era complicato, frammentario, confuso: passava dal giorno alla notte in un battito di ciglia, perché mente e cuore viaggiavano quasi sempre a velocità folle, sbagliata – Izumi era come lui, una volta: una tempesta, un mare spaventoso, un cielo carico di fulmini e saette.

Robin, invece, era un vento leggero. Una carezza gentile ma testarda, in grado di ridurre in polvere montagne millenarie con la pazienza e il tempo – in quel caso, la montagna era lui, quel vento le mani del moro. Leo sentiva sbriciolare lentamente le sue mura tra quelle braccia, mentre chiudeva gli occhi contro il maglioncino color crema di Robin.

«Sembri arrabbiato» trovò modo di dire lo scrittore, seppur a bassa voce.

«Lo sono, ma mi passerà».

Era strano che lo avesse ammesso. Eppure, in quelle parole, non c'era risentimento, solo... orgoglio; orgoglio duro e severo, ma non velenoso. Chissà cosa pensava, si chiese Leo.

«Perché lo sei?» insistette, più a suo agio nel far vertere la conversazione sul più giovane.

Robin esitò. «Perché sono arrogante» mugugnò, con un tono così frustrato che Leo si costrinse a sollevare nuovamente lo sguardo verso di lui – era davvero irritato, era facile notarlo... Ma non immaginava che lo fosse con se stesso. «Non ho idea dei tuoi trascorsi con quel ragazzo, ma... se avessi contato di più, per te, magari non avrebbe fatto così male. A nessuno dei due».

Stavolta, il silenzio fu più pesante, perché Leo non riusciva proprio a credere a quello che il moro aveva appena pronunciato: a dirla tutta, in parte gli sfuggiva il senso delle sue parole, ma... credeva davvero che dipendesse da lui la drammaticità della sua reazione? Era possibile essere così stupidi e—critici con se stessi?

«Dubito che il problema sia tu» gli rispose immediatamente perché no, non gli avrebbe permesso di sminuirsi a quel modo. «Non sei la mia balia» si affrettò ad aggiungere, tirando su col naso e ricordando, con una stizza di irritazione, che il più grande dei due era lui.

Robin, dato che la risposta era stata tutt'altro che esaustiva, continuò a fissarlo con aria curiosa – non che si potesse biasimarlo, dopotutto: anche quel desiderio di scoperta che spesso gli illuminava il volto faceva parte di ciò che Leo aveva cominciato ad amare, di lui.

«E va bene, e va bene!» si arrese il rosso, trovando la forza di alzarsi: ormai le gambe sembravano aver smesso di tremare, anche se sentiva ogni singolo muscolo del corpo indolenzito, come se fosse stato messo sotto uno sforzo inaudito... sul punto di esplodere. «Ti racconterò tutto, ma... non qui».

«Non sei costretto a parlarmene» rispose frettoloso Robin, alzandosi in piedi anche lui. Sembrava essersi reso conto solo in quel momento di quanto era apparso avido di sapere. «Solo che... ci conosciamo poco ed ammetto che la tua reazione mi ha davvero colto alla sprovvista». “Colto alla sprovvista”... stava soppesando le parole, era evidente; poi Robin gli sorrise e lo scrittore non trovò più il coraggio di dubitare di quanto stava dicendo – quello era l'effetto che gli faceva, quando lo guardava: lo contagiava, lo faceva sentire a casa, protetto. Era talmente potente che riuscì quasi a far sorridere anche lui. «Però è anche vero che tu non hai mezzi termini, in niente. Quindi, se ami, se odi, se provi dolore... è tutto amplificato, immagino».

Leo aveva spesso l'impressione che quel ragazzo ne sapesse più su di lui che lui stesso: era come uno specchio particolarmente critico, in grado di raccogliere ogni frammento del suo essere senza però ferirsi inutilmente. Sapeva maneggiarlo, quando con cura e quando con durezza, sapeva ammaliarlo, sia con malizia che con innocenza e sapeva parlargli: questa era, forse, la cosa che più lo spiazzava – Robin sapeva comunicare con lui con naturalezza, quasi fossero amici da una vita.

Era ancora immerso nei suoi pensieri al riguardo, quando una mano calda afferrò la sua (fredda, ancora in parte tremante, sudaticcia); Robin la strinse e poi, accennando un primo passo verso l'entrata della metro, sembrò strapparlo da quell'angolo buio, la piccola prigione immaginaria le cui sbarre erano fatte di ricordi dolorosi e pensieri vorticanti, di colore nero.

Ma lui era lì, come il giovane elfo della storia che stava scrivendo: la stretta ferma e decisa, la presenza forte e piena di luce.

«... A casa. Ti racconterò tutto a casa» mormorò Leo, prima di lasciarsi convincere all'evasione dal suo incubo.

Finalmente, l'aria aveva di nuovo il sapore della libertà.
 


Note: Questo capitolo è stato davvero coinvolgente, per me. Ammetto che vedo la IzuLeo anche nel canon come una relazione "finita", fatta di troppe incomprensioni per essere totalmente recuperata; qui la situazione è un po' ribaltata e, forse, anche semplificata; ma volevo che, di tutte le relazioni di Leo, Izumi fosse colui che più l'aveva segnato, marcato, costretto a diventare quello che è all'inizio della storia. Spero che abbia reso bene l'entità dei sentimenti che entrambi provavano, anche se della loro storia non ho accennato niente se non frammenti.
Forse è la prima volta che svelo anche il "ruolo" dei personaggi della storia nel romanzo di Leo (anche se erano comprensibili, immagino); che Robin fosse il giovane elfo credo fosse chiaro, perché lui è diventato in fretta il suo porto sicuro. Ammetto che è stato difficile gestire il suo panico per Izumi e la sua voglia di rinascere con Robin al suo fianco; è un cruccio che mi ha portato via gran parte del tempo che ho impiegato per scrivere, così come il capitolo successivo che è già in lavorazione.
Insomma, in definitiva spero vi sia piaciuto! E volevo avvisare che probabilmente la settimana prossima non sarò in grado di aggiornare puntualmente perché ho un sacco di cose da sbrigare e temo di aver davvero pochissimo tempo per scrivere. Spero di poter tornare comunque prima di Natale.
Alla prossima! (e assicuro che sarà un capitolo molto interessante, mhmh.)

 

   
 
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