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Autore: _Frame_    26/11/2017    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Centocinquanta tondi, ciurmaglia! Speravo di poter festeggiare facendo sparare a Prussia la prima salva con la Bismarck ma il capitolo rischiava di diventare troppo lungo, quindi nyet. E ora avanti a tutto gas verso i duecento, nonostante una volta avessi detto che sarebbe stato grandioso riuscire a finire prima. Ma mi sa tanto che, quando arriveremo al duecentesimo capitolo, non avremo nemmeno cominciato Pearl Harbor. Ah ah, che... che bello. Lo giuro, andrà a finire che questa benedetta fan fiction durerà più della guerra stessa. No, no, no, Signor Forno, richiudi lo sportello, per cortesia, la tua proposta è allettante ma non ho ancora bisogno di infilarci la testa dentro. Credo.

Buona lettura a tutti, gente! Io mi dileguo per rinfrescarmi la mente con dei salutari gargarismi scaccia-pensieri a base di acetone. :D



 

150. Nella nebbia e In mezzo al ghiaccio

 

 

21 maggio 1941,

Porto di Bergen, Norvegia,

Bordo della Corazzata Bismarck

 

Le luci che maculavano le coste del fiordo brillavano come lucciole incastrate nelle rientranze del porto, sopra gli strapiombi che cadevano nel mare diventato nero e lucido come una distesa d’inchiostro. Lo strato di nebbia, rigonfio e galleggiante contro la linea d’orizzonte che separava la terra dal cielo della sera, offuscava la fila di scintille, piccole e tremolanti come fiammelle, che somigliavano a una sbriciolata di stelle cascate dalle nuvole e spolverate fra le insenature e le spiovenze della terra. Il vento soffiava lento ma aspro. L’aria si abbatteva contro il profilo della corazzata in navigazione, l’abbracciava in una spira d’aria e foschia, ululava contro le ventole e le torrette, e fischiava attraverso i tralicci degli alberi.

Norvegia incrociò le braccia contro la balaustra che recintava la poppa, si affacciò alle coste di Bergen che la Bismarck e il Prinz Eugen stavano abbandonando lasciandosi dietro una larga scia bianca e schiumosa che fendeva l’acqua nera, e nei suoi occhi placidi e nebbiosi si riflessero i grappoli di luci che tremolavano lungo il profilo della costa ormai distante e assottigliata. Il vento salato e odorante di nafta gli scivolò sul viso arrossato dal freddo, gli agitò il bavero della giacca contro le guance, gli scompigliò i capelli facendo luccicare la spilla pinzata sopra l’orecchio, e sbatté contro il panno della bandiera tedesca che pendeva dal traliccio a piramide eretto sulla poppa. Il ronzio della corazzata in navigazione gli correva sotto i piedi, si mescolava al brontolio dei soffi emessi dalle ventole e dagli sbocchi delle tubature che rigettavano un velo di vapore contro le catene delle ancore inghiottite dal ponte di coperta. Le vibrazioni della Bismarck si arrampicavano lungo le gambe di Norvegia, si raggomitolavano nel suo stomaco creando un formicolio che bruciava contro le pareti dello stomaco, e salivano a battere nel suo petto, accelerando i palpiti del cuore fremente di agitazione. Norvegia ebbe l’istinto di chiudere le ginocchia, di tenersi stretto nelle spalle e di proteggersi. Staccato di nuovo dalla sua terra, tornò a sentirsi vulnerabile come quando il convoglio tedesco si era infilato nel suo porto. Chinò la fronte contro le braccia incrociate, sospirò per liberarsi di quella sensazione opprimente che lo stava soffocando da quando erano arrivati a Bergen. Non ci riuscì.

Un’ombra si allargò alle sue spalle, gli si avvicinò, finendo per toccargli i piedi. Danimarca attraversò il ponte di poppa a passo lento, le mani infilate nelle tasche della giacca pesante che aveva indossato sopra l’uniforme, e la schiena leggermente ricurva per tenere il bavero accostato alla bocca, soffiando il respiro tiepido dentro la stoffa. Attraversò la scia di luce gettata da uno dei riflettori, fece scivolare gli occhi sul profilo voltato di Norvegia, lasciandosi toccare di striscio dal riverbero che rese il suo sguardo più lucido e dolce, e sospirò anche lui. Lo chiamò con tono più flebile del solito. “Ehi, Nor.”

Norvegia girò una guancia, lo squadrò con la coda dell’occhio da sopra la spalla, percorrendolo da capo a piedi, e gli fece un cenno con il mento. “Ehi.” Tornò ad affacciarsi al panorama, a quell’acqua nera su cui si rifletteva il cielo della sera tappezzato dallo strato di nuvole che coprivano la luna e le stelle.

Danimarca camminò affianco a Norvegia, e rimase con le mani infilate nelle tasche, senza appoggiarsi alla balaustra. Si affacciò a sua volta verso l’orizzonte del porto che si stava allontanando e assottigliando dietro la nebbia, inghiottito dall’oscurità, e fece rimbalzare il peso da una gamba all’altra per tenersi al caldo. “Il crucco dice che ci vorranno un paio di giorni per arrivare nell’Atlantico.” La sua voce fece condensa, gettò quella bianca nuvoletta di vapore che finì subito squagliata dalla spinta del vento che gli alitava in faccia. “Forse già entro domani riusciremo a passare lo Stretto. Da là poi è tutta strada aperta.”

Norvegia annuì, “Mh”, con un cenno distratto e sbrigativo, senza distogliere lo sguardo dalla costa della sua nazione bucherellata dalle luci del porto.

Il silenzio in mezzo a loro si riempì con gli scrosci sollevati dalle onde che carezzavano lo scafo della Bismarck, con i ronzii e con i soffi dei ventilatori delle turbine, e con le voci borbottanti di alcuni marinai radunati sul ponte superiore. Danimarca fece scivolare lo sguardo sopra la sua spalla, lo posò sul profilo di Norvegia, chino con le spalle in avanti sulla balaustra, e si soffermò sul suo viso toccato dalle ciocche bionde che sventolavano sotto le spinte dell’aria, su quegli occhi ora così distanti e impenetrabili persino per lui.

Danimarca aprì e strinse i pugni dentro la giacca, soppresse quel formicolio che lo stava tormentando da tutto il giorno, pungente e frustrante come un sassolino incastrato nella scarpa, e inspirò a fondo per darsi coraggio. Si schiarì la voce. “Quindi...” Sollevò la punta del piede, la rigirò a terra facendo singhiozzare la suola, e buttò la domanda con leggerezza, nella stessa maniera con cui si lancia una pietra nel mare. “Cos’è che vi siete detti?”

Norvegia sollevò l’estremità di un sopracciglio, mantenne l’espressione piatta, la luce degli occhi inalterata, e buttò uno sguardo distratto a Danimarca. Corrugò la fronte, assumendo un vago sguardo interrogativo.

Danimarca scrollò le spalle. “Tu e Prussia.” Fece scivolare la punta del piede, la suola stridette sul legno tirato a lucido, e lui allontanò di nuovo gli occhi. “Prima, quando eravamo appena arrivati al porto.” Indicò il cielo con un cenno del capo. “Io ero sul ponte superiore, vi ho visti che parlavate.”

Norvegia cominciò a capire, si fece più buio in volto, strinse i pugni, e i suoi occhi divennero più penetranti. “E cosa avremmo dovuto dirci?”

Danimarca gli mostrò le mani in segno di resa, si sottrasse a quell’occhiataccia di accusa. “Nulla, nulla, chiedevo.” Rivolse lo sguardo alle sue spalle, ma non riuscì a mascherare un piccolo broncio da offeso. “Solo non vorrei...”

“Cosa?” Norvegia fece scivolare le braccia giù dalla balaustra e si girò verso di lui, premendogli lo sguardo contro. Un alito di vento ululò contro di lui e agitò più rapidamente il panno della bandiera appesa a poppa.

Danimarca rabbrividì e si tenne distante, desiderando mordersi la lingua e rimangiarsi tutto. “Niente.”

Norvegia tornò a perforarlo con una delle sue occhiate piatte ma allo stesso così affilate, come rasoi ghiacciati, che parve affettargli l’anima. “Cosa?” insistette con tono di voce più ruvido.

Lo sguardo di Danimarca vacillò di indecisione, toccato da una scintilla di paura passata attraverso le palpebre, e rimase distante. Danimarca sospirò, soffiando altra condensa bianca, e le sue parole suonarono amare, buie come il cielo sopra di loro. “Non vorrei che ti stesse convincendo che quello che stiamo facendo vada bene.”

Norvegia rilassò la tensione dei pugni, acquietò la tempesta che si era condensata nei suoi occhi, rendendoli lividi, e lasciò che una tiepida fiammella di comprensione gli alleggerisse il peso di rabbia che si era accumulato attorno al cuore. Soffiò uno sbuffo di commiserazione, e tornò a girarsi verso il mare. “E ovviamente tu sai meglio di tutti quello che va bene e quello che non va bene.” Un ronzio sorse da dietro le nuvole, alle sue spalle, e gli pizzicò l’orecchio come il tocco di una spina.

Danimarca fece roteare lo sguardo. “Sto solo dicendo che...”

“Zitto.” Norvegia si girò di scatto, tirò su gli occhi al cielo, il vento lo investì soffiandogli in faccia, fra i capelli e di nuovo contro le orecchie. Gli trasmise di nuovo quel brivido, cogliendolo come uno schiaffo sulla nuca. L’aria tornò a vibrare e a scottare sulla sua pelle, forti tremori elettrici corsero lungo il ponte della corazzata e risalirono le sue gambe, la tensione di quell’energia arrivò a soffocargli il battito del cuore e a sibilargli dietro l’orecchio.

Danimarca sbatté due volte le palpebre, anche il suo sguardo si fece più grigio e teso, l’espressione smarrita e ripulita dal lieve broncio che prima lo aveva immusonito. “Cosa...” Si guardò attorno, verso la costa, verso il cielo, e di nuovo verso Norvegia. “Cosa c’è?”

Norvegia lo bloccò con un cenno di mano. “Zitto, ti ho detto.” I suoi occhi rivolti al cielo scavarono fra le nuvole, catturati dai gorgoglii, da quel brontolare estraneo sorto all’orizzonte che lo aveva messo in allarme. Il suo viso divenne di pietra, gli occhi infossati nell’ombra riflessero tutta l’oscurità che regnava dietro lo strato di nebbia. “Non senti...” Il ronzio emerse, graffiante e aggressivo come un ruggito, e perforò le nuvole. Lo stormo di bombardieri britannici volò ad arco sopra le loro teste, scavalcò la nebbia, e scese verso la linea d’orizzonte puntata dalla poppa della corazzata, verso le luci che traballavano sulla costa del porto coperto di nebbia. Norvegia spalancò le palpebre, una vampata di calore gli schizzò alla testa. “Sono...”

Fischi precipitarono dal cielo, superarono il ronzio dei motori aerei, toccarono terra e accesero globi di luce sulla costa. I boati tuonarono secchi e violenti come colpi di frusta, si alternarono ad altri lampeggi che illuminarono Bergen riflettendosi sullo specchio di mare nero.

Norvegia sentì una fitta centrarlo al ventre, come un lacero nella carne. Schiacciò le mani sulla pancia, ansimò strozzandosi con un ingollo d’aria andata di traverso, e la vista si chiazzò di rosso.

Altri fischi accompagnarono la sua caduta. Norvegia precipitò in ginocchio, e lo schianto delle sue gambe contro il ponte si unì alle esplosioni che continuavano a tuonare in lontananza.

“Nor!” Danimarca crollò su di lui, gli strinse le spalle tremanti, e gli posò una mano sulla fronte già madida di sudore gelato. “Stai su, stai su, non farmi scherzi.”

Norvegia ebbe un fremito, un altro crampo di dolore gli ghiacciò lo stomaco, e lui dovette sopprimere un lamento fra i denti. Si aggrappò con una mano al braccio di Danimarca e respirò a soffi più rapidi, lasciando uscire dal corpo quell’ondata di nausea che gli continuava a martellare le costole.

Altri ronzii sfrecciarono verso il porto, verso gli echi delle tuonate alternati ai lampi di luce che brillavano come bolle di temporale sfumate di nebbia, e Danimarca seguì con lo sguardo il loro volo ad arco. I suoi occhi si infiammarono come le esplosioni. “Cazzo,” ringhiò, “ci hanno trovati.”

Norvegia strinse i denti, tremò di dolore e di rabbia, sentendo anche lui il petto andare in fiamme, e pestò a terra un piede vacillante. Spinse il peso contro il braccio di Danimarca che lo stava tenendo su.

Danimarca gli fece allacciare un braccio attorno al suo collo e gli diede una scossetta di incoraggiamento. “Tieni duro,” gli disse. “Resisti, non può durare troppo, stanno solo sparando a vuoto. Tremò anche lui, sobbalzò sotto lo scoppio di altre tre esplosioni di seguito, e il suo viso finì abbagliato dalle luci che continuavano a specchiarsi nel cielo e sul mare. “Se ne andranno subito, promesso.”

Norvegia rallentò il respiro, rilassò la tensione che gli irrigidiva le gambe, smise di far tremare le ginocchia, e scrollò il capo per liberarsi del senso di nausea che si era stretto attorno allo stomaco come un anello di ferro. Le fitte continuavano a martellargli sul ventre indurito dal dolore.

Dietro di loro si accese un altro dei riflettori più piccoli, gettando un fascio di luce sul ponte di coperta, e l’abbaglio improvviso richiamò un ruzzolare di passi in corsa che si precipitarono sul ponte, raggiungendo Danimarca e Norvegia alle loro spalle.

“Esplosioni?” esclamò una delle voci dei marinai.

Altri di loro corsero alla balaustra, si affacciarono al mare, guardarono il cielo, e si sporsero verso le luci. Scosse di panico attraversarono le loro voci. “Stanno bombardando il porto!”, “È Bergen! Stanno colpendo Bergen!” Altri passi e altri borbottii si mescolarono sotto i boati delle esplosioni. “Da dove arrivano gli stormi?” urlò un’altra voce a cui si unì una seconda. “Ma sono Spitfire?”

Danimarca gettò lo sguardo all’indietro, in mezzo alle sagome dei marinai e degli ufficiali che si stavano radunando sul ponte, in mezzo alle loro ombre che continuavano a comparire, ad aumentare e a mescolarsi, e andò in cerca di un’irritante faccia familiare da poter prendere a pugni. Non la trovò. Raddrizzò le ginocchia e sollevò da terra il peso di Norvegia. “Ce la fai a stare in piedi?”

Norvegia soffiò un grugnito fra i denti, si rialzò anche lui tenendosi appeso alla spalla di Danimarca, e annuì strofinando la fronte sudata contro il suo braccio. “Sì.” Era bianco in viso, e il continuo senso di nausea lo fece vacillare di nuovo.

Altre bolle di luce scoppiarono sul porto, riflessero le vampate di fuoco contro la nebbia che stava diventando sempre più sottile. Danimarca si girò verso i marinai e tuonò a sua volta. “Ehi, voi!” Un paio di loro si voltarono, si rizzarono in un attenti impulsivo, e Danimarca gli arrancò davanti con Norvegia appeso al fianco. “Occupatevi di lui, non lasciate che gli succeda niente. Se quando torno lo trovo anche con un capello fuori posto giuro che vi faccio tutti buttare a mare.”

Gli uomini in divisa irrigidirono, colti da una scossa di panico e soggezione, ma annuirono all’unisono. “Sissignore.” Corsero a occuparsi di lui.

Danimarca annuì e si chinò a sussurrare un ultimo incoraggiamento accanto al viso di Norvegia. “Resisti.” Lo lasciò fra le braccia dei marinai, separandosi di malavoglia. “Torno subito!” Si girò, compì un salto per superare la catena dell’ancora risucchiata dal ponte, e corse via. Il vento in faccia arrivò come una serie di schiaffi di ghiaccio stampati sulle guance. Le soffiate gelide si alternarono ai lampeggi provenienti dal cielo e aumentarono il ribollio di rabbia che gli ardeva in petto. Danimarca stritolò i pugni, soffocando fra le dita la voglia di riempire Prussia di cazzotti. Che gran figlio di puttana. Accelerò, saltò oltre la diga del ponte di coperta, atterrò accanto a una delle torrette delle ventole che soffiavano un vapore denso, e continuò a correre con vento e foschia a sputargli gelo in faccia. Prussia si è fermato apposta a carburare qua nel fiordo piuttosto che usare una nave cisterna in mare aperto, sapeva che qui lui non avrebbe subito nemmeno una conseguenza, e che attaccando il porto sarebbe stato solo Nor quello a stare male. Le falangi dei pugni stretti si contrassero e schioccarono. Danimarca soffiò un rauco sbuffo di condensa fra i denti stretti, sul suo viso sudato si specchiò un’altra bolla di tuono che gli accese gli occhi di rosso. Questa me la paga, fosse l’ultima cosa che faccio. Sfrecciò in direzione opposta ai bombardieri che continuavano a gettarsi verso il porto, mentre alle sue spalle la nebbia continuava a ruggire come una nuvola di temporale scesa a galleggiare sopra il mare.

 

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“Un attacco isolato.” Prussia marciò avanti e indietro lungo il ponte di coperta, le mani strette dietro la schiena, il busto dritto, Gilbird a riposare dentro il bavero della giacca pesante, accanto alla sua guancia, e l’espressione distesa e sdrammatizzante, come se non fosse successo nulla. Scrollò le spalle. “Uno stormo inglese, a quanto pare, che ci aveva già individuato nel primo pomeriggio.” Buttò una rapida al cielo notturno ancora ricoperto di nuvole, chiazzato dal fumo che era scivolato fin lì dalle coste di Bergen, e rischiarito dalla luce proiettata dai fari della Bismarck. Inarcò un sopracciglio. “Ma a quanto pare ci hanno trovati prima del previsto.”

Danimarca strinse le braccia attorno alle spalle di Norvegia che gli sedeva in grembo, gli sistemò la coperta attorno alla schiena – l’avevano fatta portare dalla lavanderia –, e si dondolò avanti e indietro sulla cassa di munizioni su cui erano seduti, fra due ufficiali di scorta che li tenevano d’occhio. Passò una carezza fra i capelli di Norvegia, gli fece posare il capo sulla sua spalla, tenendolo lontano dagli sguardi vaghi dei marinai che continuavano a passare su e giù lungo il ponte, e lanciò un’occhiataccia furente a Prussia. “Avevi detto che non c’era modo di individuarci,” gli abbaiò contro. “Che saremo sempre stati al sicuro.” Il cielo era di nuovo silenzioso, senza più ronzii, o bombardamenti, o lampi a illuminare la nebbia. C’era solo il vibrare della corazzata che fendeva le acque con il suo scafo, liscia come un taglio di forbici sul velluto.

Prussia liquidò il suo commento con una sventolata di mano. “Ho detto semplicemente che il maltempo e la nebbia ci avrebbero tenuti coperti. E infatti è stato così, dato che hanno sparato solo al porto e non alle navi, convinti che fossimo ancora là.” Fermò la camminata, rivolgendosi a Danimarca e a Norvegia, e volse i palmi al cielo. “Non è successo nulla di grave, no?”

Norvegia sollevò un sopracciglio, sfregò la fronte sulla spalla di Danimarca, e girò il viso ancora pallido di dolore verso Prussia. Strizzò le mani sull’orlo della coperta, facendo tremare le braccia, e lasciò che una scossetta di rabbia gli ravvivasse la luce negli occhi che si erano appannati dopo la prima botta di dolore.

Danimarca gli passò un’altra carezza fra i capelli, posò la fronte sul suo capo continuando a guardare Prussia di traverso, con occhi carichi d’odio, e masticò un insulto fra i denti. “Che stronzo.” Strofinò le mani sopra le spalle di Norvegia, da sopra la coperta, e lo aiutò a scaldarsi, a riattivare la circolazione del sangue.

Prussia fece roteare lo sguardo, soffiò un sospiro più morbido, e rimboccò il bavero della giacca per coprire Gilbird dal freddo. “Ascoltatemi bene.” Si avvicinò a loro passando sotto gli sguardi degli ufficiali di guardia e dei marinai, incrociò le braccia al petto ingigantendo la sua ombra allungata da uno dei riflettori più piccoli, e tamburellò le dita. “Ora le cose potrebbero complicarsi, dato che gli inglesi ci hanno individuati, e probabilmente ora staranno già decidendo di inseguirci e di tenerci monitorati con dei pattugliamenti aerei.” Sciolse una mano dall’intreccio e rivolse l’indice al cielo, mulinando la punta. “È probabile che capiscano le nostre intenzioni di tuffarci nell’oceano e che preparino una trappola alle porte dell’Atlantico. La nebbia ci aiuterà a nasconderci, è vero, ma adesso sta calando troppo buio, e stiamo per entrare in un tratto di mare con molto ghiaccio.” Rivolse a Norvegia un’occhiata d’intesa. “Dico bene?”

Norvegia abbassò l’ombra di ostilità che gli annebbiava gli occhi, strinse di più un lembo della coperta contro il petto, e non poté fare altro che annuire.

Prussia spostò lo sguardo in lontananza, verso il mare, e si portò una mano davanti al viso per ripararsi dal vento. “Il pericolo maggiore in tutto questo è di perderci di vista a vicenda con il Prinz Eugen,” chinò la fronte per guardare verso poppa, “pertanto sarò costretto a far accendere anche uno dei proiettori di poppa, in modo che l’incrociatore sappia starci dietro. Rischioso ma necessario. Oltretutto, domani saremo fuori dalle acque norvegesi e dal tuo territorio, e non dovrai più preoccuparti che ti colpiscano direttamente sui porti.” Sciolse dal suo volto quell’espressione seria, batté le mani facendo sobbalzare Gilbird contro la sua guancia, e si incamminò sventolando un gesto rassicurante verso Danimarca e Norvegia. “Forza e animo, ciurma. Questa missione è appena cominciata.”

Danimarca non mollò l’abbraccio attorno a Norvegia, gli diede un’altra strofinata alle spalle, e si sporse per indirizzare la voce verso Prussia. “È stato un attacco studiato, allora.”

Prussia fermò il passo, senza girarsi, e tese di nuovo l’udito verso di loro. Anche Norvegia sollevò lo sguardo per incontrare quello di Danimarca, ma non riuscì a incrociare i suoi occhi.

Danimarca mostrò uno sguardo più duro, ancora scosso dopo tutte le bolle di luce che si erano specchiate nei suoi occhi, e irrigidì l’abbraccio attorno a Norvegia. “E se ci fosse Inghilterra dietro? In fondo, tu stesso sei stato in grado di venire qua dalla Grecia.” Il suo tono di voce divenne più sottile e tagliente, raggiunse Prussia come una provocazione. “Cosa avrebbe impedito a lui trasferirsi da Creta?”

Prussia sbuffò un sospiro più disteso, senza traccia di preoccupazione, si strinse una mano sul fianco e si girò a fronteggiare Danimarca. “Perché lasciare Creta significava per lui lasciare il comando ad Australia e a Nuova Zelanda,” rispose con tranquillità. “E, a meno che Inghilterra non si sia bevuto il cervello, non l’avrebbe mai fatto.” Scosse il capo. “Poi lui non sa che io sono qui. Non avrebbe avuto motivo di inseguirmi di persona, anche se fosse stata una faccenda personale.” Tornò a dare le spalle a entrambi, due ufficiali lo affiancarono, passando sotto uno dei riflettori del ponte, e Prussia si allontanò a passo incalzante. Sventolò un ultimo cenno all’aria. “Porta Norvegia in cabina e cercate di riposare tutti e due.”

Danimarca si morsicò il labbro, le sue braccia tremarono, il suo sguardo vacillò leggermente. Posò la fronte contro la spalla di Norvegia, sospirò a lungo, e gli strofinò un’ultima carezza da sopra la coperta. Norvegia fece scivolare le gambe giù dalla cassa di munizioni su cui si erano seduti, appoggiò i piedi a terra, ma Danimarca lo trattenne. “Ehi, ehi, aspetta...”

“Ce la faccio.” Norvegia si rialzò, si sfilò la coperta dalle spalle lasciandola sulle gambe di Danimarca, e tornò anche lui a percorrere la lunghezza del ponte, verso l’entrata dei locali. Si strinse le braccia, si sfregò dai gomiti alle spalle, e di nuovo quella fredda e viscida sensazione familiare tornò a gocciolargli sulla pelle, sibilando sussurri rauchi dietro il suo orecchio. E se Prussia si sbagliasse? Guardò il cielo, percependo ancora le graffiate lasciate come impronte dai bombardieri che erano sfrecciati verso Bergen, e il vento gli soffiò addosso un’aria più calda e bruciante, carica di elettricità. Quando mi hanno attaccato, sono sicuro di aver percepito una forza consapevole, la stessa energia che mi ha ferito durante i combattimenti sulla Manica. Strinse i pugni contro le braccia incrociate, e un lampo di vita gli riaccese la forza negli occhi. Ormai non ho più dubbi. Inghilterra è qui.

Norvegia tornò a guardare il mare, e gettò quel presagio nelle sue acque nere incrostate di ghiaccio, fumanti di nebbia e frastagliate dalla schiuma delle onde. Ma quand’è che avrà intenzione di mostrarsi di persona?

 

♦♦♦

 

22 maggio 1941,

Mar Glaciale Artico, Stretto di Danimarca,

Bordo dell’incrociatore pesante HMS Norfolk

 

Si stava alzando il vento. Un vento che sapeva di acqua salata e di ghiaccio secco, di nuvole di nafta bruciata disciolte a quelle dalle nebbie rischiarite dal sole che avvolgevano la banchisa della Groenlandia fiancheggiata dal loro convoglio.

Islanda strinse le braccia incrociate sulla griglia della balaustra che recintava il ponte, appoggiò il mento nell’incavo dei gomiti annodati, sospirò a fondo rilassando la tensione delle spalle, e socchiuse gli occhi. Assorbì l’odore di quel vento così simile a quello di casa, ma sporcato dalla presenza estranea, dall’energia trasmessa dai due incrociatori che gli vibrava sotto i piedi. Abbassò completamente le palpebre, si fece trascinare dal fischio del vento contro i capelli e si isolò. Si proiettò con la mente più a sud, verso una presenza più rincuorante e nostalgica che ora però visualizzava ferita e sanguinante, ancora sofferente per l’attacco di Inghilterra.

Islanda strinse i pugni contro le braccia incrociate, lasciò che una morsa di dolore raggelasse il pugno di rabbia che gli aveva bruciato il cuore. Cosa gli sarà successo? si domandò. Starà bene? Teoricamente era solo un attacco superficiale, non dovrebbe aver sofferto molto. Però... Si strinse nelle spalle e si strofinò le braccia. Ripensò allo sguardo alto e fiero con cui Inghilterra aveva fronteggiato la sua espressione di rabbia, a quelle sue parole che lo avevano colpito come una frecciata fra le costole, e il gesto con cui gli aveva dato le spalle, crudele e indifferente. Islanda corrugò le sopracciglia. Forse quello che più mi ha fatto arrabbiare è stata la leggerezza con cui Inghilterra ha deciso di attaccarlo, pur sapendo che c’era il rischio di far male più a lui che a Prussia. Soffiò uno sbuffo, degli schizzi di acqua fredda gli pizzicarono le guance. Ma che mi aspettavo? Inghilterra era stato chiaro fin da subito che sarebbe stato spietato. In un certo senso ha ragione: siamo in guerra, non sono ammesse esitazioni o atti di pietà, soprattutto se considero il ruolo fondamentale che ricopre la sua nazione. Lo so che non posso biasimarlo e che una nazione come la mia non potrà mai capire il genere di pressione che grava su una nazione potente come Inghilterra. Sollevò il mento e diede un piccolo colpo di fronte alle braccia incrociate, rintanandovi il viso dentro. Tornò piccolo, debole, impaurito e vulnerabile, sbattuto nel mare di ghiaccio che era diventato quella guerra. Anche se mi fa dannatamente paura il pensiero che prima o poi potrebbe toccare anche a me una sorte simile.

Mister Puffin atterrò sulla balaustra, strinse le zampe arancioni attorno alla sbarra, si spostò più vicino al gomito di Islanda tenendo stretta nel becco un’aringa che ancora dimenava la coda, e gettò la testolina all’indietro per ingoiare il pesciolino. Un’onda più alta delle altre si schiantò sullo scafo dell’incrociatore, gettò i suoi spruzzi all’aria, e bagnò anche Puffin. La pulcinella scosse la testolina, arruffò il piumaggio lungo il dorso, tenne le ali socchiuse, ed emise uno stridio per chiamare Islanda.

Islanda sollevò la fronte, accennò un minuscolo sorriso rivolto a Puffin. Sfilò una mano dall’intreccio delle braccia e gli passò una carezza in mezzo alle ali, girò la mano e lasciò che Puffin si strofinasse con il muso contro le sue nocche. Sospirò, facendosi consolare dalla sua presenza che ora profumava ancora più di mare, di casa. Cos’altro devo aspettarmi da questa missione?

Dei passi ruppero il silenzio attraversato solo dagli sbuffi di vento e dagli scrosci del mare, e lo raggiunsero alle sue spalle. “Brutte notizie.” Inghilterra gli camminò affianco, dal lato opposto rispetto a Mister Puffin, si affacciò al panorama dello stretto di mare che stavano pattugliando, e si lasciò anche lui carezzare il viso dall’aria fredda, tingendosi gli occhi dello stesso grigio delle nuvole. “Le condizioni meteo sono peggiorate anche in Norvegia,” disse. “Questa mattina non siamo riusciti a replicare l’attacco e abbiamo dovuto far tornare indietro gli stormi di bombardieri.”

Islanda sussultò, sentendo sbocciare una minuscola fiammella di speranza in fondo al petto. Non sono riusciti a... “E il primo attacco?” gli chiese, voltandosi verso di lui. “Quello di ieri sera?”

Inghilterra corrugò una smorfia amareggiata, aprì e strizzò i pugni che teneva rintanati in fondo alle tasche della giacca, e scosse il capo. “Non abbiamo colpito nulla,” rispose. Il tono più grave e fioco non riuscì a contenere una punta di disapprovazione.

Islanda strinse i pugni a sua volta, socchiuse un occhio squadrando Inghilterra con un’espressione ancora cauta e distaccata, mentre quella fiammella di speranza attorno al cuore si faceva sempre più debole e fredda. “N... nel senso che...” Che non sono riusciti a colpire la costa nemmeno ieri sera?

“Che le due navi c’erano,” lo anticipò Inghilterra. “Le abbiamo avvistate, le hanno fotografate quando erano attraccate al porto, ma al momento dell’attacco non c’erano più, o semplicemente i piloti non sono riusciti a individuarle a causa del buio.” Si strinse nelle spalle e sospirò, soffiando una nube di fiato bianco. “Abbiamo colpito Bergen a vuoto.” Il vento gli passò attraverso e fece dondolare le punte della frangia davanti agli occhi rabbuiati.

Islanda ingoiò un ansito, e una fredda botta di delusione gli centrò la bocca dello stomaco. Allora il porto di Bergen è comunque stato colpito. I pugni che aveva stretto contro i fianchi tremarono, una scossa di rabbia gli percorse le braccia e gli contrasse il battito del cuore, fece sorgere un sapore amaro che andò a invadere la bocca già inacidita dalla frustrazione. E tutto questo per niente, dato che il convoglio tedesco aveva già lasciato il fiordo. “E dove possono essere andati?” Mister Puffin volò via dalla balaustra, si aggrappò alla spallina della giacca di Islanda, sfiorandogli il viso con un’ala, e tese il muso verso il cielo, come stesse tastando l’aria con il becco.

Inghilterra tenne gli occhi fissi verso il mare e ridacchiò. “Questo è il vero punto della questione.” Si girò a fronteggiare Islanda, e si appoggiò con l’anca sulla balaustra. Sfilò le mani dalle tasche, annodò le braccia al petto e tamburellò le dita. “Sono trascorse ventiquattrore dall’ultimo avvistamento accertato e documentato, e abbiamo calcolato che ormai potrebbero essere già a seicento miglia di distanza da Bergen. Il problema è: dove? Potrebbero aver addirittura deviato la rotta solo per confonderci.” I suoi occhi si fecero più sottili, tornarono freddi e calcolatori come quando erano intenti a studiare una carta nautica. “E ogni minuto che passa sono miglia preziose che loro percorrono lontano da noi, facendosi sempre più irraggiungibili.”

Islanda sollevò l’estremità di un sopracciglio, continuando a guardarlo con freddezza. “Quindi...” Sulla sua spalla, Mister Puffin sbatté due violenti colpi d’ala, come volesse alzarsi in volo, ma le sue zampe rimasero aggrappate alla giacca del padrone. La risacca d’aria soffiò in faccia a Islanda, lo costrinse a girare il viso, a raccogliere il corpicino di Puffin fra le mani e a stringerselo al petto. “Dici che ci sia davvero Prussia dietro a tutto questo?”

Inghilterra annuì. “Ormai non ho quasi più dubbi, direi.”

Islanda posò una mano sulla testolina di Puffin, lo tenne riparato da una zaffata di vento che sbatté contro l’incrociatore. “E secondo te quale sarà il suo obiettivo, a questo punto?” chiese a Inghilterra. “Ieri...” Puffin aprì le ali sotto le sue braccia, si dimenò a destra e a sinistra, sgusciando fuori dall’abbraccio, e Islanda tornò a porgergli la spalla per farlo salire. “Ieri mi hai detto che avresti capito la decisione di Prussia di lasciare Creta e di affrontare la battaglia qua nell’Atlantico da solo, perché è quello che avresti fatto anche tu.” Lasciò che Puffin si appollaiasse sulla sua spalla, e tornò con le braccia annodate al petto. “Allora dovresti intuire anche quali saranno le sue prossime mosse, no?”

Inghilterra abbassò le palpebre, arricciò un angolo della bocca, e rimuginò. “Uhm.” Se io fossi in Prussia. “Se io fossi in Prussia,” ripeté ad alta voce, “proseguirei semplicemente per la mia rotta.” Si aggrappò alla balaustra con entrambe le mani, il vento gli scosse i capelli, e gli fece restringere le palpebre. “Se il mio obiettivo fosse davvero una sortita nell’Atlantico, continuerei a navigare senza fermarmi, e mi assicurerei di raggiungere la mia meta il prima possibile.” Schiacciò i pugni, intensificò il buio che regnava nel suo sguardo. “Ecco perché secondo me è ancora qui che lo troveremo, ed è per questo che il Norfolk e il Suffolk continueranno a pattugliare le acque di questo stretto. Ora ho mandato degli altri convogli a rifornirsi di nafta, e ho anche dato l’avviso a Scapa Flow di far uscire lo Hood e la Prince of Wales dal porto.” Una carezza del vento gli avvolse il viso e richiamò il suo sguardo verso il cielo, verso la nebbia che si stava addensando attorno al sole pallido e opaco. Inghilterra dovette portarsi una mano davanti alla fronte. “In ogni caso c’è troppa nebbia. Anche se Prussia volesse tenere monitorata la base, non vedrebbe a un palmo dal suo naso, non riuscirebbe a scattare nemmeno una fotografia, e non si accorgerebbe che le mie navi sono sparite dalle Orcadi.”

“Ma la nebbia è un problema anche per noi,” ribatté Islanda. “È vero che ci tiene nascosti, ma...”

“Ma per noi sarà più difficile stanare il nemico,” annuì Inghilterra, anticipando le sue parole, “nonostante i radar più potenti a nostro favore.” Il vento attorno a lui soffiò con più intensità, lo costrinse a strofinarsi una mano fra i capelli per rimetterli in ordine. Inghilterra serrò i denti e contenne un grugnito di rabbia che gli era ribollito dallo stomaco. “Merda,” gorgogliò. “Io ho dannatamente bisogno di sapere dove c’è stato l’ultimo ancoraggio di quella dannata corazzata. Tutto quello che sappiamo è che sia lei che l’incrociatore hanno abbandonato Bergen, ma non basta. Se solo,” inspirò per raffreddare il fuoco che gli ardeva dentro, “se solo potessi entrare in possesso anche di una piccola informazione. Una piccola.”

Islanda guardò Inghilterra scrutando quei suoi occhi ardenti di frustrazione e infossati nelle palpebre scavate dalla stanchezza, rese più nere dal sonno e arrossate dal freddo. Rilassò la tensione delle braccia e dei pugni stretti, comprese la sua frustrazione, e guardò oltre. “Cosa...” Socchiuse le palpebre e gli rivolse uno sguardo sempre grigio, ma più mite. “Cosa faremo se dovessero davvero arrivare qua?”

Inghilterra sbuffò una smorfia divertita e guardò verso l’albero maestro dell’incrociatore. “Combattere con il Norfolk o il Suffolk è fuori discussione, te l’avevo già detto. Se il convoglio tedesco dovesse arrivare...” Staccò le mani dalla balaustra e mostrò i palmi al cielo. “Ci nasconderemo in attesa che arrivino lo Hood e la Prince of Wales. E poi staremo a vedere.”

Islanda fece roteare lo sguardo, soffiò uno sbuffo di disapprovazione. “Confortante.” Abbassò la spalla e fece mettere Mister Puffin sulla sbarra della balaustra. La pulcinella di mare zampettò lontano da lui, tornò ad aprire le ali, a raccogliere un’ondata di vento marino, sbatté tre volte le penne, e sporse di nuovo il muso per guardare lontano, verso le coste di ghiaccio, a tastare quell’aria selvaggia.

Inghilterra passò affianco a Islanda, scosse la testa. “Fidati di me.” Però un brivido gli si piantò nelle vertebre della spina dorsale, come un chiodo conficcato nel midollo, e quella scossa di disagio risalì la schiena pungendolo alla base del collo. “Ho la sensazione che non manchi molto prima che anche Prussia si faccia vivo.” Aprì e strizzò i pugni, sentendo sottili cariche elettriche bruciargli e scoppiettargli fra le dita. “Ho tutto il sangue che mi ribolle all’idea di potergli di nuovo mettere le mani addosso, soprattutto dopo quello che lui e Germania hanno fatto in Grecia.” Guardò lontano, oltre il ponte del suo incrociatore, oltre i ghiacci della Groenlandia, oltre le acque dello Stretto di Danimarca, e i suoi occhi si inferocirono come se avesse avuto Prussia lì davanti. “E questa volta non me lo lascerò sfuggire.”

Islanda lo guardò di sbieco, provò anche lui un brivido, ma lasciò correre.

Inghilterra raddrizzò le spalle, s’impettì in una posa solenne, e fece schioccare sul ponte passi secchi e cadenzati. Chiamò Islanda con una mano. “Trasferiamoci sul Suffolk e teniamo la guardia da lì.”

Islanda scosse il capo, accelerò la camminata, e gli arrivò affianco. “Perché dal Suffolk?” Distese il braccio reclinando leggermente il polso, e Mister Puffin ci volò sopra, tornando ad aggrapparsi alla sua giacca.

“Perché ha un radar più potente che opera a trecentosessanta gradi,” rispose Inghilterra, “mentre il Norfolk ha un radar fisso che capta solo i segnali a destra e a sinistra della prua. Manteniamo una distanza di quindici miglia fra i nostri due incrociatori e teniamoci pronti a ricevere lo Hood e la Prince of Wales.”

Islanda tornò a mettere Puffin sulla sua spalla – continuava a dimenarsi – e annuì con sguardo di nuovo indeciso e vacillante. “O-okay. Ma io cosa farò? Mister Puffin spostò il peso da una zampa all’altra, chiuse il becco su una ciocca di capelli di Islanda e gliela tirò due volte. Gli mollò i capelli, piegò il capo e gli spinse più volte la testolina contro la guancia. Islanda non ci badò e si guardò le mani aperte. Le chiuse e le tornò ad aprire. Mani piccole e sottili che sbucavano dall’orlo troppo largo della manica nera rifinita d’oro. Mani che già gli facevano male per tutto il peso di cui si sarebbero caricate. È vero che Inghilterra mi ha promesso di proteggermi, ma lui rimane pur sempre una nazione nata per la guerra, e... Deglutì, ingoiando un nodo di paura. E se si lasciasse prendere troppo dalla battaglia e decidesse davvero di utilizzarmi come un’arma? Come un’esca? Chiuse i pugni, li accostò al petto, proteggendosi, e sentì il viso diventare più freddo, il cuore accelerare, gonfiarsi di ansia, e lo stomaco torcersi in un groppo di timore che gli formicolò fra le pareti della pancia. Cosa devo fare? Come potrò mai servirgli in una battaglia contro un mostro come Prussia? Rabbrividì, aggredito da una scossa calda e pungente che gli riempì la testa di ansia. Come potrei mai sopravvivere?

Puffin emise un gorgoglio basso che vibrò attraverso il piumaggio bianco del suo pancino, tornò a levare il becco al cielo, distese le ali, diede due colpi all’aria, e i suoi occhietti luccicarono, riflessero le scintille di ghiaccio disciolte in quella nebbia grigia e brillante come ferro. Il suo corpo ebbe un fremito che si trasmise anche alla spalla di Islanda.

Islanda esitò, percepì quel tremore entrargli nelle ossa. “Ehi.” Corrugò un sopracciglio. “Che hai, Puffin?” Sollevò una mano e gli passò una carezza lungo il piumaggio. Lo sentì di nuovo tremare, e le sue zampe strinsero di più contro la stoffa della spallina, e un brivido gli gonfiò le piume dietro la nuca. “È da questa mattina che non fai altro che agitarti. Sei nervoso?”

Mister Puffin diede una scrollata alle ali, si sporse in avanti, si sbilanciò, e tese di nuovo il muso verso gli sbuffi d’aria che scendevano dalle nuvole. Gorgogliò un verso stridente, basso e trascinato come un lamento.

Islanda gli portò una nocca sotto il becco, gli passò una carezza anche lungo il collo, lungo la curva del petto. “Che c’è, mh?” Distese il braccio, fece scendere Puffin all’altezza del gomito, e lo tirò su, esponendolo alle spire di vento. “Vai,” gli fece. “Va’ a darti una sgranchita.” Gli diede uno slancio.

Mister Puffin spalancò le ali e spiccò il volo. Si fece raccogliere da una corrente d’aria, reclinò un’ala per compiere una virata attorno a un traliccio del Norfolk, sbatté di nuovo le ali, e risalì il cielo facendosi circondare dall’aria fredda che gli scuoteva il piumaggio. Sparì dentro la nebbia, si immerse nello strato di nuvole che tappavano il sole, e volò attraverso lo Stretto di Danimarca.

 

♦♦♦

 

23 maggio 1941,

Mar Glaciale Artico, Stretto di Danimarca,

Bordo della Corazzata Bismarck

 

Il sole del mattino fendeva l’aria di ghiaccio che si era condensata nello Stretto, trafiggeva il suo silenzio e la sua pace come una profonda e splendente lama di luce. La neve che striava le coste dell’Islanda, già maculate di un acceso e vivace verde primaverile, era zucchero cristallino che scintillava come una sbriciolata di diamanti. Un fitto nastro di nebbia ne avvolgeva le coste, come una spennellata di fumo, e galleggiava sospeso sulle coste senza toccarle, senza raggiungere le cime delle montagne, senza riflettersi nella distesa d’acqua dentro la quale si specchiavano le punte aguzze e frastagliate delle coste islandesi. C’era un odore polveroso e umido di nebbia. Un odore di ghiaccio che spaccava i polmoni e che bruciava attraverso le narici e la gola come una sorsata di scaglie di vetro. Alle strida del ghiaccio che si frantumava sotto il passaggio della corazzata si univano i brontolii lontani, lunghi e ululanti del vento che soffiava fra le montagne islandesi, trascinando con sé spolverate di neve secca che luccicavano come la più fresca brina del mattino.

Sopra la nebbia, il cielo era smalto blu, così sottile e splendente da sembrare anch’esso rivestito da una lastra di ghiaccio cristallino. Un silenzio denso come quel ghiaccio regnava nello Stretto di Danimarca, interrotto solo dai soffi delle turbine della corazzata che scaricavano il loro fumo dalla ciminiera, e dalle vibrazioni che si levavano quando la Bismarck squagliava le incrostazioni scroscianti delle onde. In lontananza, all’altezza delle coste bianche e verdi, il ghiaccio scricchiolava, strideva come un’unghiata sul vetro, e si scrostava dalle cime delle montagne islandesi producendo un suono cristallino, simile al trillo di tante campanelle d’argento. La neve rotolava lungo le pendici della banchisa come farina, e andava a gonfiare lo strato di nebbia che spumeggiava sotto la laccata di cielo azzurro e terso, senza nemmeno uno sbuffo di nuvola.

Prussia si tolse la mano dalla fronte ma dovette tenere gli occhi ristretti per resistere alle coltellate di luce che scendevano dal cielo, schiantandosi contro il ghiaccio e riflettendosi contro il suo viso già arrossato dal freddo. Soffiò una bolla di condensa, il fumo si sciolse creando uno strato di vapore davanti al suo viso, e guadagnò un altro profondo e pesante respiro che gli stritolò i polmoni. Assorbì il sapore di quel mare, di quelle terre e di quei ghiacci. Un sapore aspro e gelato che gli graffiò la lingua, dandogli l’impressione di aver masticato ferro gelato. Gli occhi rossi e lucidi, rapiti da quella luce cristallina che rendeva il cielo così azzurro e l’acqua così brillante, si riempirono di sfumature più intense, come perle di sangue sciolte sulla neve.

Prussia si tolse da davanti la balaustra, attraversò la punta della prua, passando oltre l’ombra della bandiera tedesca che dava qualche sventolata, scossa da colpi di vento soffiati contro la corazzata, e si sporse dall’altro lato, affacciandosi alla sponda che dava sulla banchisa della Groenlandia.

La luce del mattino, fresca e limpida come acqua appena sciolta dalla sorgente e tagliente come una lama d’acciaio, scivolava sulle coste deserte della Groenlandia che si disfavano sotto le carezze del mare. Il riverbero batteva sulle montagne di ghiaccio della banchisa, laccava intense sfumature rosa lungo la loro superficie, fra le rientranze così bianche da accecare, e sulle punte aguzze che sovrastavano la nebbia fino a toccare il cielo smaltato di blu. Si rifletteva sulla scia di mare che scorreva pulita e silenziosa fra le due coste dello stretto.

Prussia rimase a bocca aperta. Soffiò un altro alito di condensa bianca e soda, e nel suo sguardo congelato dalla luce e dai riflessi di ghiaccio splendette tutta la meraviglia sbocciata in fondo al suo cuore, così calda e intensa da gonfiargli il petto e da tingergli le guance di rosso. “Che spettacolo.” Gilbird sollevò il musetto dal nido che si era creato in mezzo ai capelli del padrone, per tenersi al caldo, e sporse anche lui gli occhietti verso il paesaggio di ghiaccio che si stendeva sulle sponde dello stretto. Diede una scrollata alle piume, il suo corpicino si fece più gonfio, e tornò ad appollaiarsi in mezzo alle ciocche bianche di Prussia, al riparo dalle soffiate di vento che scivolavano sul ponte della Bismarck.

Danimarca camminò alle spalle di Prussia, strinse le braccia al petto anche se non sentiva freddo, e fronteggiò la distesa di ghiaccio rosa e di cielo blu con occhi fieri, luminosi come il cielo che splendeva sopra lo strato di nebbia. “Paesaggi così non li avete in Germania, eh?” Le sue parole si condensarono in sbuffi bianchi che si sciolsero all’aria componendo riccioli simili a batuffoli di cotone.

Prussia fece roteare lo sguardo e nascose un mezzo ghigno sotto il bavero della giacca. Oh, non ti preoccupare di questo, pensò. Prima o poi, anche tutte queste terre saranno nostre. “Ciurma.” Si girò verso Danimarca e Norvegia, divaricò leggermente le gambe piantando i piedi sul ponte di coperta, giunse le mani dietro la schiena e allargò le spalle spingendo il petto all’infuori. La sua sagoma apparve larga e imponente, coronata dalla luce cristallina del sole che batteva sul ghiaccio, ma era resa più ridicola da Gilbird che se ne stava rannicchiato fra i suoi capelli come un gomitolo giallo limone. “Vi comunico che siamo ufficialmente entrati nella zona rossa del nostro percorso di navigazione. Da ora in poi...” Prussia aggrottò un sopracciglio scoccando un’occhiata d’intesa. “Le cose potrebbero farsi un po’ più complicate e pericolose, almeno fino a che non entreremo nelle acque dell’Atlantico.”

Danimarca e Norvegia si fecero a loro volta più tesi, si guardarono sottecchi e non aprirono bocca. Dalle loro labbra non uscì nemmeno un soffio di fiato.

Prussia flesse il capo e indicò un punto del paesaggio dietro la sua spalla. “Il nemico ci ha già avvistati a Bergen, non è riuscito a prenderci, lo abbiamo seminato, ma è molto probabile che ci stia ancora braccando. E se dovesse trovarci in queste acque, preparatevi ad affrontarne le conseguenze.” Schiacciò le mani intrecciate dietro la schiena, la condensa soffiata dalle sue labbra scivolò via, attraversò il suo sguardo fiammeggiante, e lui sentì il flusso del sangue bruciargli sul viso e nel petto. “Perché io non ho intenzione di farmi più sbarrare la strada, da adesso in poi.”

Danimarca deglutì. I suoi occhi bagnati da sole e ghiaccio apparvero ancora più azzurri e freddi, luccicarono di tensione, come saette blu. “Come pensi di fare se...” Brividi di paura e di eccitazione gli scossero i muscoli. “Se dovessimo imbatterci in qualche convoglio britannico?”

Prussia sbuffò, sollevò la punta del naso distendendo un sorriso gonfio di presunzione, e si premette la mano sul petto. “Attaccare battaglia, mi sembra ovvio.”

Danimarca lo squadrò con scetticismo. “Mi sembra un po’ azzardato.”

Norvegia sollevò un sopracciglio e tenne l’espressione piatta, gli occhi nebbiosi e scuri anche sotto quella luce che spaccava il ghiaccio. Stai zitto, gli disse mentalmente. Lo faresti anche tu, se dipendesse da te.

“Non è per niente azzardato,” lo rassicurò Prussia. “Perché ora sono sicuro che non è Inghilterra a gestire la difesa e che lui è davvero rimasto a Creta per proteggere l’isola.”

Danimarca corrugò la fronte, si rimboccò il bavero della giacca tirandolo fin sotto le labbra, e scrutò Prussia con sguardo più scuro e attento, ancora pungente come il tocco del ghiaccio. “Come fai a dirlo?”

Prussia spostò di nuovo lo sguardo verso i riflessi che la banchisa della Groenlandia stendeva lungo la superficie del mare increspato dalle onde sollevate dal moto della Bismarck. Soffiò un sospiro bianco, si spostò facendo scivolare la sua camminata fra Danimarca e Norvegia, proseguì lungo il perimetro del ponte di coperta, e sollevò una mano per passare un indice in mezzo al piumaggio di Gilbird. “Dopo l’incursione al porto di ieri,” disse con voce più grave, “ovviamente mi aspettavo altri movimenti da parte degli inglesi.” Abbassò la mano, tornò a stringerla dietro la schiena, e scrollò le spalle. “È ovvio che ci hanno scoperti, ed è ovvio che non gli andrà giù sia il fatto che abbiano mancato il bersaglio e sia il fatto che ce ne stiamo per andare a scorrazzare nell’Atlantico. Ma in che modo potrebbero continuare a ostacolarci? mi sono chiesto. Facile, poi ho pensato, sbarrandoci la strada in mare.” Prussia aspettò di udire anche i passi degli altri due seguirlo, tenne gli occhi rivolti al mare, alle cime frastagliate delle montagne di ghiaccio che si schiantavano contro il cielo, e lasciò che un alito di aria dall’odore ferroso gli entrasse dentro, scaricandogli una scossa di brividi fino al midollo. “È da quando siamo partiti che tengo Scapa Flow monitorata. Se le navi dovranno partire da qualche parte, partiranno da là.” Fece scivolare gli occhi lungo il nastro di nebbia che copriva parte della banchisa, e sollevò un sopracciglio in un’espressione più cauta e meditativa. “C’è un sacco di nebbia, è vero. I sorvoli aerei si stanno rivelando più complicati del previsto, e le fotografie sono imprecise.” Si strinse nelle spalle, rasserenò il timbro di voce reso più aspro dal gelo. “Ma questa mattina ho fatto ripetere i pattugliamenti e...” Le sue labbra rimasero socchiuse, senza terminare la frase. Gli occhi scarlatti si spostarono verso l’alto, verso il cielo terso da cui proveniva la luce così chiara e gelida del sole artico.

Danimarca sollevò l’estremità di un sopracciglio, flesse il capo di lato scoccando a Prussia uno sguardo interrogativo, e gli fece il verso. “E?”

Prussia sospirò a lungo, socchiuse le palpebre e usò un tono sdrammatizzante. “Ci sono ancora quattro navi ferme alla base.” Se le foto possono davvero considerarsi affidabili con tutta quella nebbia. “Quindi vuol dire che gli inglesi non stanno prendendo provvedimenti.”

Danimarca scosse il capo, ancora poco convinto, e raggiunse Prussia al suo fianco. “Ma cosa c’entrerebbe con Inghilterra? Scapa Flow sa coordinarsi anche senza di lui.”

“Ma se Inghilterra fosse davvero qui,” gli spiegò Prussia, “e se fosse stato lui a ordinare il bombardamento del Porto di Bergen, allora non si sarebbe fatto scrupoli, avrebbe continuato quello che ha cominciato con la stessa ferocia, inseguendoci fino in capo al mondo.”

“Magari anche lui ha pensato che tu avresti tenuto d’occhio Scapa Flow e non ha mosso apposta le navi per non farti insospettire,” ribatté Danimarca.

Norvegia, alle loro spalle, buttò lo sguardo verso il mare, verso il nastro di nebbia sospesa davanti al ghiacciaio, e anche i suoi occhi si strinsero in un’espressione più tesa. Oppure è già qua che ci aspetta, a guardia dello stretto.

“Forse.” Prussia voltò una guancia per fronteggiare Danimarca e gli rispose lanciandogli un’occhiata d’intesa. “Ma non ci resta altro da fare che aspettare, no?”

Danimarca fece schioccare la lingua in una smorfia di stizza. Corse davanti a Prussia, superandolo, e tirò su il mento per assumere una posa più autorevole. “Secondo me non saremmo dovuti venire qua subito, non dopo quell’attacco aereo.” Rivolse un indice verso il basso. “Avremmo dovuto fermarci, magari accostarci a una nave cisterna e rimanere fermi un paio di giorni, in modo che gli inglesi potessero abbassare la guardia e rinunciare a inseguirci.”

Prussia sbuffò dalle narici gonfiando un’espressione altrettanto autorevole e inorgoglita, e si lisciò la spallina della giacca. “Io non ho paura degli inglesi,” sbottò. “Non ho paura di nessuno.” Sollevò un piede e batté due volte la punta a terra. “E nemmeno questa corazzata ce l’ha. È inutile che provino a fermarci, non ci riuscirebbero mai.” Guardò sia Danimarca che Norvegia, e i suoi occhi tornarono affilati come lame di sangue. “Altre lamentele?”

Norvegia si tenne chiuso nelle spalle, lo sguardo distante, un po’ assente, e scosse il capo. Danimarca soffiò uno sbuffo esasperato e fece roteare lo sguardo al cielo. “No,” sbiascicò.

Prussia distese un sorriso compiaciuto. “Ottimo.” Si sporse verso il mare, finendo investito da vento e goccioline di acqua salata, e Gilbird tornò ad arruffare le piume, a chiudere gli occhietti e a nascondere il musetto fra i capelli del padrone. “Ora il piano è questo,” spiegò Prussia. “Navigheremo esattamente al centro dello stretto, perché Inghilterra si è preoccupato di piazzare file di mine lungo le coste della Groenlandia, e se ci avvicinassimo troppo alla banchisa rischieremmo di saltare in aria.”

Danimarca tornò a camminargli affianco e parlò con tono più disteso. “Pensavo che il nostro obiettivo fosse nasconderci nella nebbia, e le nebbie si addensano proprio sulle coste.” Corrugò un sopracciglio. “Sarà difficile con questo sole rimanere camuffati.”

Prussia scrollò le spalle. “È un rischio che dobbiamo correre.” Un alito di vento che odorava di ghiaccio e fumo gli solleticò la punta del naso, accese i suoi occhi di una luce furba, aguzzò il suo mezzo sorriso da squalo. “Siamo molto vicini a Islanda, adesso, no?”

Un guizzo di sorpresa colse sia Danimarca che Norvegia. Entrambi rimasero in silenzio, smettendo di respirare, e fissarono Prussia.

Prussia rivolse loro una delle sue occhiate che portavano solo guai. “Se riuscissimo davvero a sconfiggere Inghilterra in queste acque e a sottrargli il territorio,” ammiccò, “potreste rivederlo prima di quanto credete.” Il vento raccolse il suo presagio, lo fece ululare attraverso le sponde dello stretto, e lo sollevò fino alle nebbie che stavano tornando ad addensarsi come un tappeto di cotone grigio.

 

♦♦♦

 

Mister Puffin distese le ali contro il cielo. Le penne corvine – lisce e dritte come lame di carbone – attraversarono il soffio del vento, tagliandolo in sbuffi d’aria gelida che gli scossero il piumaggio lungo tutto il corpo stiracchiato. Perline di condensa, disciolte dalle nuvole e dalla nebbia che stava attraversando, si distribuirono sulle sue ali e sul suo musetto chiazzato di bianco, costringendolo a restringere gli occhietti per resistere alle punture di ghiaccio.

La corrente d’aria si abbassò, la risacca risucchiò Mister Puffin e lo fece scivolare ad ali distese verso lo strato più basso di nuvole. Puffin reclinò le ali per assecondare la spinta dell’aria. Il fischio del vento aumentò facendo vibrare le penne e creando un attrito contro le sue zampe raccolte sul pancino, e lo fece planare verso la superficie del mare, bucando lo strato di nebbia grigia.

Mister Puffin uscì dalle nuvole, e lo colsero una luce più tiepida, un’aria più secca e un vento più morbido. Scrollò la testolina per disfarsi delle gocce di condensa, sbatacchiò le palpebre, rimise a fuoco la vista, e sbatté due volte le ali per assestare l’equilibrio del volo. Sotto di lui, la distesa del Mar Glaciale Artico si frastagliava di increspature bianche e spumeggianti, onde parallele che erano come graffi nel ferro da cui provenivano gli echi degli scrosci trascinati dagli ululati dell’aria.

Mister Puffin piegò l’ala destra, spinse il suo corpicino verso la stessa direzione, reclinandosi, e imboccò una corrente più rapida che fischiò contro il suo muso teso. Scese ancora di quota e si lasciò guidare dal battito rapido del suo cuoricino che accelerava sempre di più man mano che si avvicinava allo stretto, come attirato dalle oscillazioni dell’acqua scossa. Puffin tese il becco verso il basso, guardò a destra e a sinistra, nei punti dove dei banchi di nebbia isolati si addensavano, rannicchiò di più le zampe contro le piume bianche della pancia, socchiuse le ali dando loro una forma di freccia, e schizzò verso il mare. Lo strato di nuvole più basso si divise, si sciolse sotto il passaggio del suo volo, e scoprì un’altra porzione dello stretto di mare attraversata da una scia bianca. La scia bianca conduceva alla sagoma di una corazzata in navigazione.

Mister Puffin spalancò le ali, raccolse la risacca d’aria, spinse le zampe in avanti, e frenò di colpo il volo. Sbatté due volte le ali per rimanere in equilibrio, perse due piume corvine, e sgranò gli occhietti lucidi come petrolio in direzione della nave che stava scivolando sull’acqua. Una nave più grande e massiccia rispetto all’incrociatore da cui era partito. Il suo cuoricino che batteva a ritmo del vento, seguendo il suo soffio e le vibrazioni dell’aria nordica, accelerò ancora facendogli sentire un forte formicolio di agitazione attraverso le zampe raccolte al petto.

Mister Puffin girò il muso, diede un altro forte battito d’ali che lo spinse controvento, e volò più in basso, forando un altro strato di nuvole. Un’altra scia comparve nella distesa di mare, navigando parallela a quella tracciata dalla corazzata. Una sagoma lunga e sottile luccicò emanando un abbaglio d’argento, mise in risalto il profilo dell’incrociatore che stava seguendo la rotta della prima nave.

Mister Puffin sbatté più velocemente le ali, tenne gli occhi sgranati e fissi sulla corazzata, guardò di nuovo anche l’incrociatore, e il formicolio che gli bruciava nel petto e sulle zampe aumentò fino a fargli sentire il fuoco ardere sotto lo strato di piumaggio. Scosse la testolina, diede due forti colpi d’ala che spaccarono l’aria fredda e umida, e si girò su se stesso, imboccando una corrente opposta che gli fece risalire le nuvole. Puffin accelerò il battito d’ali, si spinse contro il soffio del vento che tornò a imperlargli le piume di goccioline d’acqua, e bucò di nuovo la nebbia. Tornò indietro, e volò verso i due incrociatori inglesi di pattuglia.

 

♦♦♦

 

23 maggio 1941,

Mar Glaciale Artico, Stretto di Danimarca,

Bordo dell’incrociatore pesante HMS Suffolk

 

Una macchia nera sgusciò fuori dal velo di nuvole, divenne più larga, tornò a stringersi, salendo e scendendo di quota come una foglia appena caduta da un albero, e discese il cielo lasciandosi trasportare da un ululato di vento che sbatté anche in faccia a Islanda.

Islanda sollevò il capo, catturato da quel movimento, da quella macchia nera che gli stava volando incontro, ma tenne le braccia incrociate sulla balaustra del ponte, senza raddrizzare le spalle. Un’ennesima leccata di vento gli bruciò contro il viso, gli scompigliò i capelli sulla fronte e davanti agli occhi, e lo costrinse a restringere le palpebre. Islanda si portò una mano davanti allo sguardo, si riparò dai raggi metallici del sole nordico che rimbalzavano sui ghiacci e sull’acqua grigia, e aguzzò la vista contro la macchia nera sempre più vicina. Due ali sbattevano rapide contro la spinta del vento, un muso bianco era teso verso il basso, due pungenti occhietti neri scavavano nella nebbiolina che galleggiava nello stretto e premevano contro lo sguardo di Islanda.

Islanda corrugò un sopracciglio in un’espressione di stupore. Ma quello è Puffin? Negli occhietti scuri e lucenti della pulcinella di mare però brillava una luce diversa, più ansiosa, irriconoscibile rispetto a quella aggressiva e scontrosa che mostrava sempre, e le ali sbattevano frenetiche, affettando l’aria come a volerla divorare, invece che lasciandosi scivolare come sul ghiaccio. Anche l’espressione di Islanda si fece più cupa, il suo cuore si chiuse in un guizzo di timore, la punta del suo naso tastò l’odore amaro e formicolante di un cattivo presagio. Perché è già tornato?

Islanda si staccò dalla balaustra compiendo un paio di passi all’indietro, sollevò il braccio esponendo il polso all’aria, tenendo il pugno chiuso, e lo chiamò ad alta voce. “Puffin!”

Mister Puffin spalancò il becco e cacciò uno stridio che finì soffiato via dall’aria, distese le ali per raccogliere la corrente, spinse le zampe in avanti tirando il corpo all’indietro, e aprì gli artigli per appendersi al braccio di Islanda. Atterrò sul suo avambraccio, si aggrappò con le zampe palmate alla stoffa della manica, sbatté tre volte le ali per rimanere in equilibrio, e ricominciò a starnazzare contro il padrone. Il corpo gonfio e tremante, il piumaggio inumidito di condensa, e gli occhietti neri fiammeggianti come braci.

Islanda sussultò, colto da un pugno di paura alla bocca dello stomaco che gli fece ingoiare il respiro. “C-cosa?” gli chiese. “Che ti prende?”

Mister Puffin rispose con un altro grido. Sbatté più forte le ali perdendo due piume, sgranchì gli artigli sulla sua manica, si appese con il becco alla spallina di Islanda, e gli diede due feroci strattoni.

Islanda corrugò la fronte e si lasciò tirare in avanti. “Che c’è?” Guardò verso il cielo, verso le nuvole che si stavano addensando nuovamente davanti al sole, e un ululato di vento fischiò fra i tralicci dell’incrociatore. “Hai visto qualcosa?” domandò ancora. “Devo...”

Mister Puffin gli diede un altro strattone alla giacca, si spinse via con un violento battito d’ali, e si alzò in volo. Spalancò di nuovo il becco e stridette in faccia a Islanda, abbassò il muso, gli tornò a tirare la spallina, e alcune penne delle ali finirono per sbattergli sul viso.

Islanda strizzò gli occhi per non prendersi altre piume in faccia e si fece tirare. “E-ehi, d’accordo, d’accordo, ti seguo, ti sto seguendo.” Gli andò dietro, verso poppa, e accelerò la corsa per non perderlo di vista. Puffin si girò di nuovo, diede un’altra starnazzata, e volò al di là dei tralicci per raggiungere le postazioni delle vedette.

Islanda sbuffò, scocciato e confuso, e si tolse una piuma nera che gli era rimasta incollata alla giacca sgualcita dalle sue beccate. Ma cosa gli sarà preso? Impotente, non poté fare altro che correre dietro alla sua pulcinella.

 

.

 

Mister Puffin volò verso il quarto destro di poppa, diede un ultimo battito d’ali e planò sulla balaustra, aggrappandosi a una sporgenza che emergeva accanto alle postazioni dove avevano lasciato appesi alcuni binocoli accanto alle cime di corda. La pulcinella di mare si girò, tenne le ali larghe, diede due sventolii, e chiamò Islanda cacciando altre due strida al vento.

Islanda arrivò correndo, si rimboccò la giacca, la lisciò lungo la manica e la spallina, dove Puffin gli aveva sgualcito la stoffa mentre lo tirava, e riprese fiato soffiando spesse nubi bianche. “Sì, sì, ho capito,” si lamentò. “Ora guardo.” Si passò una mano fra i capelli, scollò alcune ciocche dalle guance arrossite e sudate, soffiò un altro sospiro che gli arrochì la gola, e si chinò a raccogliere uno dei binocoli delle vedette. Lo accostò al viso sistemandolo fra le orbite, si affacciò alla balaustra, accanto a Mister Puffin, e spinse l’indice contro la rotella per regolare l’inquadratura sfocata. “Fammi solo...” Il panorama all’interno degli ovali calibrati si spalancò sul grigio, sulle ombre più scure che si creavano negli infossamenti della nebbia galleggiante sopra le increspature del mare. Islanda girò ancora la rotella, restrinse le palpebre come se si fosse trovato a occhio nudo, e spostò l’inquadratura più a destra. Nebbia. Nebbia, nuvole e qualche scorcio di mare. Islanda sbuffò frustrato. “C’è troppa nebbia.” Strinse la mano contro la balaustra, salì sulle punte dei piedi, sporse le spalle più in avanti, e fece scivolare l’inquadratura più in alto. Restrinse ancora il campo visivo e la nebbia tornò a fuoco, le ombre si fecero nitide assieme alle increspature delle onde. “Cos’è che devo guardare?” chiese a Mister Puffin. “Se...”

Lo strato di nebbia di divise, il vapore grigio si assottigliò, finì soffiato via da una folata di vento fischiante, e svelò una sagoma scura che andò a macchiare i quadranti del binocolo. Altra nebbia scivolò davanti alla macchia, tornò a dissolversi in uno sbuffo di fumo, e la sagoma scura rimase sospesa, a galleggiare in mezzo al fumo.

Islanda sollevò un sopracciglio, arretrò con le spalle contenendo un guizzo di sorpresa, e le sue labbra si schiusero in una smorfia. Non si spaventò, fu solo stupito. “Cos’è quello?” mormorò. “Il Norfolk?” Ma no, impossibile, si disse. Il Norfolk è di prua, dovrebbe essere davanti a noi. Si sporse di nuovo, premette la pancia contro la balaustra e spinse le spalle in avanti, andando incontro al vento che sollevava le goccioline di acqua di mare fin davanti alle lenti del binocolo. Quello invece...

Come soffiate dal vento artico, come emerse dalla nebbia color piombo sempre più sottile, come rigettate dagli scrosci delle onde bianche, le parole che Inghilterra gli aveva rivolto poco prima tornarono a riempirgli la testa. “Sono trascorse ventiquattrore dall’ultimo avvistamento accertato e documentato, e abbiamo calcolato che ora potrebbero già essere a seicento miglia di distanza da Bergen”, “Se il mio obiettivo fosse davvero una sortita nell’Atlantico, continuerei a navigare senza fermarmi, e mi assicurerei di raggiungere la mia meta il prima possibile. Ecco perché secondo me è qui che lo troveremo”, “Ho la sensazione che non manchi molto prima che Prussia si faccia vivo”.

Una saetta di ghiaccio trafisse il corpo di Islanda, si arrampicò lungo la sua spina dorsale esplodendo in un freddo e improvviso senso di realizzazione che fu come un fulmine precipitato in mezzo al mare. Islanda restò a bocca aperta, smise di respirare, le sue labbra tremarono, il cuore batté un ultimo palpito contro le tempie, come una martellata, e divenne un pezzo di pietra ammassato nelle costole. Un anello di vertigini gli ronzò attorno alla testa e gli stridette nelle orecchie. “N-non,” deglutì, ma gli sembrò di ingoiare solo un pugno di sabbia, “non è possibile.” Le mani strette attorno al corpo del binocolo tremarono, cominciarono a sudare, e il cuore riprese a galoppare soffocandogli la gola con i suoi palpiti. Islanda schiacciò le dita attorno al binocolo per non farlo cadere, digrignò i denti, strisciò di un passo a destra, e si sporse fino a farsi mancare il fiato con la sbarra della balaustra premuta sul suo ventre. Girò la rotella per restringere il campo e mettere di nuovo a fuoco la macchia.

Un’altra sagoma, più piccola e sottile, lontana ma ben delineata rispetto alle nuvole di nebbia che la circondavano, sbucò dal bordo dell’ovale calibrato. Un altro crampo di paura strizzò il cuore di Islanda, lo fece diventare bianco in viso, gli fece vedere doppio. “Quelle sono...” Non sono nostre. Sono tedesche, è il convoglio tedesco, oh merda, oh merda ci hanno trovati sono qui che diavolo devo fare devo avvertire Inghilterra questi ci sparano ci ammazzano ci affondano gli incrociatori se non viriamo la rotta ci intercetteranno e sarà la fine noi...

Islanda schiuse le mani tremanti e il binocolo gli scivolò dalle dita, cadde ai suoi piedi. Giacque immobile, avvolto dalla fettuccia di stoffa che lui non aveva indossato attorno al collo. Islanda spostò un piede all’indietro e la gamba si bloccò, fulminata dalla paura che gli aveva ghiacciato i muscoli e la testa. Spostò anche l’altro piede, girò il busto, tese un braccio per darsi un primo slancio di corsa, e provò a cacciare fuori la voce dallo stomaco. Fu come gridare con un paio di mani schiacciate contro la carotide. “I-Inghilterra...” Posò il piede, la gamba si ammosciò, le ginocchia tremarono, e Islanda cadde a terra sbattendo il petto e il mento. Mister Puffin gli volò sopra, sbatté le ali più forte per rimanere sospeso sul posto, e gli starnazzò contro con occhietti di nuovo feroci e agguerriti. Islanda spinse le mani sudate sul legno del ponte, raddrizzò le braccia, spinse il peso contro i piedi, e si rialzò. Corse. Il fiato arrochito dal freddo, dall’umidità e dalla paura gli graffiò la gola, perle di sudore gelato gli gocciolarono dal viso diventato una maschera bianca. “Inghilterra...” Accelerò, attraversò l’avvallamento della diga sul ponte, e gridò un altro sussurro soffocato. “Inghilterra...” Ci hanno trovati!

 

.

 

Inghilterra tamburellò le dita sulle mappe che avevano steso su uno dei tavoli della plancia, e picchiettò le unghie sul tratto azzurro che faceva combaciare il Mar Glaciale Artico all’Oceano Atlantico, superato lo Stretto di Danimarca. Inspirò a fondo l’aria chiusa e dal retrogusto di sigaro e di tappezzeria appena lavata che si stava appesantendo, gonfiandogli un lieve senso di nausea fra le pareti dello stomaco. “Ora che abbiamo raggiunto la latitudine, possiamo rimanere costanti su una velocità di crociera stabile di diciotto nodi.” Spinse la prima delle carte al centro del tavolo, in mezzo a due tazze vuote, sporche di fondi di tè, e a un posacenere in cui giaceva un mozzicone di sigaro, in modo che anche gli altri tre ufficiali si potessero sporgere a vedere. Raccolse una matita dalla punta consumata e la fece passare sulla carta, tracciando una sottile barriera ai confini dell’Atlantico. “Viriamo a ponente, in modo da andare contro la direzione del nemico, chiaro? Dobbiamo tenerci in direzione nord-est durante tutta la navigazione, e...” Passi rapidi e pesanti corsero attraverso il corridoio fuori dalla plancia, le vibrazioni si trasmisero attraverso il pavimento e gli solleticarono l’orecchio. Inghilterra fece scivolare la coda dell’occhio sulla porta chiusa dalla sala, corrugò il sopracciglio, e scosse il capo, tornando sulle carte. “In questo modo,” riprese, “conto che il nemico si presenterà esattamente...”

La porta della plancia si spalancò, sbatté alla parete trascinandosi dietro sia il braccio di Islanda che il suo profilo appena materializzato all’entrata. “Inghilterra!” Islanda si piegò gettando le spalle in avanti, annaspò per riprendere fiato, la mano ancora aggrappata al pomello della porta tremò, e Mister Puffin gli atterrò sulla spalla dando due ultimi battiti d’ali dopo il volo. Islanda era rosso in viso, i capelli in disordine caduti davanti agli occhi sgranati, la mano bianca schiacciata contro il pomello, e il braccio libero chiuso attorno al torso, a premere contro la milza. Annaspava, le labbra secche e il bavero della giacca ribaltato attorno al collo, tutto in disordine.

Inghilterra si alzò di scatto, come punto in fondo alla schiena, e strinse la mano attorno alla matita che aveva fatto scivolare sulle mappe. “Cos’è successo?” Indurì lo sguardo ma i suoi occhi vacillarono. Un primo brivido gli scivolò nel sangue, pizzicandolo come una spina di ghiaccio nel cuore.

Islanda tirò su lo sguardo. I suoi occhi stravolti volarono sui tre ufficiali ancora seduti al tavolo, catturati dai loro sguardi penetranti e allo stesso tempo indifferenti, e tornarono ad annebbiarsi di paura e insicurezza. Islanda si strinse nelle spalle, sentendo il peso di Mister Puffin aggravarsi su di lui, e spostò lo sguardo su quello più familiare di Inghilterra. Riprese fiato, aprì e strizzò le dita sul pomello, e deglutì sentendo in bocca il sapore ferroso del vento mescolato a quello salato del sudore e dell’acqua di mare che gli era schizzata in faccia. “Due...” Inspirò a fondo, soffiò, tremò di nuovo, e il ricordo di quello che aveva visto attraverso le lenti del binocolo tornò ad apparire nella sua mente come un miraggio. Le parole che uscirono dalla sua bocca furono dure, ancora terrorizzate, ma ghiacciate come il peso che sentiva schiacciargli il cuore e le ossa. “D-due navi.”

Anche gli altri tre ufficiali si alzarono facendo stridere le sedie a terra.

Islanda compì un passo indietro, sentendosi come travolgere da un’improvvisa ondata d’acqua, e tornò a concentrarsi solo su Inghilterra.

Inghilterra impallidì, sgranò gli occhi, la mano schiacciò la matita che reggeva ancora fra le dita, e anche il suo braccio tremò. Si bagnò il palato e parlò piano, il tono incredulo. “Cosa?”

Islanda tornò a irrigidirsi, guadagnò un altro respiro più profondo, e rallentò i battiti del cuore. “Ho...” Si lasciò coprire da un rapido battito d’ali di Puffin che gli diede coraggio. Mantenne sguardo e voce fermi. “Ho avvistato due navi.”

Fra i tre ufficiali volarono occhiate incredule. Uno di loro corrugò la fronte in un’espressione sconcertata, e anche nei suoi occhi balenò un lampo di terrore.

Inghilterra non mosse un muscolo, non un fremito. Deglutì e parlò a Islanda con voce più pastosa, appesantita dal sapore amaro che gli aveva tagliato la lingua. “Dove?”

Islanda si sfilò il braccio dal torso, il braccio che stava schiacciando il dolore alla milza, e indicò un punto alle sue spalle. “A... a poppa,” rispose. “Lato destro. Angolo di centoquaranta gradi.”

Altri borbottii da parte degli ufficiali volarono attraverso le pareti della plancia. “Come a poppa?”

“Alla nostra poppa?” soffiò un altro bisbiglio. “Non è possibile.”

Inghilterra sbatté due volte le palpebre, trattenne il respiro, e scavò nella sua stessa mente. A poppa, angolo di centoquaranta gradi. “Che distanza?” domandò a Islanda, mantenendo il tono freddo.

Islanda guadagnò un altro respiro, abbassò il braccio che aveva rivolto alle sue spalle e tornò a strofinarsi il fianco. “Dodicimila e cinquecento met...” Scosse il capo, grugnì una smorfia di disappunto, e calcolò a mente. Dannati inglesi. “Tredicimilasettecento yarde. Circa. E una...” Di nuovo quel pensiero tornò a colpirlo come un pugno nello stomaco, lo nauseò facendolo tornare pallido. “Una delle due è una corazzata.”

Inghilterra gettò lo sguardo ai suoi piedi. La mano stretta alla matita schiacciò le unghie contro il palmo facendo sbiancare le nocche, e il braccio tremò di nuovo, stando incollato al fianco. A poppa, ripeté. Ci stanno raggiungendo a poppa, sono dietro di noi invece che davanti, porca puttana. Si morsicò il labbro fino a sentire il sapore del sangue, aggrottò la fronte lasciando che gli occhi si incendiassero come fiamme verdi, e ringhiò a denti stretti. “Cazzo.”

Altre occhiate titubanti e già macchiate di panico volarono fra i tre ufficiali. Uno di loro trattenne il fiato, il secondo si posò la mano davanti alle labbra, e il terzo deglutì. Spostò un piede, osò fare un passo avanti, verso Inghilterra, e spaccò il silenzio con lo scricchiolio della suola sul pavimento. “S-signore,” gli mormorò. “Cosa...”

Inghilterra sentì il pavimento dell’incrociatore vorticare sotto i suoi piedi, oscillare come durante una tempesta, e le pareti si chiazzarono di nero, riempite della nebbia che aveva iniziato a gonfiarsi nella sua testa, a ovattargli i pensieri. Le dita si schiusero, la matita scivolò dalla sua mano, piovve a terra, e cadde accanto al suo piede. Rotolò sul pavimento fermandosi contro la sua scarpa, e quel trillo legnoso fu come una speronata data al fianco. Gli occhi di Inghilterra tornarono ad accendersi, il sangue riprese a correre, e il fiato scivolò fino al petto, gli riempì i polmoni. Inghilterra scrollò il capo, pestò una prima falcata di corsa, e scagliò l’indice contro i tre ufficiali. “Timone tutto a sinistra, svelti!” gridò. “Ripariamoci nella nebbia, dobbiamo fare in modo che ci superino, dobbiamo essere noi quelli a poppa! Non devono avere nemmeno la possibilità di spararci o saremmo spacciati!”

I tre uomini si ripresero a loro vota, s’impietrirono, e risposero assieme. “Sissignore!”, “Agli ordini!”

Inghilterra raggiunse Islanda di corsa, lo acchiappò per la mano che non reggeva alla porta, e lo fece correre dietro di lui. “Tu con me, sbrigati.” Si buttarono a correre nel corridoio, Mister Puffin in volo sopra le loro teste, e i loro passi rimbalzarono contro le pareti. I loro respiri accelerarono, la voce di Inghilterra si fece ancora più dura. “Sei sicuro di averle viste?” chiese a Islanda. “Proprio sicuro? Non è che ti sei sbagliato per la nebbia? Hai forse avvistato il Norfolk per errore?”

Islanda irrigidì la mano contro quella che Inghilterra stava tenendo stretta alla sua, immusonì il volto – Ma per chi mi ha preso? – e rispose con tono altrettanto duro. “Sono sicurissimo.”

“E una è una corazzata,” puntualizzò Inghilterra.

Islanda annuì, tornando ad ammorbidirsi, a far vacillare quella luce di insicurezza nel suo sguardo. “Penso. Sì. Era...” Deglutì, gli tornò il fiatone, ed emerse di nuovo il ricordo di quella chiazza nera offuscata dalla nebbia in cui era immersa fino all’albero maestro. “Enorme.”

Inghilterra lo squadrò da sopra la spalla con occhi inquisitori. “A quasi quattordicimila yarde da qui.”

Islanda tornò ad annuire. “Sì.”

Inghilterra strinse la mano contro quella di Islanda, tornò a gettare lo sguardo davanti a sé, e finì incupito dall’ombra del corridoio che discendeva i locali dell’incrociatore. Digrignò di nuovo i denti. “Merda,” gorgogliò. “Le batterie della Bismarck hanno una portata di tiro di quasi quarantamila yarde. Se non ce ne andiamo subito ci distruggerà, a questa distanza.”

“M-ma non...” Islanda tornò a puntare l’indice verso le pareti. “Non credo che ci abbiano visti.”

“Per ora.” Svoltarono una curva, corsero giù da una rampa di scale, e Inghilterra parlò con voce già affaticata dalla corsa. “Dobbiamo manovrare fra i due campi minati disposti davanti alle banchise della tua costa e di quella della Groenlandia, e dobbiamo avvertire anche il Norfolk, dire all’equipaggio che abbiamo stabilito un contatto con il nemico, e...”

“A-aspetta.” Islanda accelerò, superò Inghilterra, e gli si piazzò davanti, bloccandolo come aveva fatto quando lo aveva persuaso a non attaccare Bergen. Lo guardò con occhi più consapevoli e profondi, senza traccia di paura. “Effettuare una manovra del genere è pericoloso, soprattutto adesso che la banchisa della Groenlandia si è ristretta con il cambio di stagione.” Raddrizzò la schiena ancora tremante e scossa dai suoi affanni, lasciò che Mister Puffin si posasse sulla sua spalla, mettendogli il viso in penombra, e gli sguardi di entrambi si fecero più bui e sottili. “Ora ci sono circa sessanta miglia scoperte dal ghiaccio fra la costa della Groenlandia e quella della mia nazione. E circa cinquanta miglia sono coperte dalle mine che tu stesso hai piazzato.” Inarcò un sopracciglio, guardò Inghilterra con scetticismo. “Sei sicuro di riuscire a effettuare una manovra simile senza saltare in aria a tua volta?”

Inghilterra ricambiò quello sguardo così intenso, fece tornare i suoi occhi accesi e aggressivi, pulsanti di vita come i battiti che gli ardevano nel petto. “Nessuno è migliore di me in mare. Manovre del genere sono come giochetti.” Tornò a superarlo, passando anche oltre l’occhiataccia di Mister Puffin, e proseguì lungo il corridoio con passo più lento e composto. Si schiarì la gola, e la sua voce tornò ferma. “Ora è semplice,” gli spiegò, sollevando un indice. “Accostiamo la banchisa verso il lato delle tue coste, prendendo la direzione nord-ovest, e ci infiliamo nel banco di nebbia per tenerci coperti.” Strinse il pugno e piegò il braccio all’indietro, come stesse tirando una corda verso di sé. “Rallentiamo, restiamo a diciotto nodi, mentre sicuramente i tedeschi andranno a ventotto, e ci lasciamo superare.” Tornò a stendere l’indice e disegnò una traiettoria invisibile in aria, visualizzando la rotta davanti ai suoi occhi. “Rimaniamo alla loro poppa e li talloniamo durante tutto il percorso, aspettando che lo Hood e la Prince of Wales ci raggiungano e gli taglino la strada.”

Islanda deglutì, tornò a provare quel familiare brivido corrergli lungo la schiena. “E noi intanto cosa facciamo?”

Inghilterra calò il braccio. “Prima di tutto, io e te ci ritrasferiamo sul Norfolk.” Uscirono sul ponte e vennero subito investiti da una folata di vento umido e ghiacciato. Inghilterra fu costretto a mettersi la mano davanti alla fronte per guardare lontano. “È più vicino ai nemici e da là potremo tenere d’occhio i tedeschi anche senza l’aiuto dei radar.”

“Ma se...” Islanda gli andò vicino, si strofinò le braccia, strizzò le dita all’altezza delle spalle, dove Mister Puffin aveva gonfiato il piumaggio per resistere all’alito ghiacciato e improvviso del vento, e batté i denti. “E se fossero loro a trovarci?” chiese a Inghilterra. “Se dovessero decidere di attaccarci e di spararci addosso prima che arrivino lo Hood e la Prince of Wales? Come faremo a difenderci? Lo hai detto anche tu che sarebbe impossibile affrontare un combattimento solo con il Norfolk e il Suffolk.”

Inghilterra scosse le spalle. Piegò un mezzo sorriso sbilenco e poco rassicurante. “In quel caso, preparati a metterti in ginocchio e a pregare.” Guardò Islanda con occhi più lucidi, brucianti di forza, intensi e aggressivi, ma macchiati da una fugace scintilla di follia. “Perché nemmeno io saprei come cavarmela in una situazione del genere.”

Inghilterra aprì una mano e la distese con il palmo verso il basso. Carezzò l’aria, come a stendere una manata di vernice, e srotolò il pannello di luce verde che riflesse il suo riverbero sul viso di entrambi. I due incrociatori inglesi lampeggiavano sulla mappa suddivisa in quadranti. Inghilterra accostò l’indice all’incrociatore che navigava a poppa, e si udì il blip! metallico che aprì il cerchio verde attorno all’imbarcazione, facendo emergere il secondo pannello.

 

 

Hai selezionato incrociatore pesante HMS Norfolk-78, classe County, sottoclasse Norfolk. Prego, selezionare un’opzione.

 

Trasferimento

Ancoraggio

Comandi Artiglieria

 

 

Inghilterra fece scivolare l’indice su ‘Trasferimento’, senza pigiare, e toccò il gomito di Islanda. Spinse l’indice, selezionò l’opzione, e un lampo di luce li inghiottì, trasferendoli sul Norfolk.

   
 
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