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Autore: Red Owl    30/11/2017    2 recensioni
Vecchia versione non più aggiornata.
Genere: Avventura, Science-fiction, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
Capitoli:
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Erding - Germanica Inferiore, 342 a.U.c., 6 Maggio

Ferma davanti alla porta di casa, Lidia seguì con lo sguardo il carro automatico che si allontanava sobbalzando in maniera irregolare lungo la strada sterrata, portando con sé i suoi genitori. E così se ne andavano, pensò, chiudendo brevemente gli occhi per cacciare indietro le lacrime che minacciavano di colarle lungo le guance. Si erano trattenuti un giorno in più del previsto, ma, alla fine, avevano deciso di lasciarla in Germanica e di tornare a Roma senza di lei. Chissà se la rivedrò mai, Roma, pensò la fanciulla, soffocando un gemito afflitto. Chissà se rivedrò mai la mamma e il papà…

Quella di non rivedere mai più la propria patria era probabilmente una paura comune alla maggior parte delle giovani spose che si trasferivano lontane da casa, ma Lidia scosse tristemente la testa, ricordando che, tra lei e tante sue coetanee nella sua stessa situazione, c’era una differenza fondamentale. Se le altre ragazze potevano sperare di tornare a Roma, se non altro per una breve vacanza, lei, scappando con Tito, si sarebbe preclusa quella possibilità. Lasciando la Germanica, infatti, sarebbe andata contro la volontà dell’Imperatore – e, indirettamente, di suo padre: era certa che, una volta fuggita, a casa sua non sarebbe più stata bene accetta. “Giuro che ti farò processare come traditrice della Patria” le aveva detto il Senatore, qualche tempo prima e, nonostante le piccole dimostrazioni di affetto degli ultimi giorni, la giovane non era ancora certa che quelle fossero semplicemente delle parole dettate dalla rabbia del momento.

Suo padre non era certo l’uomo migliore che conoscesse, tuttavia, quando il carro sparì dietro una curva della strada, la fanciulla provò un dolore quasi fisico, mentre la solitudine e lo sconforto calavano su di lei, simili a un manto vischioso e pesantissimo. Era fatta. Da quel momento in poi sarebbe stata davvero sola con se stessa: almeno fino a luglio, non avrebbe potuto fare altro che contare sulle proprie forze per sopravvivere in quel paese sconosciuto e, forse, ostile.

Inaspettatamente, una mano calò sulla sua spalla e Lidia sobbalzò, voltandosi fino a incontrare gli occhi chiari di Donna Edda. L’anziana germanica era uscita con lei per salutare – in silenzio, s’intende – i suoi genitori, ma era rimasta a qualche metro di distanza, garantendo a Lidia un minimo di riservatezza. Avvertendo forse la tristezza della fanciulla, però, la vecchia si era avvicinata, offrendole il modesto conforto della sua presenza. Commossa, Lidia le rivolse un sorriso piccolo, ma sincero. Forse non sono proprio del tutto sola, pensò, inspirando a fondo e sentendosi un po’ più sicura di sé.

Se gli eventi del giorno precedente erano un’indicazione, l’amicizia di Donna Edda le sarebbe risultata estremamente preziosa. Il suo primo giorno da donna sposata le aveva infatti chiarito una cosa: finché sarebbe rimasta a Erding, il suo peggiore nemico sarebbe stata la solitudine. Con una smorfia infastidita, Lidia ripensò al pranzo del giorno prima. Quando Gefrid e i suoi genitori erano tornati in sala da pranzo, la fanciulla era decisa a cercare di calmare gli animi e per questo aveva preso a distribuire sorrisi cordiali, ingoiando il proprio nervosismo e cercando addirittura di fare conversazione. Malgrado la prospettiva di tornare a Roma con i propri genitori fosse in un certo senso allettante, infatti, la ragazza avvertiva che il Senatore non avrebbe mai avuto il potere di andare contro gli ordini della sacerdotessa e dell’Imperatore: alimentare delle paure infondate sarebbe dunque stato inutile e, forse, anche controproducente. Durante il pranzo, Lidia aveva cercato più volte lo sguardo di Ulf, tentando di coinvolgerlo nella conversazione, ma il giovane aveva tenuto gli occhi fissi sul tavolo, trangugiando con una velocità allarmante tutto ciò che Donna Edda aveva cucinato e abbandonando il locale quasi senza aspettare che gli altri finissero a loro volta di mangiare.

Anche se comprendeva il suo desiderio di sottrarsi a quell’atmosfera pesante, Lidia aveva storto il naso davanti a quella fuga frettolosa: con quell’atteggiamento sfuggente, Ulf non faceva altro che alimentare i sospetti dei loro genitori. Ad ogni modo, quando l’uomo non era più ricomparso per tutto il pomeriggio, la fanciulla non aveva dato troppo peso alla cosa, e ne aveva invece approfittato per passare qualche ora in compagnia di sua madre, facendo del proprio meglio per mostrarsi tranquilla e allontanare così le preoccupazioni della donna. La mancanza di Ulf aveva iniziato a insospettirla solo quando, all’ora di cena, l’uomo non aveva ancora fatto ritorno: il posto vuoto a tavola attirava la sua attenzione in modo fastidioso e la fanciulla non poteva fare a meno di interrogarsi su dove fosse finito. Da amici o da qualcun altro? Si chiedeva, piantando inconsciamente le unghie nella tovaglia a quadretti. Possibile che suo marito fosse così sfacciato da andare a trovare una sua ipotetica amica proprio quando tutti gli occhi erano puntati su di lui?

Quel che era peggio, era che Lidia riusciva a leggere un’ombra di sospetto negli occhi di Donna Giulia, ma la prudenza e l’orgoglio le impedivano di esprimere ad alta voce i propri dubbi, di chiedere delucidazioni a chi, forse, ne sapeva più di lei.

Quando giunse l’ora di ritirarsi nelle sue stanze, l’umore della giovane era ormai virato verso un nero cupo: dunque sarebbe veramente stata così, la sua vita? Ulf aveva davvero intenzione di piantarla a casa e disinteressarsi completamente a lei? Quegli interrogativi non facevano altro che innervosirla ancora di più: cosa accidenti le importava di quello che faceva il germanico? Non era forse un bene che lui la evitasse il più possibile? Non era forse quello che aveva sperato? Quando, a notte fonda, Ulf era scivolato in camera, quasi di soppiatto, Lidia non aveva nemmeno sollevato la testa dal cuscino, fingendo di dormire e avvolgendosi in un silenzio offeso. All’alba, l’uomo era sparito di nuovo e non si era più palesato per tutta la mattina – il che era piuttosto maleducato da parte sua, visto che, così facendo, non aveva nemmeno salutato i genitori di Lidia.

Scuotendo la testa come per scacciare quei pensieri, la ragazza sospirò e si voltò verso Donna Edda, aspettando le sue indicazioni e chiedendosi come avrebbe potuto interagire decentemente con una donna così anziana e che, oltretutto, pareva avere una conoscenza della sua lingua piuttosto superficiale. Mi toccherà imparare il loro dialetto, si disse Lidia, arricciando le labbra, poco attratta da quella prospettiva.

Notando di avere l’attenzione della giovane, la vecchia fece un cenno nella sua direzione. «Chum» le disse. «Vieni. Prepariamo il pranzo.» Un po’ spaesata, Lidia la seguì all’interno dell’abitazione. «Ma tu abiterai qui con noi?» le chiese, sperando di non sembrare scortese.

La donna scosse il capo con un verso di diniego. «No, ti aiuto solo un po’» la informò; e la fanciulla provò un fremito di gratitudine nei suoi confronti. Nonostante le indicazioni di sua madre, infatti, non aveva ancora capito esattamente cosa ci si aspettasse da lei e il fatto di avere una guida era sicuramente un vantaggio.

Una volta giunte in cucina, la vecchia estrasse un sacco di tela spessa da un armadio a muro e lo porse a Lidia.  «Mettili a bagno» ordinò, indicando i cereali – o erano legumi? – contenuti al suo interno. Davanti allo sguardo perplesso della ragazza, la donna emise un brontolio sordo e afferrò una grossa ciotola dalla credenza, appoggiandogliela poi sotto al naso. «Così» ringhiò, mostrandole con gesti rapidi e secchi quello che avrebbe dovuto fare.

Per le ore seguenti, Lidia cercò di imitare le azioni di Donna Edda, sentendosi estremamente inadeguata – per non dire incapace – e rimediando tre dita tagliate. Mentre le avvolgeva una pezza pulita attorno all’ultima ferita, la donna le lanciò uno sguardo severo. «Non aiuti tua mamma a Roma?» Lidia arrossì, scuotendo il capo. «No, noi… avevamo dei servitori. Facevano tutto loro» ammise.

«Questa è una signora di città, nonna. Non devi aspettarti troppo da lei.» La voce di Ulf fece sobbalzare entrambe e Lidia si voltò per lanciare uno sguardo velenoso in direzione dell’uomo.

«Och,  blaascht!» sbottò Donna Edda. Qualsiasi cosa volesse dire, la ragazza pensò che avesse un suono adeguato. «Dove sei stato?» gli chiese allora, in tono vagamente accusatorio, mentre l’irritazione della mattina tornava a farsi sentire. Ulf, che si era seduto al tavolo, si strinse nelle spalle. «Sono andato a lavorare.»

Lidia lo squadrò con più attenzione, socchiudendo gli occhi. «E ieri, invece?» indagò, poco soddisfatta di quella spiegazione. Lui ricambiò il suo sguardo, con aria di sfida. «Ho pensato che fosse meglio girarti alla larga per un po’, visto come si stavano mettendo le cose» fece, per poi aggiungere, con un sorrisetto: «Di’ un po’, adesso non avrai mica intenzione di diventare una di quelle mogli apprensive e ficcanaso, vero?»

La ragazza sbuffò, sdegnosa. «Certo che no. Ero solo curiosa, per me puoi fare quello che ti pare. Non me ne importa niente.» Ulf la osservò per qualche istante, reclinando il capo sulla spalla, poi disse: «Ad ogni modo, sono andato da mia sorella: mi era permesso farlo?»

Afferrando una delle ciotole che Donna Edda aveva riempito con la zuppa che avevano preparato, Lidia la posò con malagrazia sul tavolo, davanti all’uomo, facendone strabordare un po’. «Fa’ quello che ti pare» ripeté asciutta. «Non mi interessa.»

La vecchia germanica, che aveva seguito lo scambio in silenzio, prese la pentola ricolma di zuppa e la appoggiò sul tavolo, poi raccolse lo scialle con il quale era solita coprirsi le spalle e si diresse verso la porta. «Tu non resti, nonna?» le chiese Ulf. «Näi» replicò lei, scuotendo il capo e rivolgendo loro un brusco cenno di saluto.

Quando se ne fu andata, Lidia si chinò sul piatto, iniziando a mangiare in silenzio e cercando di ignorare la tensione che improvvisamente aveva riempito l’aria. Era sorprendente quanto fosse diverso restare sola con Ulf in una situazione di emergenza e condividere con lui un momento di quotidianità come il pranzo: c’era un che di intimo, in quella seconda circostanza, e la cosa la metteva a disagio. Imbarazzata, la fanciulla rimestò la zuppa, cercando qualcosa da dire, ma si trovò penosamente a corto di argomenti di conversazione.

«Ti hanno già fatto visitare il villaggio?» Lidia accolse entusiasticamente la domanda di Ulf e si affrettò ad annuire. «Solo in parte» disse, ingoiando rapidamente la zuppa densa e saporita. «Il Legato mi ha fatto vedere la piazza e qualche bottega, ma pensavo di fare un altro giro, questo pomeriggio: se non altro, per ambientarmi un po’ meglio.»

Il giovane annuì. «Va bene, ma non da sola» le raccomandò, incontrando i suoi occhi al di sopra del piatto ancora fumante. Confusa, Lidia aggrottò la fronte. «Non da sola? E perché?»

Per una frazione di secondo, Ulf parve quasi imbarazzato. «Te l’ho detto: non è sicuro.» Davanti a quella risposta, la ragazza posò il cucchiaio sul tavolo e si prese qualche secondo, prima di parlare. «Nemmeno di giorno, è sicuro?» chiese, mentre una sensazione sgradevole le stringeva lo stomaco. «Perché… cosa… cosa potrebbe succedermi, esattamente?»

«Ma no, niente di che» mormorò il giovane, ma la sua voce suonò un po’ incerta e Lidia strinse i pugni sul tavolo, scoprendoli sudati. Accorgendosi del suo nervosismo, Ulf si sporse leggermente verso di lei. «Non è mai successo niente», la rassicurò, «e, con ogni probabilità, non succederà mai niente. Però è stupido andare a cercarsi i guai: la gente deve imparare a conoscerti e, finché sei ancora nuova, è meglio che tu non te ne vada in giro da sola. Tra qualche giorno tutti inizieranno a non vederti più come una romana, ma come una di noi, e allora non avrai più niente da temere… nemmeno da quelle persone che non vedono di buon occhio la tua gente.»

Quella risposta che, in teoria, avrebbe dovuto rassicurarla, fece provare a Lidia uno spasmo di repulsione. Io sarò sempre romana, si disse, irrigidendo la mascella. In quell’istante, la fanciulla provò un lampo di fierezza e di orgoglio per le proprie origini; e il fatto di perdere la propria identità le parve una prospettiva intollerabile. Spostando lo sguardo su Ulf, la giovane si accorse che l’uomo la guardava con più attenzione – forse si era accorto della sua tensione improvvisa – e così si impose di rilassarsi. Un paio di mesi, ricordò. Un paio di mesi e mi lascerò questo posto alle spalle.

«Bene», disse, poi, cercando di sviare da sé l’attenzione di suo marito, «allora forse potreste accompagnarmi tu o tua nonna? Erding è così diverso da Roma, tutto mi sembra così strano…»

Il germanico ridacchiò. «Non lo metto in dubbio: io a Roma non ci sono mai stato, ma mi hanno detto che a voi piace fare le cose in grande.» Sebbene fosse indubbiamente vero, Lidia credette di scorgere una sottile nota ironica nelle parole dell’uomo e, per qualche motivo, la cosa la fece arrossire. «In un certo senso è così» riconobbe. «Da noi tutto è più grande e pieno di cose… tutto è diverso. Prendi la piazza, per esempio: le nostre piazze sono piene di gente, di fontane, di statue degli Dèi…» Ulf fece un vago suono d’assenso e Lidia ne approfittò per togliersi un dubbio che la tormentava da qualche giorno. «Nella vostra, di piazza, ho visto però la statua di un solo Dio: come mai? Non ne adorate altri?»

L’uomo sbuffò, beffardo. «Oh, ce ne sono altri, sì. Ma Arminio è il più grande, a quanto pare.»

Alla ragazza non sfuggì il suo tono scettico. «A quanto pare?» ripeté. Ulf scrollò le spalle. «Tu li hai mai visti, gli Dèi?» Lei lo fissò, stupita dalla domanda. «No, certo che no. Nessuno li ha mai visti, ma questo non vuol dire che non esistano.»

Il germanico storse la bocca e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi rinunciò. «Cosa?» insistette Lidia. C’era qualcosa, nell’atteggiamento di suo marito, che aveva attirato la sua attenzione e la spingeva a indagare più a fondo: anche lei provava un cauto scetticismo verso l’esistenza degli Dèi, ma più passavano i giorni e più le pareva di avvertire, nel modo di fare di Ulf, un’aperta ostilità verso tutto ciò che era religione.

Lui la squadrò con attenzione, fissandola poi negli occhi. «Non credo proprio di fidarmi di te a sufficienza per parlarti di questa cosa» mormorò, soppesando le parole. Lidia si reclinò sullo schienale della sedia, presa in contropiede. «Cos’è?» chiese, con una punta di ironia. «Un segreto?»

«In un certo senso» confermò Ulf, prima di aggiungere, con un sorriso storto: «Il tipo di segreto che si confida solo alle persone affidabili» sottintendendo chiaramente che lei non risultava appartenere a tale categoria.

Lidia alzò gli occhi al cielo con una smorfia offesa e incrociò le braccia, ma l’uomo le spinse il piatto sotto il naso. «Dai, finisci di mangiare» la incitò. «Ho un po’ di tempo prima di ritornare al lavoro. Posso portarti a fare un altro giro in paese: ci sono anche altri posti che dovresti conoscere.»

***

Un quarto d’ora più tardi, i due sfilavano tra i banchetti del mercato. Era decisamente più piccolo di quello che di tanto in tanto aveva frequentato a Roma, ma non per questo Lidia si sentiva meno a disagio. «Mi guardano tutti» sussurrò a Ulf, avvicinandosi inconsciamente al suo fianco.

«Per forza», disse piano suo marito, «sei nuova. E comunque guardano anche me, se la cosa ti fa piacere.» Il livido che si era procurata durante il suo tentativo di fuga era ancora lontano dal riassorbirsi e, malgrado la ragazza avesse cercato di nasconderlo con un po’ di trucco, l’ematoma era ancora ben visibile. «Le voci girano in fretta, qui» le sussurrò ancora Ulf.

«Ho notato» disse Lidia, deglutendo nervosamente. «Non possiamo andare in un luogo meno affollato?» Annuendo, Ulf le porse la mano e si infilò in un passaggio particolarmente stretto, tra una bancarella e l’altra. Istintivamente, la fanciulla la afferrò e si lasciò guidare tra la folla, stando ben attenta a non perdere la presa, grata di quell’appiglio che, dopotutto, le dava coraggio.

Quando si furono allontanati dalla ressa, Ulf le lasciò la mano e indicò un punto davanti a sé. «Quello invece è il bosco sacro,» disse. «Quello?» chiese Lidia, osservando quello che a lei non pareva altro che un normale boschetto di faggi.

«Possiamo avvicinarci un po’», propose l’uomo, «ma l’ingresso è vietato.»

Poco prima di raggiungere i margini del bosco, i due incrociarono tre uomini che rivolsero un cenno di saluto a Ulf. Lidia li guardò, impressionata. Due di loro erano piuttosto giovani e dimostravano approssimativamente l’età di suo marito, mentre il terzo era decisamente più anziano: tutti e tre, però, erano ricoperti da uno strato di sottilissima polvere grigio-verde. Portavano sulle spalle dei picconi e, quando uno di loro la guardò in faccia, la ragazza vide che i suoi occhi erano rossi e lacrimavano.

«Chi sono?» chiese, quando si furono allontanati. «Minatori» rispose tra i denti Ulf. «Lavorano nella miniera d’argento al confine sud del paese. Ci sei passata davanti, quando sei arrivata a Erding.»

Lidia cercò di ricordare, ma il giorno del suo arrivo era talmente presa dai suoi pensieri che non aveva prestato molta attenzione al paesaggio. «Non me la ricordo» disse, scuotendo il capo. Poi aggiunse, con un filo di apprensione: «Tu non lavori lì, vero?»

L’uomo fece un cenno di diniego. «No, fortunatamente no. Io sono un falegname, ho ereditato la bottega in cui mio padre lavorava prima di restare ferito in battaglia.»

«E questo è un bene, immagino» commentò la giovane. «Certo che lo è» confermò lui, amaramente. «I minatori hanno vita breve. Karl, sfortunatamente, lavora là sotto.»

«Chi è Karl?» chiese Lidia, confusa, non ricordando di aver mai sentito quel nome. «Il marito di mia sorella» rispose Ulf, guardandola di sottecchi.

«Oh.» Sentire nominare Unna non le aveva certo fatto piacere, ma la ragazza cercò comunque di mostrarsi partecipe. «È l’uomo che era con voi quando…» Quando ci siamo incontrati per la prima volta e mi avete riso in faccia tutti quanti, avrebbe voluto dire, ma non si sentiva ancora abbastanza coraggiosa per toccare quell’argomento. Fu Ulf ad affrontarlo per lei. «Sì, è lui» confermò. «Alto, con i capelli scuri. Quello che fa praticamente tutto ciò che dice Unna, per intenderci.» Le parole erano critiche; e tuttavia a Lidia non sfuggì il tono vagamente affettuoso con cui le pronunciò.

«Ho capito chi è» disse, a denti stretti. Sentendo su di sé lo sguardo dell’uomo, Lidia incrociò per un secondo i suoi occhi, ma poi li riabbassò a terra. Parlare con Ulf si stava rivelando più semplice del previsto, ma la giovane non aveva dimenticato il suo comportamento durante quel primo incontro, il suo sguardo freddo – disgustato – il suo disprezzo, la sua espressione di scherno. Non sono cose facili da ignorare, pensò, stringendo inconsciamente i pugni.

Accanto a lei, Ulf sospirò. «Devo dire che la realtà è forse un po’ migliore della prima impressione.» Lidia alzò di nuovo lo sguardo su di lui, sorpresa. «Cosa vorrebbe dire?»

«La prima volta che ti ho vista», spiegò il giovane, «sembravi una bambina terrorizzata. Eri pallidissima, tremavi come una foglia e sembrava che stessi per scoppiare a piangere. Non mi hai fatto una gran bella impressione.»

Lidia storse la bocca. «Ero spaventata» sottolineò. «Non è facile cambiare tutto, così…»

«Lo so» sospirò Ulf. «Ma nemmeno per me lo è. E pensavo che, oltretutto, mi sarebbe pure toccato badare a una persona incapace di funzionare autonomamente, che avrebbe passato il tempo a piangere e a lamentarsi.»

«E invece?» chiese Lidia, benché non fosse certa di voler sapere quello che Ulf pensava veramente di lei. «E invece sei saltata dalla finestra» disse lui, con un sorriso. «Certo, la cosa mi fa dubitare della tua intelligenza, ma quantomeno hai dimostrato di avere un minimo di spina dorsale.»

Lidia scosse la testa, non sapendo cosa pensare. Un insulto e un complimento in poco più di dieci parole. Notevole. L’uomo la stava ancora fissando e lei si sentì in dovere di commentare. «D’accordo» sospirò. «Forse anch’io ti ho giudicato un po’ male. Mi dispiace essermi fidata di Unna e non di te.»

Ulf annuì, secco. «Unna è… a volte Unna è una persona un po’ difficile. Non ama molto i romani.» Lidia lo guardò, sorpresa. «Perché?»

«Ha i suoi motivi», mormorò l’uomo, «ma non ti dirò altro. Sono affari suoi e, se sei curiosa, devi chiedere a lei di raccontarti tutta la storia.» La fanciulla gli lanciò un’occhiata scettica, ma Ulf parlò di nuovo, impedendole di protestare. «Siamo arrivati» disse, indicando i primi alberi del bosco che avevano scorto in lontananza. «Non è possibile andare oltre.»

Lidia annuì, osservando il filo spinato che correva tutt’attorno alla vegetazione, formando una barriera invalicabile alta almeno tre metri. «Che cosa c’è, lì dentro?» Automaticamente, la sua mente corse a quello che aveva letto sui libri di scuola, allo strano legame che i Germanici parevano avere con gli alberi, ai sacrifici che avevano luogo sui grandi altari di pietra nel cuore della foresta. O quelli erano i Galli? Si chiese la fanciulla, cercando di ricordare.

«Il luogo in cui si portano le offerte per gli Dèi» spiegò Ulf, interrompendo i suoi pensieri. Lidia deglutì. «Che tipo di offerte?»

«Oh, un po’ di tutto» rispose lui. «Pellame, pietre preziose, oggetti di valore… gli Dèi sembrano essere piuttosto veniali, in queste cose. Il rito ha luogo ogni mese; e ogni mese dobbiamo lasciare qui almeno due carri d’argento.»

«Che cosa succede alle cose che lasciate qui?» chiese la fanciulla, confusa. L’uomo si strinse nelle spalle. «Spariscono.»

«Spariscono?» ripeté Lidia, stupita. «Ma allora questo significa che gli Dèi esistono! Altrimenti dove andrebbero a finire tutte quelle cose?»

Ulf scoppiò in una risata amara. «Non so a te, ma a me vengono in mente un paio di altre opzioni. Ogni mese costruiamo una sorta di enorme forno con il materiale di scarto della miniera, ogni mese ci mettiamo sopra le offerte per gli Dèi, ogni mese ci accendiamo sotto un fuoco… dopodiché dobbiamo abbandonare la foresta e lasciare la tua amica sacerdotessa sola con tutte quelle cose. Chi può dire che fine fanno le nostre offerte

Lidia gli lanciò un’occhiata scettica. «Di certo non penserai che Donna Erin possa portarsi via tutto da sola.» Ulf scosse il capo. «Da sola no, però…»

«Pensi che ci sia qualcuno che l’aiuti? E per quale scopo?» il tono di Lidia era chiaramente dubbioso e Ulf se ne accorse. «Non lo so: dico solo che mi sembra un po’ strano che gli Dèi vengano a chiederci cose tanto preziose. Magari mi sbaglio, ma a me sembra un ottimo modo per far fessi un branco di polli e arricchirsi alle loro spalle.»

«Stai parlando del tuo intero villaggio?» insistette la ragazza, inarcando le sopracciglia, scettica. Per nulla turbato dalla sua domanda, Ulf scrollò le spalle. «Aspetta, prima di giudicare: la prossima volta assisterai anche tu alla cerimonia e poi mi dirai cosa ne pensi.»

Anche se poco convinta, la fanciulla non ribatté.

***

La fiamma divampò violenta e Lidia balzò all’indietro con un gridolino, agitando la spatola in direzione della padella. Qualcosa non stava andando per il verso giusto.

Con un pessimo presentimento, la ragazza pigiò di nuovo il bottone, sperando di abbassare la potenza della fiamma, ma sbagliò tasto e il fornello acquistò potenza, anziché perderne. Premendo convulsamente un altro paio di pulsanti, la fanciulla riuscì a domare il fuoco fino a spegnerlo completamente e poi, a denti stretti, si avvicinò ai ritagli pressati di patate che Donna Edda aveva preparato con lei, quella mattina. Sollevandoli cautamente con la spatola – e facendone cadere una buona parte sul piano di cottura – Lidia ebbe la conferma di ciò che l’odore di bruciato già le aveva fatto sospettare: erano completamente carbonizzati.

E adesso che faccio?

Desolata, la fanciulla raggiunse il tavolo e si lasciò cadere sulla panca, appoggiando la spatola sul ripiano di legno e nascondendo il volto fra le mani. Improvvisamente apprezzava molto di più il lavoro che la servitù aveva svolto ogni giorno nella sua domus romana, in maniera così efficiente e silenziosa che lei quasi non si era nemmeno accorta dell’impegno necessario per mandare avanti una casa.

Poco dopo averle mostrato il bosco sacro, Ulf l’aveva riaccompagnata a casa e poi aveva fatto di nuovo ritorno alla sua bottega. Una volta rimasta sola, Lidia aveva deciso di rimboccarsi le maniche e familiarizzare un po’ con quello che sarebbe stato il suo regno. La prima sorpresa – tutt’altro che gradita – era stata la totale assenza dei mille meravigliosi elettrodomestici di cui Donna Giulia le aveva parlato. Forse era stata un po’ ingenua a pensare che attrezzi rari e costosi come le scope elettriche o le lavatrici potessero esistere in quella regione arretrata, ma Lidia si era comunque stupita quando si era trovata davanti a una scopa – non ne aveva nemmeno mai toccata una! – o quando l’occhio le era caduto sul pezzo di sapone grezzo e sulla spazzola da bucato posata accanto a esso.

Aveva curiosato un po’ in giro, aveva rifatto il letto – più facile a dirsi, che a farsi, con tutte quelle coperte che scappavano da tutte le parti e non volevano saperne di restare al loro posto – aveva buttato un occhio nella dispensa e annusato i cibi che non aveva mai visto prima, dopodiché si era resa conto che il sole era ormai basso sull’orizzonte e aveva deciso che era giunta l’ora di cucinare qualcosa per cena. Quella mattina, Donna Edda le aveva spiegato la preparazione di un piatto a sua detta semplicissimo – rösti, l’aveva chiamato - e Lidia aveva ingenuamente creduto che l’impresa fosse alla sua portata.

Grave errore. Il risultato era stato mezzo chilo di patate da buttare e un gran odore di bruciato in tutta la casa. Mentre, controvoglia, si accingeva a scrostare la padella dai rimasugli carbonizzati delle patate, la porta si aprì e Ulf entrò in casa, annusando l’aria e facendo una smorfia. «Che cos’è questo odore?» chiese, senza nemmeno salutarla e correndo a spalancare una finestra.

Lidia arrossì, continuando a dargli le spalle e senza sollevare la testa dal lavello. «Mi è bruciata la cena.» Con un sospiro, Ulf si portò alle sue spalle e spiò quello che stava facendo. «Cosa accidenti era quella roba?»

La ragazza lasciò cadere la padella e la spugnetta e si girò a fronteggiarlo, indietreggiando istintivamente contro il lavello quando se lo trovò così vicino. «Erano patate… arrosto. Arrosti. Qualcosa del genere» spiegò. «Ho fatto quello che mi ha detto tua nonna, ma sono bruciate lo stesso. Forse la fiamma era troppo alta…»

Ulf si sporse oltre di lei e prese in mano la padella, tastandone con un dito l’interno. «Ci hai messo il burro?» chiese, amabile.

Lidia aprì la bocca per ribattere, ma le parole le morirono in gola. Oh. Il burro. Notando la sua espressione, Ulf scoppiò a ridere. «Lo sanno tutti, che devi ungere la pentola! Lo sapevo pure io!» Prima di riuscire a controllarsi, la ragazza lo colpì sul petto, cercando di allontanarlo e ottenendo solo di farlo ridere più forte. «Se sei tanto bravo, perché non cucini tu?» gli chiese, offesa.

Sorridendo, evidentemente divertito dalla situazione, l’uomo si chinò su di lei, avvicinando il proprio volto a quello della ragazza. «Vuoi per caso fare cambio? Io sto in cucina e tu prendi in mano la pialla?»

Non so nemmeno cos’è, una pialla, pensò Lidia, fulminandolo con lo sguardo. «Oh, finiscila!» sbottò, cercando di allontanarlo con una spallata. Lui resistette per un attimo, poi si scostò, lasciandola passare. La giovane marciò di nuovo verso il tavolo e Ulf la seguì con lo sguardo. «Allora?» le chiese, appoggiandosi al lavello. «Cosa mangiamo?»

Lidia scosse le spalle, fissando il pavimento. «Mi è passata la fame» mugugnò, consapevole di avere assunto un comportamento infantile e non dando alcun peso alla cosa.

Ulf sospirò di nuovo e raggiunse la dispensa. «Ecco qua» disse, posandole qualcosa sotto il naso. «Pane, formaggio e pomodori. Grazie per la cena, moglie, davvero deliziosa.» La ragazza, che nonostante quello che aveva detto, era affamata, mise in bocca un pomodorino e lo stritolò rabbiosamente sotto ai denti. «Certo che è una vera fortuna, averti sposato» continuò Ulf, con aria svagata, guardandola attraverso il tavolo. «Com’è che aveva detto tuo padre, l’altro giorno? Che sai fare di tutto e che impari in fretta? Tutto vero, non c’è che dire.»

Lidia posò sul tavolo il panino e lo fissò negli occhi, sentendosi insolitamente coraggiosa – e stanca. «Perché mi prendi sempre in giro?» gli chiese, seria. L’uomo si strinse nelle spalle. «Mi sembra che sia il modo migliore per farti reagire» rispose, altrettanto serio. «Meglio arrabbiata, che in lacrime, per quanto mi riguarda.»

Lidia scosse rabbiosamente la testa. «Potresti anche cercare di essere un po’ più gentile» mormorò, infilandosi una manciata di pomodorini nel grembiule e alzandosi dal tavolo. Stava per lasciare la stanza quando la mano di Ulf, che la afferrò per il braccio, la costrinse a fermarsi. «Lidia» le disse, senza lasciare la presa. «Io non so che cosa ti aspetti da me.»

Quelle parole la colsero di sorpresa e la ragazza alzò lo sguardo fino a incrociare quello azzurro dell’uomo. Che cosa si aspettava da lui? Non si era mai posta quella domanda. «Non lo so» ammise, spostando lo sguardo sulla mano dell’uomo, che, nel frattempo, era scesa a circondarle leggermente il polso. «Forse solo un po’ di comprensione.»

«Che cosa vuol dire comprensione?» le chiese lui, continuando a fissarla.

«Comprensione vuol dire…» istintivamente, la mano della giovane volò al polsino della camicia di Ulf, allacciato male, e lo sistemò. «Comprensione vuol dire avere solo un po’ più di pazienza. Mi serve tempo per adattarmi a tutta questa situazione.»

Ulf inspirò a fondo, prendendo le mani della ragazza nelle sue. «Io posso anche avere pazienza», disse, dopo un attimo, «ma tu devi cercare di aiutarmi. Non pretenderò mai niente da te, te l’ho detto. Non mi interessa averti come un uomo ha la propria moglie, ma ho bisogno di sapere che tu qui puoi resistere. Posso lasciarti tutto il tempo che ti serve, ma devo sapere che alla fine ti adatterai a questa situazione, come dici tu.»

«Per sempre» sospirò Lidia, senza riuscire a trattenere quelle parole, né a celare lo sconforto che esse le provocavano. «Per sempre», confermò Ulf, con una smorfia amara, «o, per lo meno, per parecchio tempo. Non dico che le cose non cambieranno, un giorno, ma non posso farti alcuna promessa, in questo senso… per questo ho bisogno di sapere che ce la farai e che ti impegnerai per fare funzionare le cose.»

Tito. Il ragazzo e la promessa che le aveva fatto, l’impegno che aveva preso, le tornarono subito in mente, ma la fanciulla si sforzò di sorridere, alzando gli occhi sul volto di Ulf. «Cercherò di non bruciare più la cena» promise. L’uomo parve considerarla una risposta sufficiente e con un sorriso le sfiorò una guancia, spostando una ciocca di capelli castani che erano scesi sul suo viso. Per un qualche motivo la ragazza sentì gli occhi inumidirsi a quel tocco leggero, ma, sentendosi stupida, ricacciò ferocemente indietro le lacrime e, liberatasi dalla presa di Ulf, si avvicinò di nuovo al lavello.

Colpa della tensione, pensò, passando gli occhi sulla superficie smaltata. «E adesso cosa fai?» le chiese Ulf, avvicinandosi nuovamente a lei. Lidia sollevò la padella incrostata e, sospirando per scacciare quella strana malinconia, la sventolò debolmente in aria. «Credo che sia il caso di pulire questa» disse, rimboccandosi le maniche.

***

Più tardi, quando si ritrovò sola sotto le coperte, Lidia si rigirò per l’ennesima volta, incapace di prendere sonno. Ulf era andato a trovare con alcuni amici e, sebbene l’avesse invitata ad accompagnarlo, Lidia aveva preferito andare a letto, tremando al pensiero di trovarsi in compagnia di tanti uomini sconosciuti.

Anche se normalmente non amava la solitudine, in quella particolare occasione la ragazza era grata della possibilità di riflettere nella tranquillità della propria stanza. La domanda di Ulf le era rimasta impressa nella mente.

Che cosa mi aspetto da lui? Si chiese di nuovo la fanciulla. “Niente” era la risposta più sincera. Lidia si trovava nella scomoda posizione di dover riconoscere di essere partita troppo prevenuta nei confronti di suo marito; e non solo: doveva anche prendere atto del fatto che Lucilla aveva avuto ragione, quando le aveva detto che, rifiutandosi di pensare al suo imminente matrimonio con il germanico, non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Certo, la sua amica l’aveva forse intesa in maniera un po’ diversa, ma Lidia era stata così convinta di andare in pasto a un mostro che, quando invece si era trovata di fronte a un uomo – strano, ma comunque un uomo – non aveva saputo come reagire.

Scivolando sulla schiena, Lidia si domandò cosa avrebbe fatto, se invece di Ulf avesse trovato qualcuno come Tito: si sarebbe trovata altrettanto spaesata? Ma Tito e Ulf sono troppo diversi, rifletté, non posso fare un paragone. Ed era vero. Tito era sempre stato molto più accomodante, nei suoi confronti, molto più dolce.

Prendiamo quello che è successo questa sera, per esempio: Tito mi avrebbe messo a mio agio, mi avrebbe detto che non importava… magari mi avrebbe anche aiutata a preparare qualcos’altro. No! Meglio! Avremmo ordinato qualcosa e ci saremmo fatti portare qualcosa di buono da fuori… Per un istante Lidia sorrise, perdendosi in quel pensiero allettante. Non come quel… quel… Ulf. Si trovava in difficoltà anche solo per trovare un insulto adeguato. Anche se, doveva ammetterlo, anche Ulf era stato quasi dolce, a modo suo, quando le aveva promesso di concederle tutto il tempo di cui avrebbe avuto bisogno.

Non come Tito, però.

Non come Tito, no, però la ragazza era sempre più consapevole dei vaghi sensi di colpa che la coglievano al pensiero della fuga che aveva in programma per luglio, quando il giovane romano sarebbe venuto a prenderla. Non gli devo niente, però… però aveva la sensazione di tradire, se non lui, quantomeno la sua fiducia. Ma che alternative ho?

L’alternativa, lo sapeva, era una sola: restare a Erding e continuare la farsa, così come desiderava Ulf. La fanciulla storse la bocca a quel pensiero: l’idea di vivere una vita di menzogne non l’allettava nemmeno un po’. Prendendo il coraggio a due mani, si spinse a esaminare un’idea che aveva sfiorato la sua mente un paio di volte, negli ultimi giorni: e se fosse diventata davvero la moglie di Ulf? Subito scartò l’ipotesi: non solo perché l’esistenza di Tito e dei sentimenti che provava per lui rendevano impraticabile quella via, ma anche perché il germanico aveva espresso più volte e chiaramente il suo disinteresse per lei. Molto chiaramente, ricordò la ragazza, con un sospiro irritato. Ha anche detto che sono “bruttina”.

Per l’ennesima volta, la fanciulla si chiese se l’uomo avesse un’altra donna, da qualche parte; e per l’ennesima volta il pensiero le provocò una fastidiosa fitta allo stomaco. Gli conviene non avere nessun’altra: sarebbe troppo comoda, così! Pensò, battagliera, prima di rigirarsi sulla pancia e affondare il volto nel cuscino. No, la cosa migliore era attenersi al piano e tagliare la corda al momento opportuno. Sì, è la cosa migliore. Non c’è altra via, davvero, decise la giovane, chiudendo gli occhi risoluta e cercando di allontanare i dubbi e le incertezze.

Quando, diverse ore dopo, Ulf fece ritorno e lei si ritrovò a fingere di dormire, la ragazza non ebbe però alcun dubbio: a tenerla sveglia non era la paura di vivere un nuovo giorno in una terra sconosciuta, ma la sua coscienza sporca.

   
 
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