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Autore: FrancescaPotter    01/12/2017    2 recensioni
Long sugli ipotetici figli delle coppie principali di Shadowhunters (Clace, Jemma e Sizzy), ambientata circa vent'anni dopo gli avvenimenti di TDA e TWP. TWP non è ancora uscito al momento della pubblicazione, e nemmeno l'ultimo libro di TDA; questa storia contiene spoiler da tutti i libri della Clare fino a Lord of Shadows, Cronache dell'Accademia comprese.
Dal quarto capitolo:
"Will abbassò il braccio e distolse lo sguardo, ma lei gli prese delicatamente il polso. «Lo sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero?» gli chiese, morsicandosi inconsapevolmente il labbro inferiore. Era una cosa che faceva spesso e che faceva uscire Will di testa. «So che è George il tuo parabatai» continuò abbassando la voce, nonostante non ce ne fosse bisogno perché George era concentrato sul suo cibo e Cath stava leggendo qualcosa sul cellulare. «Ma puoi sempre contare su di me. Mi puoi dire tutto. Lo sai, vero?»
Will sospirò. «Lo so, posso dirti tutto».
Tranne che sono innamorato di te."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Clarissa, Emma Carstairs, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Julian Blackthorn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte terza 
 
Capitolo diciassette

«Ma io dovevo dir loro di mio padre» disse Cath, passando il biglietto a George.
«Potrai parlarne con loro questo pomeriggio, o domani» disse George. «Non preoccuparti».
Cath aveva dormito a casa sua la notte precedente. I genitori di George erano stati così contenti di vederla che George e Cath non se l’erano sentita di rovinare il buonumore con brutte notizie, e avevano deciso che avrebbero raccontato loro della situazione a casa di Cath quella mattina.
Ma quella mattina Isabelle e Simon erano all’Istituto. Per George non era un problema: avevano aspettato anni, potevano aspettare anche un giorno in più.
«Ti accompagno a casa» disse, prendendo la propria giacca e porgendo a Cath il suo cappotto. «Tuo padre dev’essere preoccupato».
Cath alzò le spalle. «Non direi. Non risponde al telefono da giorni».
Non era strano che il padre di Cath ignorasse le sue chiamate. A volte era ossessionato dalla figlia e voleva conoscere ogni suo spostamento, arrivando anche al punto di non farla uscire con George, altre invece era come se Cath per lui non esistesse.
Presero un taxi verso Brooklyn e passarono il viaggio a parlare a bassa voce tra di loro, cercando di suonare i più normali possibili. Non menzionarono quanto accaduto qualche giorno prima, niente spade angeliche, o rune, o ferite mortali, e George ne era grato. Gli piaceva fare finta di essere un ragazzo mondano qualunque, la cui unica preoccupazione al mondo era la scelta del giorno delle proprie nozze.
«Non credo che lo dirò a mio padre». Cath si sistemò meglio l’anello sull’anulare. «Per adesso, almeno».
«Perché no?» chiese George.
«Ho paura che dia di matto, soprattutto dopo che sono stata via per tutto questo tempo senza dare mie notizie» spiegò Cath.
«È stato lui a non rispondere alle tue chiamate». George sentiva la familiare rabbia che lo attraversava ogni volta che pensava al padre di Cath farsi strada dentro di lui.
«Vero, ma non puoi prevedere le sue reazioni. Sai com’è fatto». George lo sapeva. Lo sapeva, ma non aveva ancora imparato ad accettarlo. «Dovremmo dirlo ai tuoi però».
George sorrise. «Mia mamma andrà su di giri».
«Ci preparerà una torta per festeggiare». Cath sembrava leggermente impaurita e George non la biasimava. Le torte di sua madre erano immangiabili, in qualche modo riusciva a farle uscire bruciate all’esterno e crude all’interno.
«Che l’Angelo ce ne scampi» borbottò George, dando una banconota al tassista e scendendo dall’auto.
Erano arrivati a Brooklyn, davanti al palazzo di Cath. Quella mattina il sole autunnale splendeva nel cielo, illuminando New York con i suoi tiepidi raggi.
«Ti faccio sapere come va» disse Cath, salendo sul primo gradino e voltandosi verso di lui.
George le si avvicinò e le posò un bacio sulla fronte.
«Se vuoi che salga con te, devi solo dirlo».
Cath scosse il capo. «Va bene così».
George non insistette e la guardò scomparire oltre il portone, pregando che andasse tutto bene, che suo padre non fosse ubriaco e che non si arrabbiasse con lei. Non vedeva l’ora di portarla via di lì e sperava che i suoi genitori le avrebbero permesso di rimanere a vivere con loro. Conoscendo sua madre, sapeva che era più che probabile: non l’avrebbe mai fatta ritornare a vivere con Augustin Bellefleur.
Dal momento che era una bella giornata, George decise di fare una passeggiata e di passare dal suo negozio di dischi preferito lì a Brooklyn per controllare se avessero il nuovo album del Black Diamonds. Almeno quella sera avrebbe potuto ascoltarlo con Cath nella speranza di sollevarle l’umore, nonostante i Black Diamonds fossero una band metal e i loro testi non fossero esattamente un distillato di felicità, ma a Cath piacevano.
Aprì la porta con una spallata e per poco non si scontrò con una ragazza con i capelli fucsia e un piercing al naso. George le chiese scusa distrattamente e sentì gli occhi di lei squadrarlo dalla testa ai piedi prima di uscire dal negozio. George era abituato ad attirare l’attenzione ovunque andasse, dopotutto quando eri alto un metro e novantacinque non potevi farne a meno. Se a questo aggiungevi anche una dose di bell’aspetto, allora non potevi davvero evitare che le ragazze, e anche qualche ragazzo, ti guardassero con approvazione. George sapeva di essere bello, ma da quando aveva incontrato Cath non gli importava più così tanto. Spesso però si era ritrovato a pensare che anche a Cath dovesse succedere spesso, che i ragazzi ci provassero con lei ovunque andasse, dato che era così bella che guardarla per troppo tempo ti faceva sentire debole e pieno di energia allo stesso tempo. Almeno era così che si sentiva lui ogni volta che la guardava.
George prese il telefono, aspettandosi di trovare il solito messaggio di Cath che gli assicurava che andava tutto bene. Non era mai successo che lei non gli avesse scritto dopo essere tornata a casa: anche se in realtà stava andando tutto male, lei gli mandava sempre un sms dicendo che invece la situazione era sotto controllo per non farlo preoccupare, George lo sapeva. Perciò quando non ebbe sue notizie, iniziò a preoccuparsi.
Si sarà dimenticata, si disse, cercando di rimanere calmo. Non ha senso agitarsi. Sentiva la voce di Rose nella sua testa che gli diceva che si stava comportando in modo ridicolo. La mise a tacere con una scrollata di spalle e decise di scrivere comunque a Cath.
Stai bene?
Infilò il telefono nella tasca dei jeans e iniziò ad avventurarsi tra gli scaffali del negozio. Non era molto grande, ma gli scaffali erano alti quasi quanto lui, pieni di CD vecchi e nuovi. Si diresse nella sezione nuovi arrivi e trovò con soddisfazione il nuovo album dei Black Diamonds. Dopo averlo comprato ed essere uscito dal negozio, prese di nuovo in mano il cellulare, sperando di trovare notizie di Cath. Non trovò nulla. 
Erano passati circa trenta minuti da quando si erano salutati; non era tanto tempo e doveva smetterla di essere paranoico, continuava a ripetergli la sua parte razionale, che ormai parlava con la voce di Rose.
E se invece le fosse successo qualcosa? Se suo padre le avesse fatto del male? Continuava a chiedersi l’altra parte di lui, quella che parlava con la voce di Will.
Le zittì entrambe e decise di chiamarla per stare più tranquillo.
Cath rispose dopo molti squilli, quando George era sul punto di riattaccare.
«George» disse, la voce ridotta a un sussurro. Stava piangendo.
«Cos’è successo?» chiese George, iniziando a correre verso casa sua.
«Puoi venire qui?» Cath singhiozzò e George si mise a correre più veloce. Sentiva il sangue pulsargli nelle vene e il sapore amaro del terrore in bocca.
«Catherine» disse. Aveva voltato l’angolo e vedeva il suo palazzo in lontananza. «Sei ferita? Cos’è successo?»
«S-sto… bene, ti apro la porta». Cath riagganciò il telefono e George imprecò, perché se c’era una cosa di cui era sicuro era che non stava bene.
Quella era la volta buona che se la caricava in spalla e la portava via da quella casa con la forza. Non l’avrebbe lasciata lì un secondo di più. Era stufo marcio di vederla soffrire in quel modo e di essere totalmente impotente di fronte al suo dolore.
Trovò il portone aperto e salì subito sull’ascensore, premendo il tasto del quattordicesimo piano più volte del necessario. Arrivato sul pianerottolo si precipitò nell’appartamento di Cath e si bloccò. C’era un odore nauseante di sangue misto a carne andata a male.
«Cath» la chiamò George. Non aveva portato armi con sé perché era giorno, ma nell’appartamento di Cath tutte le tende erano tirate e regnava l’oscurità. «Catherine!»
«Sono qui» rispose lei dalla cucina.
George la raggiunse e non riuscì a trattenere un verso strozzato quando la vide seduta per terra con le gambe strette al petto e un coltello abbandonato davanti a sé. Aveva un taglio sulla guancia e la sua maglietta era sporca di sangue e di icore. Il suo viso era bagnato di lacrime e quando alzò lo sguardo su di lui, George sentì il proprio cuore andare in mille pezzi.
Le si inginocchiò di fianco e le accarezzò i capelli.
«È morto» disse lei, guardando George senza però vederlo per davvero. Era come se stesse fissando nel vuoto. «Sono morti tutti e due».
George deglutì. «Chi è morto?» chiese, sapendo già la risposta.
Cath indicò con mano tremante davanti a sé. Per terra, dalla parte opposta del tavolo, era sdraiato Augustin Bellefleur, con il petto e il ventre completamente squarciati dalle zanne di un demone. Vicino a lui c’erano un paio di bottiglie di vino, segno che doveva essere ubriaco al momento dell’attacco. I suoi occhi chiari erano spalancati, pieni di terrore e confusione. Probabilmente era morto senza neanche capire che cosa stesse accadendo.
«L’ho trovato così quando sono tornata» iniziò a spiegare Cath. Stava tremando e faceva fatica a parlare. «Credevo che il demone se ne fosse andato ma era ancora qui. Mi ha colpita da dietro, non so bene dove. Non sento niente».
George le esaminò subito la schiena e vide un profondo taglio sulla sua scapola destra.
«Hai bisogno di un iratze» disse, tirando fuori lo stilo e iniziando a disegnarle la runa sul collo. «Il demone. Catherine, il demone dov’è?»
«L’ho ucciso» sussurrò lei. «Non credo ce ne siano altri».
George aveva finito la runa e la strinse a sé, dandole un bacio sulla tempia. «Dobbiamo andare».
Cath scosse il capo e iniziò a piangere più forte coprendosi il viso con le mani. «Non posso. Non ce la faccio, George, non un’altra volta. Era l’unica famiglia che mi era rimasta, non posso lasciarlo».
«Cath, tesoro». George le fece togliere le mani dal viso e gliele strinse. Il taglio sulla guancia si stava rimarginando. «Siamo noi la tua famiglia ora. Io, Will, Rose, i miei genitori. Non sei sola, non lo sarai mai».
Cath singhiozzò e prese a tremare ancora più forte. Era chiaramente sotto shock e George non sapeva come fare per calmarla. Scarabocchiò velocemente a entrambi delle rune per celarli ai mondani e inviò un messaggio ai suoi genitori, chiedendo loro di mandare un Fratello Silente al più presto. Poi prese Cath in braccio e la sollevò da terra. Lei non protestò, non ne aveva la forza, e gli allacciò le braccia attorno al collo, premendo il viso contro alla sua guancia.
«Dove andiamo ora?» riuscì a chiedergli a bassa voce.
«A casa» rispose George. «Ora andiamo a casa».
 
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Quella mattina Rose si era svegliata con un terribile mal di testa. Non aveva dormito bene; il suo sonno era stato tormentato da incubi, diversi da quelli che aveva avuto tutta la sua famiglia. Questi erano incubi in cui Will annegava e lei lo osservava dall’esterno senza poterlo salvare, come se stesse guardando la scena dall’altra parte di un vetro indistruttibile. Non importava quanto urlasse o cercasse di raggiungerlo, Will annegava ogni volta.
Avevano parlato al telefono per un po’ la sera precedente, lei e Will. Lui le aveva raccontato che la sua famiglia aveva capito immediatamente che era successo qualcosa tra di loro e che avevano iniziato subito a prenderlo in giro, in particolare Celine. Rose era scoppiata a ridere perché come biasimarli? Will era così facile da prendere in giro.
Anche Rose lo aveva detto ai suoi genitori. Sua madre aveva fatto una battuta sugli Herondale e suo padre le aveva detto che era contento perché se doveva stare con qualcuno, era felice che quel qualcuno fosse Will. Era stata Holly ad avere la reazione più strana.
«No!» aveva detto. «No no e no! Non potete sposarvi. Poi andrai a vivere a New York e non puoi andare a vivere a New York!»
Sia Rose che suo padre erano inorriditi davanti al verbo “sposare”.
«Nessuno si sposa» aveva detto lui.
«Holly, io e Will non ci sposiamo. Stiamo solo insieme. Non vado da nessuna parte» l’aveva rassicurata Rose.
«Ma…» Holly aveva fatto una faccia confusa. «Non stavate già insieme? Come Cath e George?»
Quella domanda aveva fatto ridere Will quando Rose glielo aveva raccontato al telefono.
«Dovrebbe aprirsi un portale a breve». La voce di suo padre la riportò alla realtà. Si trovavano nel suo ufficio, in attesa che venisse aperto un portale da Idris per loro.
Rose quella mattina era euforica e cercava di nasconderlo in tutti i modi per non sembrare impazzita. Non vedeva l’ora di rivedere Will, non le importava che lo avrebbe rivisto davanti ai loro genitori e al Console in persona. Voleva solo vederlo: la sera precedente le era sembrato così stanco che non si era sentita di chiedergli di andare da lei, nonostante lui glielo avesse proposto.
Non riusciva a smettere di pensare a quando si erano baciati e soprattutto al suo maledetto collo, a come volesse baciarglielo di nuovo, a come avesse sentito il battito del suo cuore sotto le labbra e a come la sua pelle fosse morbida in quella zona così delicata.
«Ecco qua» disse Julian.
Davanti a loro si era appena aperto un portale. Lo attraversarono e si ritrovarono ad Alicante, la città di Vetro. Rose era già stata a Idris un paio di volte, ma mai nell’ufficio del Console.
Samantha Gladstones sedeva dietro una grande scrivania di legno. Era una donna sulla quarantina con la carnagione e i capelli scuri come l’ebano. Era alta più di Rose e incuteva un certo timore.
«Ben arrivati» li salutò.
Rose notò con una stretta al cuore che Will e Jace erano già lì. Voleva raggiungere Will, prendergli la mano e stringersi a lui, ma non poteva farlo. Quando i loro occhi si incontrarono lui le sorrise e Rose lesse nel suo sguardo lo stesso desiderio, lo stesso bisogno che provava lei stessa.
Si sedettero di fronte al Console e le raccontarono quanto accaduto. Iniziarono i genitori di Rose: Emma spiegò quanto successo vent’anni addietro, come avesse ucciso Fal e come credessero che i Riders li avrebbero lasciati in pace. Poi fu il turno di Jace, che presentò brevemente la situazione di New York, facendo riferimento ai tre mondani uccisi, molto probabilmente dai Riders. Infine Rose concluse la narrazione parlando dello scontro che avevano avuto con i Riders e di come Will avesse ucciso Delan.
Una volta che ebbero terminato, Samantha Gladstones rimase in silenzio per qualche secondo, poi parlò.
«C’è una cosa che non mi è chiara» disse. «Se i Riders vogliono uccidere voi, i Blackthorn, perché prendersela con altri rischiando di inimicarsi tutto il Conclave?»
«Quando ho ucciso Fal il nuovo Re della Corte Unseelie, Kieran, ha fatto un incantesimo di protezione su Julian e me» disse Emma. «Così che i Riders avrebbero avuto più difficoltà a trovarci, ma non avevamo idea che avrebbero fatto strage di Shadowhunters e mondani nel tentativo di raggiungerci. Nemmeno pensavano che si trattasse di loro all’inizio, come avremmo potuto capirlo? Abbiamo iniziato a sospettare di loro solo quando sono incominciati i sogni».
«E perché non me ne avete parlato subito?» chiese il Console. «Sareste dovuti venire da me immediatamente».
«Non potevamo» disse Julian. La sua voce era così fredda da fare paura a Rose stessa. Non lo aveva mai visto così serio in tutta la sua vita. «Avete sentito Emma. Nel loro messaggio hanno scritto chiaramente di non cercare aiuto. Se vi avessimo contattato, lo avrebbero saputo. Abbiamo rischiato mandando Mark nella Corte Unseelie per avere udienza con il Re, non potevamo rischiare oltre».
Rose era abituata al lato mite e gentile di suo padre, ma più volte sua madre le aveva detto che Julian sapeva essere spietato e freddo come il ghiaccio quando si trattava della propria famiglia. Rose non le aveva mai creduto fino in fondo. Ora le credeva.
Il Console Gladstones annuì e si rivolse a Will.  «E tu, ragazzo?» Il suo tono era canzonatorio. «Anche tu sai creare nuove rune, quindi?»
«Sì» rispose Will. Quel giorno indossava una felpa verde scuro che gli metteva in risalto gli occhi. «Ho ucciso uno dei Riders con una normale spada angelica alla quale ho applicato la runa. Funziona».
Samantha Gladstones annuì di nuovo, portandosi le mani giunte davanti alle labbra come se stesse pregando. «Molto bene» disse infine. «Mostrami questa runa».
«Ha carta e penna?» chiese Will.
Samantha sventolò una mano per aria, indicandogli la propria scrivania e facendogli segno di usare quello di cui aveva bisogno.
Will prese un post-it e una penna nera e iniziò a disegnare. Era un maniaco della precisione e avrebbe voluto rendere la runa al meglio, Rose lo sapeva. Tracciò ogni linea con cura, come se stesse applicando la runa su un’arma e non la stesse solamente abbozzando su un post-it.
«Ecco qui». Diede il post-it al Console. Lei lo prese e lo osservò per qualche istante, una ruga di espressione che le solcava la fronte.
«Non ho mai visto una runa del genere» disse.
«No» concordò Will con calma. «Non l’ha mai vista perché l’ho creata io».
Rose trattenne una risata e intravide Jace fare lo stesso. I suoi genitori invece parevano troppo scossi per ridere.
Il Console sorrise e poggiò il post-it sulla scrivania. «Molto bene. Domattina mostreremo la runa al Concilio e penseremo a una strategia per sconfiggere i Riders di Mannan». Li guardò uno ad uno con espressione seria. «Non so come, non so quando, ma posso garantirvi che pagheranno per aver minacciato e ucciso dei Nephilim».
 
«Tutto ciò che possiamo fare ora è aspettare» disse Jace una volta che furono usciti dall’ufficio del Console.
Rose continuava a guardare Will, ma lui non ricambiava il suo sguardo. Probabilmente era scosso.
«Non mi è mai piaciuta Samantha Gladstones» borbottò Emma.
«Em» la riprese Julian. Le passò un braccio attorno alle spalle e l’attirò a sé. «Non qui, non davanti al suo ufficio».
Si avviarono lungo il corridoio verso l’uscita; Will si infilò le mani in tasca e fece per seguirli, ma Rose lo prese per il braccio e lo fece voltare verso di sé.
Gli sorrise. «Stai bene?»
Will finalmente la guardò. I suoi occhi verdi parvero brillare quando si posarono su di lei e il sorriso di Rose si fece ancora più grande.
Will abbassò leggermente il capo e la baciò, fregandosene che i suoi genitori fossero solo a qualche metro di distanza.
«Stanco» le sussurrò sulle labbra. «Mi hanno fatto dormire solo sette ore. Tu?»
A Rose venne da ridere perché Will avrebbe dormito anche dodici ore di fila se nessuno lo avesse svegliato. «Io dormo sette ore se sono fortunata».
Premette di nuovo le labbra sulle sue, gli posò una mano sul viso e gli passò l’altra tra i capelli, consapevole che glieli stesse scompigliando e che Will l’avrebbe maledetta non appena avesse visto il suo riflesso.
Will le baciò la guancia e la strinse a sé, abbracciandola forte. Rose seppellì il viso nell’incavo del suo collo e gli diede un bacio proprio lì.
Will rabbrividì e Rose sospirò. Finalmente.
«Per quanto mi dispiaccia interrompervi» disse una voce divertita, quella di Jace. «Dobbiamo andare».
Will lasciò andare Rose e si passò una mano tra i capelli per cercare di sistemarseli. Era arrossito sulle guance e Rose provò un moto di affetto nei suoi confronti così forte da farle male al petto.
«E poi la Guardia non mi pare proprio il posto più adatto a fare certe cose» commentò sua madre con un sorrisetto.
«Noi non…» iniziò Will. «Uhm…»
«Cosa?» chiese Julian piatto. «Non è come sembra?»
Will ammutolì e Rose scoppiò a ridere.
 
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George aveva riportato Cath a casa e l’aveva rimessa per terra, notando che aveva smesso di tremare. Durante il viaggio in metropolitana, George l’aveva stretta a sé più forte, sperando che si tranquillizzasse almeno un po’. Le ferite di Cath stavano guarendo ma i suoi vestiti erano ancora impregnati di sangue e i suoi capelli attaccati al collo e alle guance come una seconda pelle.
George le mise una mano sulla schiena e la portò in bagno.
«Devi lavare via l’icore» le disse.
Cath scosse il capo distrattamente, come se non lo stesse ascoltando e si guardò attorno come se non si rendesse conto di dove si trovava.
«Hai icore su tutta la schiena e le braccia, Cath». George cercò di usare il tono di voce più gentile che possedeva. «Aspetta un secondo che vado a prenderti qualcosa di pulito».
Corse fuori dal bagno e andò nella camera dei suoi genitori, con la vana speranza di trovare dei vestiti per Cath nel guardaroba di sua madre.
Isabelle Lightwood aveva molti vestiti, tanto che aveva invaso la parte di armadio che spettava al povero Simon, che si era ritrovato a dover appendere le camicie sulla maniglia della porta. Non sarebbe stato un problema trovare qualcosa per Cath, se solo Cath non avesse portato due taglie in meno di Isabelle e non fosse stata venti centimetri più bassa.
Come previsto, George non trovò niente che non avrebbe fatto sembrare Cath ridicola, perciò si limitò a prendere un asciugamano per poi dirigersi nella propria camera alla ricerca di una delle sue felpe.
Tornò in bagno cinque minuti più tardi e trovò Cath in biancheria intima mentre si toglieva con una smorfia la maglietta. La ferita si stava rimarginando ma stava facendo infezione per via del sangue demoniaco, che non solo le sporcava la schiena, ma anche le braccia e il collo.
George appoggiò i vestiti sul ripiano accanto al lavandino e le sorrise, osservandola per un secondo di troppo e pensando che una persona tanto bella esteriormente quanto interiormente non meritasse di soffrire in quel modo.
«Grazie» sussurrò lei senza però guardarlo. Aveva attentamente evitato il suo sguardo da quando avevano lasciato Brooklyn. 
George le si avvicinò e le prese le mani tra le sue. Erano gelate e la sua pelle stava iniziando ad arrossarsi là dove si era sporcata di sangue demoniaco.
«Devi ripulire la ferita». Le diede un bacio a fior di labbra. «Se vuoi mi faccio la doccia con te». Non c’era malizia nelle sue parole, solo il puro e semplice desiderio di farla sentire meglio. «Qualunque cosa tu voglia, Catherine. Devi solo chiedere».
Cath gli mise una mano sul petto. «Ce la faccio».
«Okay». George fece per aggiungere qualcos’altro ma non sapeva che cosa dire. «Mi raccomando alla ferita». Si allontanò da lei per aprire l’acqua della doccia, la temperatura al massimo.
«Grazie, George» disse di nuovo Cath. «Quello che stai facendo per me…»
George si voltò e le sorrise. «Non devi…»
«No, aspetta» disse lei. Gli si avvicinò e finalmente lo guardò negli occhi. C’era un’urgenza nella sua voce che George non le aveva mai associato. «Quando ho visto mio padre a terra morto, ho pensato di aver perso tutto. La verità è che ho permesso al demone di colpirmi, volevo che mi colpisse. Non mi importava se vivevo o se morivo, sono così stanca, mi sono sentita come se non mi fosse rimasto più niente. E poi ho visto l’anello». Cath abbassò lo sguardo sul suo anulare. «E mi sono resa conto che non potevo farti questo, non potevo lasciare che il demone mi uccidesse».
George trattenne il fiato. «Catherine».
«Sei l’unico motivo per cui non gli ho permesso di uccidermi». Gli occhi di Cath brillavano e parevano più chiari del solito. «Perché ti amo così tanto, George. Ti prego, non morire anche tu».
George sentì un nodo alla gola che gli impediva di parlare. Avrebbe voluto dirle che la amava più di ogni altra cosa al mondo, che era la miglior cosa che gli fosse mai successa, che il suo cuore, la sua anima e il suo corpo erano suoi e che poteva farne ciò che credeva, ma gli mancavano le parole. Voleva distruggere qualcosa, perché stare inerme davanti al dolore di Cath lo stava facendo impazzire. Lì, in quel momento, promise a se stesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa per renderla felice e che non avrebbe permesso più a nessuno di ferirla in quel modo, a nessuno. Avrebbero dovuto camminare sul suo cadavere prima di riuscire a farle di nuovo del male.
«Non ho in programma di morire». George deglutì. Stava cercando di farla ridere, ma gli tremava la voce. «Non nell’immediato futuro almeno, quindi dovrai sopportarmi ancora per un po’. Per il resto dei nostri giorni, temo».
Cath lo prese per la maglietta e lo fece chinare verso di sé per baciarlo. Fu un bacio lento e dolce con il quale George cercò di trasmetterle tutto ciò che provava.
«Catherine» sussurrò sulle sue labbra. «Ti amo anche io, lo sai. Vero?»
«Lo so» rispose lei, tracciandogli il contorno delle labbra con le dita.
Il bagno si era riempito di vapore grazie al getto dell’acqua calda e George sentiva i propri capelli iniziare ad appiccicarsi alla fronte e al collo. «Dovresti entrare in doccia prima che finisca l’acqua calda».
Cath parve risvegliarsi da un sogno. «Hai ragione».
George la strinse a sé un’ultima volta, le stampò un bacio sulla spalla e poi la lasciò andare. Si voltò e uscì dal bagno, cogliendo con la coda dell’occhio l’immagine di Cath che si slacciava il reggiseno.
Non fece in tempo a sedersi sul divano per metabolizzare quanto accaduto, che la porta di ingresso si spalancò e i suoi genitori si precipitarono nell’appartamento.
«Dov’è Cath?» gli chiese subito sua madre, togliendosi la sciarpa e il cappotto, e gettandoli sul divano accanto a George. I suoi lunghi capelli scuri erano legati in uno stretto chignon alla base del capo.
«In bagno. È stata colpita da un demone» spiegò George. «Ma ora sta bene» si affrettò ad aggiungere davanti alle espressioni preoccupate dei suoi. «Per quanto possa esserlo dopo quello che è successo».
 «Siamo andati anche noi a casa sua e abbiamo visto il cadavere». Suo padre si tolse la giacca e, al contrario di sua madre, la appese al suo posto sull’appendiabiti. «I Fratelli Silenti lo hanno portato alla Città di Ossa per esaminare le ferite. Una cosa però non mi è chiara». Suo padre si sedette accanto a George e lo guardò con i suoi grandi occhi nocciola. «George, perché ci sono così tante bottiglie di vino a casa di Cath? Ne abbiamo trovate tre vuote di fianco al cadavere. E ce n’erano almeno una decina piene nella credenza».
George sentì il sangue congelarsi nelle vene. Non sapeva come dirlo, non sapeva se spettasse a lui dirlo e, ora che era giunto il momento, non sapeva neppure se avesse davvero la forza per dirlo. 
Quindi rimase in silenzio.
«Che cosa c’è, George?» chiese sua madre. Stava in piedi davanti a loro e aveva incrociato le braccia al petto, osservandolo con espressione dura.
«Preferirei aspettare Cath» disse allora lui, con calma, cercando di non far arrabbiare troppo sua madre.
Isabelle gli lanciò un’occhiata assassina, ma Simon le impedì di sgridarlo.
«Va bene». Si passò una mano tra i capelli. Sembrava stanco. «Va bene così».
«Non va bene così» sibilò Isabelle.
«Izzy» disse lui. «Aspettiamo che Cath ci spieghi».
George sperò che sua madre lasciasse perdere, perché non credeva che sarebbe riuscito a tenersi tutto dentro se lei avesse insistito.
«D’accordo» acconsentì lei, per poi rivolgersi a George. «Che asciugamano le hai dato?»
George aggrottò le sopracciglia, non capendo che importanza potesse avere. «Non lo so, il primo che ho trovato».
Sua madre gettò le braccia al cielo e sbuffò. «Uomini! È importante. Gliene hai dato uno rosa?»
George guardò suo padre con aria confusa in cerca di sostegno, ma questo si limitò a scuotere il capo.
«No?» disse George. «Credo fosse un normalissimo asciugamano bianco. Si può sapere cosa c’entra?»
«Le piace il rosa». Isabelle alzò le spalle, come se fosse ovvio e lui fosse idiota per non esserci arrivato. «A Cath piace il rosa, lo indossa sempre».
«Mamma, non penso che le importi in questo…»
«E le hai dato dei vestiti puliti?»
«Sì, una mia felpa».
«Una tua felpa?» Isabelle scosse il capo e si diresse impettita nella sua camera, probabilmente alla ricerca di qualcosa di più adatto per Cath.
«Ma fa sul serio?» chiese George a suo padre. «È impazzita».
«Lo sai che deve avere qualcosa a cui pensare in queste situazioni. E che nasconde la sua preoccupazione cercando di rendersi utile in qualche modo. Sei stato bravo, George». Gli passò un braccio attorno alle spalle e lo attirò a sé. George glielo lasciò fare. «Sono fiero di te. Non era una situazione facile».
«No» sussurrò George, sapendo che suo padre aveva già capito tutto. «Non lo era».
«Cath, tesoro» stava dicendo Isabelle bussando piano alla porta del bagno. Il getto dell’acqua si era fermato, segno che Cath era uscita dalla doccia. «Posso entrare? Ti aiuto a bendare la ferita».
George non sentì la risposta di Cath, ma sentì la porta aprirsi e sua madre dirle qualcosa con un tono di voce allegro.
George sospirò e si passò una mano sul viso. «Lo odio. È orribile perché sta soffrendo e non posso fare niente per farla stare meglio».
«A volte basta solo far sapere all’altra persona che ci sei per lei».
«Non è abbastanza» rispose George. «Come può essere abbastanza?»
«Magari non lo è» disse suo padre. «Ma è tutto ciò che puoi fare».
Rimasero in silenzio per un po’, fino a quando Isabelle e Cath si unirono a loro. Cath aveva rimesso i suoi jeans, che non erano stati rovinati dall’icore, e George venne attraversato da una scossa di gioia quando vide che aveva indossato la sua felpa. Guardò sua madre con sufficienza: visto che ha preferito la mia felpa?
George le fece spazio accanto a sé sul divano e Cath gli si sedette vicino, così che si trovasse in mezzo tra George e suo padre. George le diede un bacio tra i capelli e le prese la mano.
«Mamma non ti ha aggredito verbalmente e psicologicamente, vero?»
Isabelle alzò gli occhi al cielo e si mise le mani sui fianchi.
«No». Cath sorrise e George esultò internamente per essere riuscito a suscitare in lei una reazione. «Certo che no».
«I miei vestiti sono tutti davvero troppo grandi» disse Isabelle. «Pomeriggio andiamo a casa tua a prendere le tue cose».
Cath annuì. «Grazie, io… mi dispiace tanto, immagino abbiate visto le bottiglie di vino».
George notò i suoi genitori scambiarsi un’occhiata piena di tensione. Cath gli strinse la mano, come se stesse cercando di farsi forza, e George si ritrovò a pensare che, se avesse potuto, le avrebbe donato tutta la propria energia per superare quel momento.
«Sì» disse Simon. «Le abbiamo viste».
Gli occhi di Cath si erano ormai riempiti di lacrime. George sapeva che non sarebbe riuscita a raccontare niente in quelle condizioni.
«Mio padre…». Si bloccò e prese un respiro profondo. «Lui era…». Si coprì il viso con le mani. «George, puoi dirlo tu? Io non riesco».
E quindi George raccontò ogni cosa, sentendo gli occhi dei suoi genitori fissi su di sé. Mentre spiegava di come il padre di Cath soffrisse di depressione da quando la moglie era morta e di come le sue condizioni fossero peggiorate dopo il trasferimento in America, intravide suo padre passare un braccio attorno alle spalle di Cath e darle un bacio sulla tempia.
«Non posso credere che tu non abbia detto niente!» esclamò sua madre furiosa. I suoi occhi scuri, uguali a quelli di George, sparavano scintille. «Non ci posso credere!» Poi si rivolse a Simon. «Te l’avevo detto che c’era qualcosa che non andava».
Simon si limitò ad annuire con aria triste, continuando ad accarezzare gentilmente i capelli di Cath.
«Che cos’avrei dovuto fare?» chiese George. Sapeva che i suoi genitori si sarebbero arrabbiati con lui, eppure non era pronto a sostenere lo sguardo deluso di sua madre.
«Dircelo. Pensavo ti fidassi di noi».
«Cath non voleva che ve ne parlassi». George non stava cercando né di scaricare la colpa su di lei, né di lavarsene le mani, voleva solo che sua madre capisse. «Stavo rispettando la sua volontà. Certo che mi fido di voi».
«Non è colpa di George» sussurrò Cath. «L’ho pregato io di non dire niente e vi giuro che ha tentato in tutti i modi di convincermi a parlarne con voi. E lo aveva finalmente fatto, mi aveva convinta e stavo per dirvi tutto prima che mio padre…» Cath sbiancò. «Mi dispiace tanto. Voi siete sempre stati fantastici con me, e io vi ho ripagato chiedendo a vostro figlio di mentirvi. È solo che non volevo che mio padre venisse rinchiuso, speravo potesse migliorare, tornare ad essere quello di un tempo e…»
«Cath» la interruppe Simon. «Cath, ferma. Non devi chiederci scusa, non siamo arrabbiati con te. Dev’essere stata una situazione orribile». Lanciò uno sguardo ammonitore a Isabelle, che parve sgonfiarsi come un palloncino.
«Cath, tesoro, non siamo arrabbiati con te» la rassicurò anche lei. «E neanche con George a dir la verità. Avrei solo voluto che ce lo aveste detto prima. Avremmo potuto aiutarti. Odio che tu abbia vissuto per tutto quel tempo con una persona che ti trattava male».
«Lo sai cosa potremmo fare?» le propose Simon. «Una maratona di tutti i film di Star Wars».
Cath iniziò a piangere e George scambiò un’occhiata allarmata con suo padre da sopra la testa di lei, temendo che stesse andando nuovamente in shock. Simon la attirò sé e Cath seppellì il viso contro al suo petto. «Preferisci Star Trek? No, dai, Cath. Ti credevo una tipa a posto».
Cath si mise a ridere e George mimò un grazie con le labbra nella direzione di suo padre.
«Ovviamente starai qui ora» decise Isabelle.
Simon lasciò andare Cath, che si asciugò il viso con le mani, e sospirò. «Non è così semplice».
George si allarmò e si mise a sedere dritto. «Cath non va da nessuna parte» disse. «Rimane qui con noi».
«Non possiamo tenerla qui» disse suo padre. «È minorenne, il Conclave non lo permetterà. Vuole avere la maggior parte di Shadowhunters possibile sotto al proprio controllo, proporranno certamente di mandarla in Accademia a Idris».
Cath divenne dello stesso colore di un panno sporco ma non disse niente.
«No!» esclamarono all’unisono George e sua madre.
«Non essere ridicolo, Simon» sbottò Isabelle.
«Non puoi lasciare che la mandino in quel posto!» iniziò George. «Tu stesso ci sei stato e hai detto che…»
«Non lascerò che la mandino in Accademia» disse Simon indignato. «Ho già una soluzione, che è mandarla all’Istituto con Jace e Clary. Cath, lo sai che ti voglio bene come se fossi mia figlia, ma purtroppo il Concilio non ci permetterà mai di tenerti qui con noi. Almeno sulla carta, deve risultare che tu vivi all’Istituto. È la soluzione più logica che tu venga assegnata all’Istituto della città, nessuno potrà muovere nessuna obiezione».
Cath annuì e George si sentì più tranquillo. Cath sarebbe stata con Will e Lizzie e i loro genitori, che le volevano bene. E George avrebbe potuto passare con lei tutto il tempo che voleva.
«È solo fino al tuo diciottesimo compleanno» continuò Simon. Poi sorrise. «Dopodiché sarai libera di fare ciò che vuoi, restare all’Istituto, venire a stare qua con noi, sposare George e andare a vivere insieme a lui…»
George sussultò. «Cosa?» decise di fingersi stupito, magari suo padre stava solo scherzando, ma lui ghignò e indicò le mani di Cath. «Pensi che non ci veda?»
«Simon, che stai dicendo?» chiese Isabelle. Seguì il suo sguardo e si portò una mano sul cuore. «O mio Dio».
Cath si guardò la mano sinistra, dove luccicava l’anello dei Lovelace, e impallidì.
«Oh, no» sussurrò tra sé e sé. «Ho dimenticato di toglierlo».
George e Cath avevano deciso di aspettare un paio di giorni prima di dare la notizia del matrimonio, perciò Cath la sera precedente aveva tolto l’anello per evitare domande a riguardo. Non le piaceva rimanere senza per troppo tempo, perciò quella mattina lo aveva indossato di nuovo e, con tutto ciò che era successo, si era dimenticata di toglierlo.
«Mi dispiace» stava dicendo Cath. «Io…»
Cath pareva mortificata e George le sorrise, perché non aveva niente per cui essere mortificata. «Lo sappiamo che non possiamo sposarci subito» disse, rivolto ai suoi genitori. George riusciva già a sentire la voce di suo padre. Cath è minorenne, non potete sposarvi ora e bla bla. George lo sapeva e non voleva sentirselo dire di nuovo.
«Aspetteremo che Cath diventi maggiorenne» si affrettò ad aggiungere. «O anche di più, se lei non si sente pronta».
Cath abbassò la testa sulle sue mani e si toccò l’anello. George notò che il suo viso aveva ripreso un po’ di colore, come se stesse arrossendo. «Non voglio aspettare» sussurrò piano, senza guardare nessuno in faccia. «Aspettare il mio diciottesimo compleanno mi sembra già troppo».
Da quando erano tornati i suoi genitori, George si era sforzato di non toccarla, di non guardarla troppo a lungo, perché sapeva che se si fosse concesso di farlo non sarebbe più riuscito a lasciarla andare. Ma in quel momento George non ce la fece più. Le prese il viso tra le mani e le stampò un bacio sulla bocca, forte, per poi sostare le labbra sulla sua guancia e sussurrarle all’orecchio che la amava, a bassa voce così che solo lei potesse a sentirlo.  
Sentì in lontananza sua madre dire qualcosa, probabilmente che era felice per loro, ma non riusciva a distinguere le sue parole.
Cath gli prese la mano e si rivolse ai suoi genitori con un leggero sorriso. «Volevamo dirvelo in modo diverso, una volta che tutto questo si fosse risolto. Mi dispiace che abbiate dovuto scoprirlo così».
«Siete impazziti?» chiese Isabelle. «Non vi avrei perdonati se aveste aspettato così tanto prima di dirmelo!» Si inginocchiò davanti al divano e li abbracciò contemporaneamente, un braccio attorno a Cath e l'altro attorno a George. «Dobbiamo fare una festa. Devo preparare una torta!»
«Mamma...»
«Non è necessario» disse Cath, dandole delle leggere pacche sulla spalla e rivolgendo un'occhiata preoccupata a George.
Anche Simon li abbracciò e diede un bacio in fronte a tutti e due. «Io propongo un matrimonio a tema Star Wars».
George grugnì. «Non se ne parla».
Cath si mise a ridere e Isabelle si alzò in piedi con un’espressione combattuta dipinta sul volto.
«Adesso non voglio davvero che Cath vada a vivere all’Istituto» disse. «Anche perché Cath all’Istituto significa George all’Istituto».
Simon sospirò e la guardò dal basso verso l’alto. «Li vedremo ancora, Iz, lo sai».
«Mamma» brontolò di nuovo George.
«D’accordo, d’accordo» sospirò Isabelle. «Cath, so che Clary cucina meglio di me e che tutti sono innamorati di Jace, ma promettimi che rimarrò la tua adulta preferita».
Cath la guardò con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta per qualche istante, poi si alzò e senza aggiungere una parola la abbracciò.
Isabelle chiuse gli occhi e la strinse a sé, accarezzandole piano i capelli come se fosse la figlia che non aveva mai avuto.

NOTE DELL'AUTRICE 
Buongiorno a tutti!
Solitamente aggiorno di pomeriggio ma oggi i miei piani sono stati ribaltati (?), quindi eccomi qua! 
Il capitolo è incentrato su George e Cath, ma nel prossimo vi prometto tanto Will-Rose e Will-Julian e anche Will-JAce. E' abbastanza deprimente come capitolo, me ne rendo conto, ma era necessario... Ripeto che con il prossimo mi farò perdonare!
Spero che vi sia piaciuto, nonostante tutto. <3 
(Nella raccolta di OS ne ho aggiunta una se la state seguendo e vi interessa!)
Nulla, me ne vado e vi lascio.

A presto e buona giornata!

Francesca 
  
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