Erding - Germanica
Inferiore, 342 a.U.c., 6 Maggio
Ferma davanti alla porta di casa,
Lidia seguì con lo
sguardo il carro automatico che si allontanava sobbalzando in maniera
irregolare lungo la strada sterrata, portando con sé i suoi
genitori. E così se
ne andavano, pensò, chiudendo brevemente gli occhi per
cacciare indietro le
lacrime che minacciavano di colarle lungo le guance. Si erano
trattenuti un
giorno in più del previsto, ma, alla fine, avevano deciso di
lasciarla in
Germanica e di tornare a Roma senza di lei. Chissà
se la rivedrò mai, Roma, pensò la
fanciulla, soffocando un gemito afflitto.
Chissà se rivedrò mai la
mamma e il papà…
Quella di non rivedere mai
più la propria patria era
probabilmente una paura comune alla maggior parte delle giovani spose
che si
trasferivano lontane da casa, ma Lidia scosse tristemente la testa,
ricordando
che, tra lei e tante sue coetanee nella sua stessa situazione,
c’era una
differenza fondamentale. Se le altre ragazze potevano sperare di
tornare a
Roma, se non altro per una breve vacanza, lei, scappando con Tito, si
sarebbe
preclusa quella possibilità. Lasciando la Germanica,
infatti, sarebbe andata
contro la volontà dell’Imperatore – e,
indirettamente, di suo padre: era certa
che, una volta fuggita, a casa sua non sarebbe più stata
bene accetta. “Giuro
che ti farò processare come traditrice della
Patria” le aveva detto il Senatore,
qualche tempo prima e, nonostante le piccole dimostrazioni di affetto
degli
ultimi giorni, la giovane non era ancora certa che quelle fossero
semplicemente
delle parole dettate dalla rabbia del momento.
Suo padre non era certo
l’uomo migliore che
conoscesse, tuttavia, quando il carro sparì dietro una curva
della strada, la
fanciulla provò un dolore quasi fisico, mentre la solitudine
e lo sconforto
calavano su di lei, simili a un manto vischioso e pesantissimo. Era
fatta. Da
quel momento in poi sarebbe stata davvero sola con se stessa: almeno
fino a
luglio, non avrebbe potuto fare altro che contare sulle proprie forze
per
sopravvivere in quel paese sconosciuto e, forse, ostile.
Inaspettatamente, una mano
calò sulla sua spalla e
Lidia sobbalzò, voltandosi fino a incontrare gli occhi
chiari di Donna Edda.
L’anziana germanica era uscita con lei per salutare
– in silenzio, s’intende –
i suoi genitori, ma era rimasta a qualche metro di distanza, garantendo
a Lidia
un minimo di riservatezza. Avvertendo forse la tristezza della
fanciulla, però,
la vecchia si era avvicinata, offrendole il modesto conforto della sua
presenza. Commossa, Lidia le rivolse un sorriso piccolo, ma sincero. Forse non sono proprio del tutto sola,
pensò, inspirando a fondo e sentendosi un po’
più sicura di sé.
Se gli eventi del giorno precedente
erano
un’indicazione, l’amicizia di Donna Edda le sarebbe
risultata estremamente preziosa. Il
suo primo giorno da donna
sposata le aveva infatti chiarito una cosa: finché sarebbe
rimasta a Erding, il
suo peggiore nemico sarebbe stata la solitudine. Con una smorfia
infastidita,
Lidia ripensò al pranzo del giorno prima. Quando Gefrid e i
suoi genitori erano
tornati in sala da pranzo, la fanciulla era decisa a cercare di calmare
gli
animi e per questo aveva preso a distribuire sorrisi cordiali,
ingoiando il
proprio nervosismo e cercando addirittura di fare conversazione.
Malgrado la
prospettiva di tornare a Roma con i propri genitori fosse in un certo
senso
allettante, infatti, la ragazza avvertiva che il Senatore non avrebbe
mai avuto
il potere di andare contro gli ordini della sacerdotessa e
dell’Imperatore:
alimentare delle paure infondate sarebbe dunque stato inutile e, forse,
anche
controproducente. Durante il pranzo, Lidia aveva cercato più
volte lo sguardo
di Ulf, tentando di coinvolgerlo nella conversazione, ma il giovane
aveva
tenuto gli occhi fissi sul tavolo, trangugiando con una
velocità allarmante
tutto ciò che Donna Edda aveva cucinato e abbandonando il
locale quasi senza
aspettare che gli altri finissero a loro volta di mangiare.
Anche se comprendeva il suo
desiderio di sottrarsi a
quell’atmosfera pesante, Lidia aveva storto il naso davanti a
quella fuga
frettolosa: con quell’atteggiamento sfuggente, Ulf non faceva
altro che
alimentare i sospetti dei loro genitori. Ad ogni modo, quando
l’uomo non era
più ricomparso per tutto il pomeriggio, la fanciulla non
aveva dato troppo peso
alla cosa, e ne aveva invece approfittato per passare qualche ora in
compagnia
di sua madre, facendo del proprio meglio per mostrarsi tranquilla e
allontanare
così le preoccupazioni della donna. La mancanza di Ulf aveva
iniziato a
insospettirla solo quando, all’ora di cena, l’uomo
non aveva ancora fatto
ritorno: il posto vuoto a tavola attirava la sua attenzione in modo
fastidioso
e la fanciulla non poteva fare a meno di interrogarsi su dove fosse
finito. Da amici o da qualcun altro?
Si
chiedeva, piantando inconsciamente le unghie nella tovaglia a
quadretti.
Possibile che suo marito fosse così sfacciato da andare a
trovare una sua
ipotetica amica proprio quando
tutti
gli occhi erano puntati su di lui?
Quel che era peggio, era che Lidia
riusciva a leggere
un’ombra di sospetto negli occhi di Donna Giulia, ma la
prudenza e l’orgoglio
le impedivano di esprimere ad alta voce i propri dubbi, di chiedere
delucidazioni a chi, forse, ne sapeva più di lei.
Quando giunse l’ora di
ritirarsi nelle sue stanze,
l’umore della giovane era ormai virato verso un nero cupo:
dunque sarebbe
veramente stata così, la sua vita? Ulf aveva davvero
intenzione di piantarla a
casa e disinteressarsi completamente a lei? Quegli interrogativi non
facevano altro
che innervosirla ancora di più: cosa accidenti le importava
di quello che
faceva il germanico? Non era forse
un
bene che lui la evitasse il più possibile? Non era forse
quello che aveva
sperato? Quando, a notte fonda, Ulf era scivolato in camera, quasi di
soppiatto, Lidia non aveva nemmeno sollevato la testa dal cuscino,
fingendo di
dormire e avvolgendosi in un silenzio offeso. All’alba,
l’uomo era sparito di
nuovo e non si era più palesato per tutta la mattina
– il che era piuttosto maleducato
da parte sua, visto che, così
facendo, non aveva nemmeno salutato i genitori di Lidia.
Scuotendo la testa come per
scacciare quei pensieri,
la ragazza sospirò e si voltò verso Donna Edda,
aspettando le sue indicazioni e
chiedendosi come avrebbe potuto interagire decentemente con una donna
così
anziana e che, oltretutto, pareva avere una conoscenza della sua lingua
piuttosto superficiale. Mi
toccherà
imparare il loro dialetto, si disse Lidia, arricciando le
labbra, poco
attratta da quella prospettiva.
Notando di avere
l’attenzione della giovane, la
vecchia fece un cenno nella sua direzione. «Chum»
le disse. «Vieni. Prepariamo
il pranzo.» Un po’ spaesata, Lidia la
seguì all’interno dell’abitazione.
«Ma tu
abiterai qui con noi?» le chiese, sperando di non sembrare
scortese.
La donna scosse il capo con un
verso di diniego. «No,
ti aiuto solo un po’» la informò; e la
fanciulla provò un fremito di
gratitudine nei suoi confronti. Nonostante le indicazioni di sua madre,
infatti, non aveva ancora capito esattamente cosa ci si aspettasse da
lei e il
fatto di avere una guida era sicuramente un vantaggio.
Una volta giunte in cucina, la
vecchia estrasse un
sacco di tela spessa da un armadio a muro e lo porse a Lidia. «Mettili a
bagno» ordinò, indicando i cereali
– o erano legumi? – contenuti al suo interno.
Davanti allo sguardo perplesso
della ragazza, la donna emise un brontolio sordo e afferrò
una grossa ciotola
dalla credenza, appoggiandogliela poi sotto al naso.
«Così» ringhiò,
mostrandole con gesti rapidi e secchi quello che avrebbe dovuto fare.
Per le ore seguenti, Lidia
cercò di imitare le azioni
di Donna Edda, sentendosi estremamente inadeguata – per non
dire incapace – e
rimediando tre dita tagliate. Mentre le avvolgeva una pezza pulita
attorno
all’ultima ferita, la donna le lanciò uno sguardo
severo. «Non aiuti tua mamma
a Roma?» Lidia arrossì, scuotendo il capo.
«No, noi… avevamo dei servitori.
Facevano tutto loro» ammise.
«Questa è una
signora di città, nonna. Non devi
aspettarti troppo da lei.» La voce di Ulf fece sobbalzare
entrambe e Lidia si
voltò per lanciare uno sguardo velenoso in direzione
dell’uomo.
«Och,
blaascht!»
sbottò Donna Edda. Qualsiasi cosa volesse dire, la ragazza
pensò che avesse un
suono adeguato. «Dove sei stato?» gli chiese
allora, in tono vagamente accusatorio,
mentre l’irritazione della mattina tornava a farsi sentire.
Ulf, che si era
seduto al tavolo, si strinse nelle spalle. «Sono andato a
lavorare.»
Lidia lo squadrò con
più attenzione, socchiudendo gli
occhi. «E ieri, invece?» indagò, poco
soddisfatta di quella spiegazione. Lui
ricambiò il suo sguardo, con aria di sfida. «Ho
pensato che fosse meglio
girarti alla larga per un po’, visto come si stavano mettendo
le cose» fece,
per poi aggiungere, con un sorrisetto: «Di’ un
po’, adesso non avrai mica
intenzione di diventare una di quelle mogli apprensive e ficcanaso,
vero?»
La ragazza sbuffò,
sdegnosa. «Certo che no. Ero solo
curiosa, per me puoi fare quello che ti pare. Non me ne importa
niente.» Ulf la
osservò per qualche istante, reclinando il capo sulla
spalla, poi disse: «Ad
ogni modo, sono andato da mia sorella: mi era permesso
farlo?»
Afferrando una delle ciotole che
Donna Edda aveva
riempito con la zuppa che avevano preparato, Lidia la posò
con malagrazia sul
tavolo, davanti all’uomo, facendone strabordare un
po’. «Fa’ quello che ti
pare» ripeté asciutta. «Non mi
interessa.»
La vecchia germanica, che aveva
seguito lo scambio in
silenzio, prese la pentola ricolma di zuppa e la appoggiò
sul tavolo, poi
raccolse lo scialle con il quale era solita coprirsi le spalle e si
diresse
verso la porta. «Tu non resti, nonna?» le chiese
Ulf. «Näi» replicò lei,
scuotendo il capo e rivolgendo loro un brusco cenno di saluto.
Quando se ne fu andata, Lidia si
chinò sul piatto,
iniziando a mangiare in silenzio e cercando di ignorare la tensione che
improvvisamente aveva riempito l’aria. Era sorprendente
quanto fosse diverso
restare sola con Ulf in una situazione di emergenza e condividere con
lui un
momento di quotidianità come il pranzo: c’era un
che di intimo, in quella seconda
circostanza, e la cosa la metteva a
disagio. Imbarazzata, la fanciulla rimestò la zuppa,
cercando qualcosa da dire,
ma si trovò penosamente a corto di argomenti di
conversazione.
«Ti hanno già
fatto visitare il villaggio?» Lidia
accolse entusiasticamente la domanda di Ulf e si affrettò ad
annuire. «Solo in
parte» disse, ingoiando rapidamente la zuppa densa e
saporita. «Il Legato mi ha
fatto vedere la piazza e qualche bottega, ma pensavo di fare un altro
giro,
questo pomeriggio: se non altro, per ambientarmi un po’
meglio.»
Il giovane annuì.
«Va bene, ma non da sola» le
raccomandò, incontrando i suoi occhi al di sopra del piatto
ancora fumante.
Confusa, Lidia aggrottò la fronte. «Non da sola? E
perché?»
Per una frazione di secondo, Ulf
parve quasi
imbarazzato. «Te l’ho detto: non è
sicuro.» Davanti a quella risposta, la
ragazza posò il cucchiaio sul tavolo e si prese qualche
secondo, prima di
parlare. «Nemmeno di giorno, è sicuro?»
chiese, mentre una sensazione
sgradevole le stringeva lo stomaco.
«Perché… cosa… cosa potrebbe
succedermi,
esattamente?»
«Ma no, niente di
che» mormorò il giovane, ma la sua
voce suonò un po’ incerta e Lidia strinse i pugni
sul tavolo, scoprendoli
sudati. Accorgendosi del suo nervosismo, Ulf si sporse leggermente
verso di
lei. «Non è mai successo niente», la
rassicurò, «e, con ogni probabilità,
non
succederà mai niente.
Però è stupido
andare a cercarsi i guai: la gente deve imparare a conoscerti e,
finché sei
ancora nuova, è meglio
che tu non te
ne vada in giro da sola. Tra qualche giorno tutti inizieranno a non
vederti più
come una romana, ma come una di noi, e allora non avrai più
niente da temere…
nemmeno da quelle persone che non vedono di buon occhio la tua
gente.»
Quella risposta che, in teoria,
avrebbe dovuto
rassicurarla, fece provare a Lidia uno spasmo di repulsione. Io sarò sempre
romana, si disse, irrigidendo la mascella. In
quell’istante, la
fanciulla provò un lampo di fierezza e di orgoglio per le
proprie origini; e il
fatto di perdere la propria identità le parve una
prospettiva intollerabile.
Spostando lo sguardo su Ulf, la giovane si accorse che l’uomo
la guardava con
più attenzione – forse si era accorto della sua
tensione improvvisa – e così si
impose di rilassarsi. Un paio di mesi,
ricordò. Un paio di mesi e mi
lascerò
questo posto alle spalle.
«Bene», disse,
poi, cercando di sviare da sé
l’attenzione di suo marito, «allora forse potreste
accompagnarmi tu o tua
nonna? Erding è così diverso da Roma, tutto mi
sembra così strano…»
Il germanico ridacchiò.
«Non lo metto in dubbio: io a
Roma non ci sono mai stato, ma mi hanno detto che a voi piace fare le
cose in
grande.» Sebbene fosse indubbiamente vero, Lidia credette di
scorgere una
sottile nota ironica nelle parole dell’uomo e, per qualche
motivo, la cosa la
fece arrossire. «In un certo senso è
così» riconobbe. «Da noi tutto
è più
grande e pieno di cose… tutto è diverso. Prendi
la piazza, per esempio: le
nostre piazze sono piene di gente, di fontane, di statue degli
Dèi…» Ulf fece
un vago suono d’assenso e Lidia ne approfittò per
togliersi un dubbio che la
tormentava da qualche giorno. «Nella vostra, di piazza, ho
visto però la statua
di un solo Dio: come mai? Non ne adorate altri?»
L’uomo sbuffò,
beffardo. «Oh, ce ne sono altri, sì. Ma
Arminio è il più grande, a quanto
pare.»
Alla ragazza non sfuggì
il suo tono scettico. «A quanto pare?»
ripeté. Ulf scrollò le
spalle. «Tu li hai mai visti, gli Dèi?»
Lei lo fissò, stupita dalla domanda. «No,
certo che no. Nessuno li ha mai visti, ma questo non vuol dire che non
esistano.»
Il germanico storse la bocca e
sembrò sul punto di dire
qualcosa, ma poi rinunciò. «Cosa?»
insistette Lidia. C’era qualcosa,
nell’atteggiamento di suo marito, che aveva attirato la sua
attenzione e la spingeva
a indagare più a fondo: anche lei provava un cauto
scetticismo verso
l’esistenza degli Dèi, ma più passavano
i giorni e più le pareva di avvertire,
nel modo di fare di Ulf, un’aperta ostilità verso
tutto ciò che era religione.
Lui la squadrò con
attenzione, fissandola poi negli
occhi. «Non credo proprio di fidarmi di te a sufficienza per
parlarti di questa
cosa» mormorò, soppesando le parole. Lidia si
reclinò sullo schienale della
sedia, presa in contropiede.
«Cos’è?» chiese, con una punta
di ironia. «Un
segreto?»
«In un certo
senso» confermò Ulf, prima di aggiungere,
con un sorriso storto: «Il tipo di segreto che si confida
solo alle persone
affidabili» sottintendendo chiaramente che lei non
risultava appartenere a tale categoria.
Lidia alzò gli occhi al
cielo con una smorfia offesa e
incrociò le braccia, ma l’uomo le spinse il piatto
sotto il naso. «Dai, finisci
di mangiare» la incitò. «Ho un
po’ di tempo prima di ritornare al lavoro. Posso
portarti a fare un altro giro in paese: ci sono anche altri posti che
dovresti
conoscere.»
***
Un quarto d’ora
più tardi, i due sfilavano tra i
banchetti del mercato. Era decisamente più piccolo di quello
che di tanto in
tanto aveva frequentato a Roma, ma non per questo Lidia si sentiva meno
a
disagio. «Mi guardano tutti» sussurrò a
Ulf, avvicinandosi inconsciamente al
suo fianco.
«Per forza»,
disse piano suo marito, «sei nuova. E
comunque guardano anche me, se la cosa ti fa piacere.» Il
livido che si era
procurata durante il suo tentativo di fuga era ancora lontano dal
riassorbirsi
e, malgrado la ragazza avesse cercato di nasconderlo con un
po’ di trucco, l’ematoma
era ancora ben visibile. «Le voci girano in fretta,
qui» le sussurrò ancora
Ulf.
«Ho notato»
disse Lidia, deglutendo nervosamente. «Non
possiamo andare in un luogo meno affollato?» Annuendo, Ulf le
porse la mano e
si infilò in un passaggio particolarmente stretto, tra una
bancarella e l’altra.
Istintivamente, la fanciulla la afferrò e si
lasciò guidare tra la folla,
stando ben attenta a non perdere la presa, grata di
quell’appiglio che,
dopotutto, le dava coraggio.
Quando si furono allontanati dalla
ressa, Ulf le
lasciò la mano e indicò un punto davanti a
sé. «Quello invece è il bosco
sacro,» disse. «Quello?» chiese Lidia,
osservando quello che a lei non pareva
altro che un normale boschetto di faggi.
«Possiamo avvicinarci un
po’», propose l’uomo, «ma
l’ingresso è vietato.»
Poco prima di raggiungere i margini
del bosco, i due
incrociarono tre uomini che rivolsero un cenno di saluto a Ulf. Lidia
li
guardò, impressionata. Due di loro erano piuttosto giovani e
dimostravano
approssimativamente l’età di suo marito, mentre il
terzo era decisamente più
anziano: tutti e tre, però, erano ricoperti da uno strato di
sottilissima
polvere grigio-verde. Portavano sulle spalle dei picconi e, quando uno
di loro
la guardò in faccia, la ragazza vide che i suoi occhi erano
rossi e
lacrimavano.
«Chi sono?»
chiese, quando si furono allontanati.
«Minatori» rispose tra i denti Ulf.
«Lavorano nella miniera d’argento al
confine sud del paese. Ci sei passata davanti, quando sei arrivata a
Erding.»
Lidia cercò di
ricordare, ma il giorno del suo arrivo
era talmente presa dai suoi pensieri che non aveva prestato molta
attenzione al
paesaggio. «Non me la ricordo» disse, scuotendo il
capo. Poi aggiunse, con un
filo di apprensione: «Tu non lavori lì,
vero?»
L’uomo fece un cenno di
diniego. «No, fortunatamente
no. Io sono un falegname, ho ereditato la bottega in cui mio padre
lavorava
prima di restare ferito in battaglia.»
«E questo è un
bene, immagino» commentò la giovane.
«Certo
che lo è» confermò lui, amaramente.
«I minatori hanno vita breve. Karl,
sfortunatamente, lavora là sotto.»
«Chi è
Karl?» chiese Lidia, confusa, non ricordando di
aver mai sentito quel nome. «Il marito di mia
sorella» rispose Ulf, guardandola
di sottecchi.
«Oh.» Sentire
nominare Unna non le aveva certo fatto
piacere, ma la ragazza cercò comunque di mostrarsi
partecipe. «È l’uomo che era
con voi quando…» Quando
ci siamo
incontrati per la prima volta e mi avete riso in faccia tutti quanti,
avrebbe voluto dire, ma non si sentiva ancora abbastanza coraggiosa per
toccare
quell’argomento. Fu Ulf ad affrontarlo per lei.
«Sì, è lui»
confermò. «Alto,
con i capelli scuri. Quello che fa praticamente tutto ciò
che dice Unna, per
intenderci.» Le parole erano critiche; e tuttavia a Lidia non
sfuggì il tono
vagamente affettuoso con cui le pronunciò.
«Ho capito chi
è» disse, a denti stretti. Sentendo su
di sé lo sguardo dell’uomo, Lidia
incrociò per un secondo i suoi occhi, ma poi
li riabbassò a terra. Parlare con Ulf si stava rivelando
più semplice del
previsto, ma la giovane non aveva dimenticato il suo comportamento
durante quel
primo incontro, il suo sguardo freddo – disgustato
– il suo disprezzo, la sua espressione di scherno. Non sono cose facili da ignorare,
pensò, stringendo inconsciamente
i pugni.
Accanto a lei, Ulf
sospirò. «Devo dire che la realtà
è
forse un po’ migliore della prima impressione.»
Lidia alzò di nuovo lo sguardo
su di lui, sorpresa. «Cosa vorrebbe dire?»
«La prima volta che ti ho
vista», spiegò il giovane, «sembravi
una bambina terrorizzata. Eri pallidissima, tremavi come una foglia e
sembrava
che stessi per scoppiare a piangere. Non mi hai fatto una gran bella
impressione.»
Lidia storse la bocca. «Ero spaventata»
sottolineò. «Non è facile cambiare
tutto, così…»
«Lo so»
sospirò Ulf. «Ma nemmeno per me lo è. E
pensavo che, oltretutto, mi sarebbe pure toccato badare a una persona
incapace
di funzionare autonomamente, che avrebbe passato il tempo a piangere e
a
lamentarsi.»
«E invece?»
chiese Lidia, benché non fosse certa di
voler sapere quello che Ulf pensava veramente di lei. «E
invece sei saltata
dalla finestra» disse lui, con un sorriso. «Certo,
la cosa mi fa dubitare della
tua intelligenza, ma quantomeno hai dimostrato di avere un minimo di
spina
dorsale.»
Lidia scosse la testa, non sapendo
cosa pensare. Un insulto e un complimento in
poco più di
dieci parole. Notevole. L’uomo la stava ancora
fissando e lei si sentì in
dovere di commentare. «D’accordo»
sospirò. «Forse anch’io ti ho giudicato
un
po’ male. Mi dispiace essermi fidata di Unna e non di
te.»
Ulf annuì, secco.
«Unna è… a volte Unna è una
persona
un po’ difficile. Non ama molto i romani.» Lidia lo
guardò, sorpresa. «Perché?»
«Ha i suoi
motivi», mormorò l’uomo, «ma
non ti dirò
altro. Sono affari suoi e, se sei curiosa, devi chiedere a lei di
raccontarti
tutta la storia.» La fanciulla gli lanciò
un’occhiata scettica, ma Ulf parlò di
nuovo, impedendole di protestare. «Siamo arrivati»
disse, indicando i primi
alberi del bosco che avevano scorto in lontananza. «Non
è possibile andare
oltre.»
Lidia annuì, osservando
il filo spinato che correva
tutt’attorno alla vegetazione, formando una barriera
invalicabile alta almeno
tre metri. «Che cosa c’è, lì
dentro?» Automaticamente, la sua mente corse a
quello che aveva letto sui libri di scuola, allo strano legame che i
Germanici
parevano avere con gli alberi, ai sacrifici che avevano luogo sui
grandi altari
di pietra nel cuore della foresta. O
quelli erano i Galli? Si chiese la fanciulla, cercando di
ricordare.
«Il luogo in cui si
portano le offerte per gli Dèi» spiegò
Ulf, interrompendo i suoi pensieri. Lidia deglutì.
«Che tipo di offerte?»
«Oh, un po’ di
tutto» rispose lui. «Pellame, pietre
preziose, oggetti di valore… gli Dèi sembrano
essere piuttosto veniali, in
queste cose. Il rito ha luogo ogni mese; e ogni mese dobbiamo lasciare
qui
almeno due carri d’argento.»
«Che cosa succede alle
cose che lasciate qui?» chiese
la fanciulla, confusa. L’uomo si strinse nelle spalle.
«Spariscono.»
«Spariscono?»
ripeté Lidia, stupita. «Ma allora questo
significa che gli Dèi esistono! Altrimenti dove andrebbero a
finire tutte
quelle cose?»
Ulf scoppiò in una
risata amara. «Non so a te, ma a me
vengono in mente un paio di altre opzioni. Ogni mese costruiamo una
sorta di
enorme forno con il materiale di scarto della miniera, ogni mese ci
mettiamo
sopra le offerte per gli Dèi,
ogni
mese ci accendiamo sotto un fuoco… dopodiché
dobbiamo abbandonare la foresta e
lasciare la tua amica sacerdotessa sola con tutte quelle cose. Chi
può dire che
fine fanno le nostre offerte?»
Lidia gli lanciò
un’occhiata scettica. «Di certo non
penserai che Donna Erin possa portarsi via tutto da sola.»
Ulf scosse il capo. «Da
sola no, però…»
«Pensi che ci sia
qualcuno che l’aiuti? E per quale
scopo?» il tono di Lidia era chiaramente dubbioso e Ulf se ne
accorse. «Non lo
so: dico solo che mi sembra un po’ strano
che gli Dèi vengano a chiederci cose tanto preziose. Magari
mi sbaglio, ma a me
sembra un ottimo modo per far fessi un branco di polli e arricchirsi
alle loro
spalle.»
«Stai parlando del tuo
intero villaggio?» insistette
la ragazza, inarcando le sopracciglia, scettica. Per nulla turbato
dalla sua
domanda, Ulf scrollò le spalle. «Aspetta, prima di
giudicare: la prossima volta
assisterai anche tu alla cerimonia e poi mi dirai cosa ne
pensi.»
Anche se poco convinta, la
fanciulla non ribatté.
***
La fiamma divampò
violenta e Lidia balzò all’indietro
con un gridolino, agitando la spatola in direzione della padella.
Qualcosa non
stava andando per il verso giusto.
Con un pessimo presentimento, la
ragazza pigiò di
nuovo il bottone, sperando di abbassare la potenza della fiamma, ma
sbagliò
tasto e il fornello acquistò potenza, anziché
perderne. Premendo convulsamente
un altro paio di pulsanti, la fanciulla riuscì a domare il
fuoco fino a
spegnerlo completamente e poi, a denti stretti, si avvicinò
ai ritagli pressati
di patate che Donna Edda aveva preparato con lei, quella mattina.
Sollevandoli
cautamente con la spatola – e facendone cadere una buona
parte sul piano di
cottura – Lidia ebbe la conferma di ciò che
l’odore di bruciato già le aveva
fatto sospettare: erano completamente carbonizzati.
E
adesso che
faccio?
Desolata, la fanciulla raggiunse il
tavolo e si lasciò
cadere sulla panca, appoggiando la spatola sul ripiano di legno e
nascondendo
il volto fra le mani. Improvvisamente apprezzava molto di
più il lavoro che la
servitù aveva svolto ogni giorno nella sua domus
romana, in maniera così efficiente e silenziosa
che lei quasi non si era
nemmeno accorta dell’impegno necessario per mandare avanti
una casa.
Poco dopo averle mostrato il bosco
sacro, Ulf l’aveva
riaccompagnata a casa e poi aveva fatto di nuovo ritorno alla sua
bottega. Una
volta rimasta sola, Lidia aveva deciso di rimboccarsi le maniche e
familiarizzare un po’ con quello che sarebbe stato il suo
regno. La prima
sorpresa – tutt’altro che gradita – era
stata la totale assenza dei mille
meravigliosi elettrodomestici di cui Donna Giulia le aveva parlato.
Forse era
stata un po’ ingenua a pensare che attrezzi rari e costosi
come le scope
elettriche o le lavatrici potessero esistere in quella regione
arretrata, ma
Lidia si era comunque stupita quando si era trovata davanti a una scopa
– non
ne aveva nemmeno mai toccata una! – o quando
l’occhio le era caduto sul pezzo
di sapone grezzo e sulla spazzola da bucato posata accanto a esso.
Aveva curiosato un po’ in
giro, aveva rifatto il letto
– più facile a dirsi, che a farsi, con tutte
quelle coperte che scappavano da
tutte le parti e non volevano saperne di restare al loro posto
– aveva buttato
un occhio nella dispensa e annusato i cibi che non aveva mai visto
prima,
dopodiché si era resa conto che il sole era ormai basso
sull’orizzonte e aveva
deciso che era giunta l’ora di cucinare qualcosa per cena.
Quella mattina,
Donna Edda le aveva spiegato la preparazione di un piatto a sua detta
semplicissimo – rösti,
l’aveva
chiamato - e Lidia aveva ingenuamente creduto che l’impresa
fosse alla sua
portata.
Grave errore. Il risultato era
stato mezzo chilo di
patate da buttare e un gran odore di bruciato in tutta la casa. Mentre,
controvoglia, si accingeva a scrostare la padella dai rimasugli
carbonizzati
delle patate, la porta si aprì e Ulf entrò in
casa, annusando l’aria e facendo
una smorfia. «Che cos’è questo
odore?» chiese, senza nemmeno salutarla e
correndo a spalancare una finestra.
Lidia arrossì,
continuando a dargli le spalle e senza sollevare
la testa dal lavello. «Mi è bruciata la
cena.» Con un sospiro, Ulf si portò
alle sue spalle e spiò quello che stava facendo.
«Cosa accidenti era quella
roba?»
La ragazza lasciò cadere
la padella e la spugnetta e
si girò a fronteggiarlo, indietreggiando istintivamente
contro il lavello quando
se lo trovò così vicino. «Erano
patate… arrosto.
Arrosti. Qualcosa del genere» spiegò.
«Ho fatto quello che mi ha detto tua
nonna, ma sono bruciate lo stesso. Forse la fiamma era troppo
alta…»
Ulf si sporse oltre di lei e prese
in mano la padella,
tastandone con un dito l’interno. «Ci hai messo il
burro?» chiese, amabile.
Lidia aprì la bocca per
ribattere, ma le parole le
morirono in gola. Oh. Il burro.
Notando
la sua espressione, Ulf scoppiò a ridere. «Lo
sanno tutti, che devi ungere la
pentola! Lo sapevo pure io!» Prima di riuscire a
controllarsi, la ragazza lo
colpì sul petto, cercando di allontanarlo e ottenendo solo
di farlo ridere più
forte. «Se sei tanto bravo, perché non cucini
tu?» gli chiese, offesa.
Sorridendo, evidentemente divertito
dalla situazione,
l’uomo si chinò su di lei, avvicinando il proprio
volto a quello della ragazza.
«Vuoi per caso fare cambio? Io sto in cucina e tu prendi in
mano la pialla?»
Non so
nemmeno cos’è, una pialla, pensò Lidia,
fulminandolo con lo sguardo. «Oh, finiscila!»
sbottò, cercando di allontanarlo
con una spallata. Lui resistette per un attimo, poi si
scostò, lasciandola
passare. La giovane marciò di nuovo verso il tavolo e Ulf la
seguì con lo
sguardo. «Allora?» le chiese, appoggiandosi al
lavello. «Cosa mangiamo?»
Lidia scosse le spalle, fissando il
pavimento. «Mi è
passata la fame» mugugnò, consapevole di avere
assunto un comportamento
infantile e non dando alcun peso alla cosa.
Ulf sospirò di nuovo e
raggiunse la dispensa. «Ecco
qua» disse, posandole qualcosa sotto il naso.
«Pane, formaggio e pomodori.
Grazie per la cena, moglie, davvero deliziosa.» La ragazza,
che nonostante
quello che aveva detto, era affamata, mise in bocca un pomodorino e lo
stritolò
rabbiosamente sotto ai denti. «Certo che è una
vera fortuna, averti sposato»
continuò Ulf, con aria svagata, guardandola attraverso il
tavolo. «Com’è che
aveva detto tuo padre, l’altro giorno? Che sai fare di tutto
e che impari in
fretta? Tutto vero, non c’è che dire.»
Lidia posò sul tavolo il
panino e lo fissò negli
occhi, sentendosi insolitamente coraggiosa – e stanca.
«Perché mi prendi sempre
in giro?» gli chiese, seria. L’uomo si strinse
nelle spalle. «Mi sembra che sia
il modo migliore per farti reagire» rispose, altrettanto
serio. «Meglio
arrabbiata, che in lacrime, per quanto mi riguarda.»
Lidia scosse rabbiosamente la
testa. «Potresti anche
cercare di essere un po’ più gentile»
mormorò, infilandosi una manciata di
pomodorini nel grembiule e alzandosi dal tavolo. Stava per lasciare la
stanza
quando la mano di Ulf, che la afferrò per il braccio, la
costrinse a fermarsi. «Lidia»
le disse, senza lasciare la presa. «Io non so che cosa ti
aspetti da me.»
Quelle parole la colsero di
sorpresa e la ragazza alzò
lo sguardo fino a incrociare quello azzurro dell’uomo. Che
cosa si aspettava da
lui? Non si era mai posta quella domanda. «Non lo
so» ammise, spostando lo
sguardo sulla mano dell’uomo, che, nel frattempo, era scesa a
circondarle
leggermente il polso. «Forse solo un po’ di
comprensione.»
«Che cosa vuol dire comprensione?» le chiese lui,
continuando a fissarla.
«Comprensione vuol
dire…» istintivamente, la mano
della giovane volò al polsino della camicia di Ulf,
allacciato male, e lo
sistemò. «Comprensione vuol dire avere solo un
po’ più di pazienza. Mi serve
tempo per adattarmi a tutta questa situazione.»
Ulf inspirò a fondo,
prendendo le mani della ragazza
nelle sue. «Io posso anche avere pazienza», disse,
dopo un attimo, «ma tu devi
cercare di aiutarmi. Non pretenderò mai niente da te, te
l’ho detto. Non mi
interessa averti come un uomo ha la propria moglie, ma ho bisogno di
sapere che
tu qui puoi resistere. Posso lasciarti tutto il tempo che ti serve, ma
devo
sapere che alla fine ti adatterai a questa
situazione, come dici tu.»
«Per sempre»
sospirò Lidia, senza riuscire a
trattenere quelle parole, né a celare lo sconforto che esse
le provocavano.
«Per sempre», confermò Ulf, con una
smorfia amara, «o, per lo meno, per
parecchio tempo. Non dico che le cose non cambieranno, un giorno, ma
non posso
farti alcuna promessa, in questo senso… per questo ho
bisogno di sapere che ce
la farai e che ti impegnerai per fare funzionare le cose.»
Tito. Il ragazzo e la promessa che le
aveva fatto,
l’impegno che aveva preso, le tornarono subito in mente, ma
la fanciulla si
sforzò di sorridere, alzando gli occhi sul volto di Ulf.
«Cercherò di non
bruciare più la cena» promise. L’uomo
parve considerarla una risposta
sufficiente e con un sorriso le sfiorò una guancia,
spostando una ciocca di capelli
castani che erano scesi sul suo viso. Per un qualche motivo la ragazza
sentì
gli occhi inumidirsi a quel tocco leggero, ma, sentendosi stupida,
ricacciò
ferocemente indietro le lacrime e, liberatasi dalla presa di Ulf, si
avvicinò
di nuovo al lavello.
Colpa
della
tensione,
pensò, passando gli occhi
sulla superficie smaltata. «E adesso cosa fai?» le
chiese Ulf, avvicinandosi
nuovamente a lei. Lidia
sollevò la
padella incrostata e, sospirando per scacciare quella strana
malinconia, la
sventolò debolmente in aria. «Credo
che
sia il caso di pulire questa» disse, rimboccandosi le maniche.
***
Più tardi, quando si
ritrovò sola sotto le coperte,
Lidia si rigirò per l’ennesima volta, incapace di
prendere sonno. Ulf era
andato a trovare con alcuni amici e, sebbene l’avesse
invitata ad accompagnarlo,
Lidia aveva preferito andare a letto, tremando al pensiero di trovarsi
in
compagnia di tanti uomini sconosciuti.
Anche se normalmente non amava la
solitudine, in
quella particolare occasione la ragazza era grata della
possibilità di
riflettere nella tranquillità della propria stanza. La
domanda di Ulf le era
rimasta impressa nella mente.
Che
cosa mi
aspetto da lui?
Si chiese di nuovo la
fanciulla. “Niente” era la risposta più
sincera. Lidia si trovava nella scomoda
posizione di dover riconoscere di essere partita troppo prevenuta nei
confronti
di suo marito; e non solo: doveva anche prendere atto del fatto che
Lucilla
aveva avuto ragione, quando le aveva detto che, rifiutandosi di pensare
al suo
imminente matrimonio con il germanico, non avrebbe fatto altro che
peggiorare
le cose. Certo, la sua amica l’aveva forse intesa in maniera
un po’ diversa, ma
Lidia era stata così convinta di andare in pasto a un mostro
che, quando invece
si era trovata di fronte a un uomo – strano, ma comunque un
uomo – non aveva
saputo come reagire.
Scivolando sulla schiena, Lidia si
domandò cosa
avrebbe fatto, se invece di Ulf avesse trovato qualcuno come Tito: si
sarebbe
trovata altrettanto spaesata? Ma Tito e
Ulf sono troppo diversi, rifletté, non
posso fare un paragone. Ed era vero. Tito era sempre stato
molto più
accomodante, nei suoi confronti, molto più dolce.
Prendiamo
quello che è successo questa sera, per esempio: Tito mi
avrebbe messo a mio
agio, mi avrebbe detto che non importava… magari mi avrebbe
anche aiutata a
preparare qualcos’altro. No! Meglio! Avremmo ordinato
qualcosa e ci saremmo
fatti portare qualcosa di buono da fuori… Per un istante Lidia sorrise,
perdendosi in quel pensiero allettante. Non
come quel… quel… Ulf. Si trovava in
difficoltà anche solo per trovare un insulto adeguato. Anche
se, doveva
ammetterlo, anche Ulf era stato quasi dolce, a modo suo, quando le
aveva
promesso di concederle tutto il tempo di cui avrebbe avuto bisogno.
Non
come
Tito, però.
Non come Tito, no, però
la ragazza era sempre più
consapevole dei vaghi sensi di colpa che la coglievano al pensiero
della fuga
che aveva in programma per luglio, quando il giovane romano sarebbe
venuto a
prenderla. Non gli devo niente,
però… però
aveva la sensazione di tradire, se non lui, quantomeno la sua fiducia. Ma che alternative ho?
L’alternativa, lo sapeva,
era una sola: restare a
Erding e continuare la farsa, così come desiderava Ulf. La
fanciulla storse la
bocca a quel pensiero: l’idea di vivere una vita di menzogne
non l’allettava
nemmeno un po’. Prendendo il coraggio a due mani, si spinse a
esaminare un’idea
che aveva sfiorato la sua mente un paio di volte, negli ultimi giorni:
e se
fosse diventata davvero la moglie
di
Ulf? Subito scartò l’ipotesi: non solo
perché l’esistenza di Tito e dei
sentimenti che provava per lui rendevano impraticabile quella via, ma
anche
perché il germanico aveva espresso più volte e
chiaramente il suo disinteresse
per lei. Molto chiaramente,
ricordò
la ragazza, con un sospiro irritato. Ha
anche detto che sono “bruttina”.
Per l’ennesima volta, la
fanciulla si chiese se l’uomo
avesse un’altra donna, da qualche parte; e per
l’ennesima volta il pensiero le
provocò una fastidiosa fitta allo stomaco. Gli
conviene non avere nessun’altra: sarebbe troppo comoda,
così! Pensò,
battagliera, prima di rigirarsi sulla pancia e affondare il volto nel
cuscino. No,
la cosa migliore era attenersi al piano e tagliare la corda al momento
opportuno. Sì, è la
cosa migliore. Non
c’è altra via, davvero, decise la
giovane, chiudendo gli occhi risoluta e
cercando di allontanare i dubbi e le incertezze.
Quando, diverse ore dopo, Ulf fece
ritorno e lei si
ritrovò a fingere di dormire, la ragazza non ebbe
però alcun dubbio: a tenerla
sveglia non era la paura di vivere un nuovo giorno in una terra
sconosciuta, ma
la sua coscienza sporca.