Capitolo 8
Day 8: Pasticci e Pasticcieri
Non ero tranquilla e non ne capii il motivo visto che come al
solito avevo agito seguendo la logica e ciò che mi sentivo di fare e mi faceva
sentire più al sicuro.
A fine riunione avevo visto Nadia sorridere a Saverio mentre
lui le porgeva un bicchiere di acqua e quella stupida immagine non mi si
toglieva dalla mente.
Un gesto così, semplice, può dire tante cose: lui vuole
prendersi cura di lei, lei è felice di averlo al suo fianco.
Il gruppo mi aveva sorpreso, quando ce ne eravamo andati,
durante il breve percorso che ci separava dai vari edifici in cui alloggiavamo,
tutti avevano detto parole carine e dolci, nessuno aveva sparlato della nuova
coppietta che si era creata.
Probabilmente era in quel momento che tutto il castello di
convinzioni che mi portavo dietro crollò silenziosamente, facendomi venire
mille dubbi.
Ovviamente io e Luca alloggiavamo nell’edificio E, così,
senza dire nulla, ci eravamo ritirati insieme: lui aveva preso la chiave,
aprendo il portone principale, e mi aveva fatto passare con gentilezza prima di
avviarsi verso la sua camera e dirmi un semplice “Buonanotte”.
Non ero serena, mi ero voltata almeno un paio di volte senza
vederlo dietro di me e mi dissi che ero davvero una gran stupida.
Davvero pretendevo che mi seguisse dopo il modo in cui mi ero
comportata?
Stendermi a letto, quel letto dove ci eravamo coccolati poco
più di dodici ore prima, fu una tortura perché mi sembrava ancora di sentire il
suo cuore battere forte mentre mi stringeva.
Il mio problema, alla fine, era stato l’eventuale giudizio
altrui, non l’eventuale valutazione negativa, e ora che avevo avuto la prova
della fiducia del gruppo ero più serena e mi tormentavo per ciò che non avevo.
Non mi cambiai, non mi struccai, non feci nulla per minuti
interi fino ad appurare che, se volevo agire, dovevo farlo in fretta visto che
mancavano quindici minuti alle ventitré.
Presi un bel respiro ed uscii dalla stanza, pronta a scendere
al piano sottostante.
Non ricordo precisamente come mi ritrovai di fronte alla
stanza E18, ma bussai rapidamente, sperando che nessuno dei ragazzi si
affacciasse.
Ero nervosa, trepidante, emozionata, ma anche spaventata e
intimorita.
Da questo momento tutto sarebbe cambiato, in positivo o
negativo, e avrei dovuto facci i conti una volta per tutte.
Luca aprì la porta nel giro di pochi istanti e quando mi vide
assunse un’aria interrogativa, mentre io volevo sprofondare sotto terra perché
se ne stava solo con dei pantaloncini, con la sua pancetta in bella vista e i
capelli un po’ umidi.
Rapidamente, si affacciò, vide che non c’era nessuno e mi
fece segno di entrare senza dire nulla, evidentemente per non far sentire a
nessuno le nostre voci.
“Scusami per l’improvvisata, lo so che è tardi e che starai
morendo di sonno, sarò breve” dissi subito, con aria di scuse.
Mi ci volle uno sforzo enorme per non balbettare e
deconcentrarmi vista la situazione.
“Dimmi” si limitò a dire, tuttavia gentile come sempre.
Mi guardai le scarpe per guadagnare tempo ma poi capii di dover
risultare decisa, così lo guardai.
“Sono una stupida. Oggi sono andata in panico... Ho
sbagliato, lo so. Mi è bastato vedere Nadia e Saverio così tranquilli e i
ragazzi che li supportavano per capire che temevo solo eventuali loro reazioni.
E’ un’idiozia, lo so, e ciò ti farà cambiare ancora più idea su di me ma dovevo
dirtelo. Non ci parliamo da otto ore e ciò ha avuto un impatto negativo sulla
mia giornata. Scusami per oggi” dissi, seppur indugiando ed esitando di tanto
in tanto.
Lui mi ascoltò, le braccia incrociate, lo sguardo deciso, e
si limitò a dire un: “Ok”.
“Ok? Non hai altro da dire...?”.
Luca scrollò le spalle e con mia somma sorpresa accennò un
sorriso amaro.
“Hai detto che sono io quello che ha sempre fatto tutto,
quindi ora lascio fare a te” decretò.
“E infatti ti ho detto cosa mi è successo, perché mi sono
comportata così...”.
“Ed io ho capito”.
“E non hai nulla da dire...?”.
“Mi sono scocciato di dire, Alice”.
“Va bene. Buonanotte...” sbottai, dandogli le spalle e
dirigendomi di nuovo verso la porta, salvo poi fermarmi e rivoltarmi. “Anzi,
no! No! Non me ne se vado non mi dici qualcosa in più che “ok”, se stasera
dobbiamo chiuderla qui voglio che sia con una spiegazione, come ho fatto io
oggi” esclamai decisa, non pronta a vedere il ricordo di Luca scivolare via dai
miei ricordi.
Luca mi si avvicinò, facendomi ritrovare stretta contro la
porta.
Ricordare che solo quella mattina ci eravamo abbracciati in
quella posizione mi fece male al cuore.
“Voglio vederti agire, Alice, non hai capito? Come mi
hai detto qualche giorno fa? Che una persona non può capire le
intenzioni di qualcuno, le deve sapere ed io non posso capire cosa vuoi da me
se non me lo dimostri!” spiegò supplichevole, senza smettere di respirare in
una maniera così accelerata che sentivo il suo fiato sul suo collo.
“Io voglio passare questi giorni con te, averti al mio fianco
quando è possibile perché ho capito che non me ne frega degli altri ma solo di
ciò che tu pensi di me”.
“Sono stato male oggi” mormorò, togliendosi dei capelli umidi
dalla fronte.
“Scusami...”.
“Ma se servirà a stare bene ora non me ne frega” aggiunse
cautamente, cingendomi la vita con le mani e avvicinandomi a sé.
Volevo agire, in quel momento, subito, con urgenza, così lo
attirai a me a mia volta appoggiando le mani sul suo viso e lo baciai, sentendo
le farfalle nello stomaco quando lui rispose subito al mio gesto e schiuse le
labbra per consentirmi di approfondire il contatto.
Ci ritrovammo schiacciati contro la porta, io lo stringevo a
me mentre gli accarezzavo il petto e lui faceva vagare la mano sui miei
fianchi, al di sotto della maglietta.
In quel momento capii che non mi importava di nulla se non di
vivere ogni momento possibile con lui mentre svolgevo il mio lavoro di
mediatrice, ero pronta a mettermi in gioco con tutta me stessa perché ne valeva
decisamente la pena.
“Vedi? Ci siamo solo noi, gli altri non esistono” sussurrò
mentre mi lasciava una scia di baci tra la guancia e la spalla, insistendo sul
collo, cosa che ormai sapeva che apprezzavo particolarmente.
“Siamo solo noi” ribadii, al settimo cielo.
“Maledetta, ora non mi farai dormire...” disse, seppur
sorridendo e senza mollare la presa sui miei fianchi.
Con l’altra mano disegnò il contorno del mio viso, mi
accarezzò i capelli, senza smettere di guardarmi come se fossi un quadro che
apprezzava fin troppo.
“E se dormissi qui?” azzardai, presa dall’enfasi del momento.
Lo vidi disorientato, quasi impaurito, cosi feci un cenno col
capo.
“Che idiota, ti darei fastidio, già ieri si è dormito poco...”
borbottai, rossa in volto per la figuraccia.
“No! Alice, non dire stupidaggini! E’ che... Insomma, averti
al mio fianco tutta la notte mi farebbe fare pensieri non proprio casti e,
insomma, non voglio che tu pensi che...”.
“Luca, sono una donna adulta, consenziente ed attratta da te
e a tua volta non mi stai rendendo le cose facili visto che sei mezzo nudo”
ironizzai, accennando con lo sguardo al suo torace. “Non diciamoci
stupidaggini, insomma, mi sembra palese che nella nostra situazione qualcosa scatterà
per la volontà di entrambi! Non devi trattenerti con me, sii te stesso e... Non
è male sapere che mi desideri” aggiunsi, stringendomi a lui.
Si calò su di me, sorpreso come non mai, e mi baciò con
passione mentre tracciava il profilo della mia sagoma.
“Ti desidero, Alice, probabilmente da quando ti ho visto”
disse deciso.
“Anche io... Da quando ci siamo urlati cose a caso sotto la
pioggia, probabilmente” ridacchiai.
Continuavamo a baciarci come due adolescenti, finimmo sul
letto con io che lo sovrastavo e, senza controllarmi, lasciai che mi togliesse
la maglietta.
Mi guardò con sorpresa e dolcezza prima di attirarmi a sé e
farmi stendere al suo fianco, così ci ritrovammo viso contro viso, pelle contro
pelle.
“Se ti fa piacere in hotel, domenica, ho la camera deluxe...”
la buttai lì, senza riuscire a trattenere quell’informazione.
Mi sentivo troppo audace, il sentirmi desiderata e coccolata
faceva decisamente bene alla mia predisposizione nei suoi confronti in quella
situazione e, ovviamente, il fatto che lui si stesse comportando in maniera
gentile contribuiva non poco.
“Non era di Saverio?” chiese, incredulo.
“No, me l’ha ceduta per aver salvato la gita”.
“Mi farebbe piacere, anche se magari finiamo a dormire come
due vecchi per la stanchezza” ironizzò.
“Ma io infatti mi riferivo a questo” lo presi in giro.
Fu bello vederlo ridere di gusto, genuinamente, mentre mi
prendeva una mano e la intrecciava alla sua.
Quel gesto mi fece rabbrividire in senso positivo e mi fece
rilassare del tutto, tanto che chiusi gli occhi.
“Cinque minuti e me ne vado” promisi.
“Puoi rimanere anche fino al sedici luglio. E non lo dico
perché sei senza maglietta” mi rassicurò, prendendo la mia t-shirt e
porgendomela con gentilezza.
La indossai di nuovo, senza sapere cosa dire, mentre lui si
stendeva meglio e mi faceva segno di accoccolarmi sul suo petto.
Decisi di assecondarlo, tolsi le scarpe e mi appoggiai
sentendo, di nuovo, il suo battito.
Quella mattina ringraziai il mio orologio biologico che alle
sei e un quarto mi fece riaprire gli occhi.
Luca era al mio fianco, con i capelli ormai asciutti e un po’
crespi, forse per la mancanza di gel o spazzola, sempre senza maglietta, che mi
stringeva a sé in un modo che mi fece battere forte il cuore.
Erano anni che non mi svegliavo così, dalla vacanza a Madrid
con il mio ex.
“Luca... Scusami, corro in camera mia” sussurrai dolcemente,
senza riuscire ancora a togliere la sua mano che mi cingeva la vita.
Lui aprì gli occhi e mi sorrise, per poi mettersi a sedere
con gli occhi ancora impastati dal sonno.
“Ci siamo addormentati” constatò, sbadigliando.
“Sì, e decisamente in fretta. Questo lavoro...”.
“Ci mette k.o., maledizione”.
“Oggi niente escursione, magari ci va meglio”.
“Lo spero...”.
Mi alzai, stiracchiandomi, e lui mi imitò, per poi
abbracciarmi con dolcezza da dietro.
“Sarà dura fare finta di niente” sospirò, stringendomi con
decisione.
Chiusi gli occhi, beandomi di quel contatto, e poi mi voltai,
trovando il suo volto di fronte al mio che mi scrutava, quasi con curiosità.
“Ricorda in che condizioni sono appena sveglia e sarà più
facile” ironizzai, meritandomi uno sguardo di pura disapprovazione.
Più la gita ad Oxford si avvicinava e più spuntavano i
problemi dal punto di vista amministrativo e ovviamente Saverio non era in sé.
Quel giovedì mattina mi trascinò in lungo e in largo per i
vari uffici e fui costretta a sorbirmi tutti i battibecchi con gli inglesi.
Saverio arrabbiato che doveva controllarsi di essere educato
era un vero spettacolo: mentre ascoltava si tratteneva dal fare smorfie,
stringeva i pugni e se doveva alzare gli occhi al cielo si girava per qualche
secondo per non darlo a vedere.
“Deficienti incapaci” sbottò quindi a metà mattinata, mentre
il cortile dell’istituto si riempiva di ragazzi che avevano finalmente la tanto
agognata pausa.
“Abbiamo fatto il possibile, Saverio, andrà bene” lo
rassicurai.
“Sì ma non è tollerabile lo stesso, prima l’hotel, poi il
pullman, ora un casino per la cena del sabato ad Oxford! Non si può lavorare
così!”.
“Hai ragione...”.
“Ovvio che ho ragione”.
Stizzita, non aggiunsi altro.
“Ho bisogno di caffè, lo vuoi?” domandò, quando passammo
davanti a Luca e Nadia che chiacchieravano tra loro mentre sorvegliavano dei
ragazzi che se ne stavano seduti su delle panchine.
“No, grazie. Perché non te lo prendi con Nadia? Posso
guardare io i ragazzi, non stanno facendo niente di che” mi offrii volontaria.
“Alice, il mio rapporto con Nadia non deve cambiare lo status
quo delle cose, sta svolgendo il suo lavoro” mi ricordò, tuttavia con una
nota di amarezza nella voce.
“Hai ragione. Allora ve lo vado a prendere io, ve lo porto e
lo bevete mentre fate due chiacchiere qui, in cortile, così ti calmi” stabilii
e, senza dire altro, mi dileguai, mentre lui mi diceva che ero impazzita.
Da dove usciva quella disponibilità? Era un gesto davvero
altruista?
Sì, o, almeno, quasi.
Capivo perfettamente il dilemma di Saverio, la voglia di
trascorrere del tempo con Nadia, volevo aiutarli perché mi rivedevo in loro e
avrei tanto voluto passare del tempo con Luca semplicemente per avere una vera
conversazione con lui.
Non ci conoscevamo, davvero, per nulla!
Cosa faceva a Napoli?
Studiava, lavorava?
Aveva dei fratelli?
Qual era il suo sogno?
Mi ripromisi di dare una risposta a queste domande al più
presto, quel giorno, mentre ordinavo i caffè e li portavo in cortile.
Nadia mi guardò, stupita, mentre Saverio scuoteva il capo con
disapprovazione – ma era evidentemente divertito – ed io facevo segno a Luca di
seguirmi.
Lui mi guardò in maniera interrogativa quando ci sedemmo su
una panchina dal lato opposto del cortile, vicino a dei ragazzi che si
scattavano dei selfie e ridevano come matti.
“Saverio ha sbottato di grosso con gli inglesi quindi lo
faccio calmare un attimo. Mi ringrazierete tutti” puntualizzai.
Luca levò un sopracciglio e mi fissò.
“Che magnanima che sei” commentò, falsamente lusinghiero.
“Vero?”.
“Dai, dillo che era una scusa...”.
“Per cosa?”.
“Per passare del tempo con me, qui, nell’angolo più remoto
del cortile con dei ragazzi così presi dalle foto che non si accorgerebbero
nemmeno se ci buttassimo l’uno addosso all’altra” osservò, appoggiando una mano
sulla panchina e sfiorando impercettibilmente la mia mano, che avvicinai ancora
di più alla sua.
“Sì, ma non mi sembra che tu ti stia lamentando” lo
punzecchiai.
“Assolutamente no. E dovrei rimproverarti...”.
Lo guardai interrogativa, più seria del dovuto e lui comprese
di dover essere più specifico perché avvicinò la bocca al mio orecchio e
sussurrò: “...Perché se chiudo gli occhi ho impressa l’immagine di te senza
maglia”.
Rabbrividii e mi fu difficile mantenere la calma mentre se ne
stava a pochi centimetri da me, con il suo dopobarba dal profumo che apprezzavo
fin troppo e il suo ginocchio che sfiorava il mio.
Mi alzai di scatto e lui sembrava divertito dalla cosa.
“Così non ci arriviamo vivi a stasera, signorino” sbottai,
puntandogli l’indice contro.
“No, hai ragione. Facciamo così” disse serio, agitando le
mani in maniera quasi convulsa mentre sembrava articolare chissà quale
pensiero, “A fine pausa io e gli altri andiamo a controllare che tutti siano in
classe. Io fingerò di metterci un po’ di più e ci incontriamo nei bagni del
quarto piano, nessuno si trova mai in quella zona”.
“Saverio mi cercherà subito... Ho del lavoro da finire. A
differenza mia tu sei più autonomo, io praticamente gli vivo dietro” sospirai,
cercando di non immaginarci mentre pomiciavamo come selvaggi in un posto
squallido come il bagno.
“Allora a pranzo” tentò, “Magari non in un bagno” si
corresse, evidentemente comprendendo dalla mia espressione che non era
l’ideale.
“Vedremo” mormorai, prima di ridere vista la sua espressione
dubbiosa e insicura.
“Stasera serata recitazione e ovviamente noi saremo i primi a
dare il buon esempio” esclamò Mario a ora di pranzo, interrompendo il silenzio
misto a qualche precoce sbadiglio.
“In che senso?” domandò Clara, prima di mangiare una manciata
di patatine fritte, seguita da un mormorio di assenso.
Mario era evidentemente felice per la suspense ottenuta
perché gongolò soddisfatto e si strofinò le mani con fare diabolico.
“Avete presente quando, a Miss Italia, le concorrenti vedono
la scena di un film e devono imitarla con degli attori?”.
“Ma chi cazzo vede Miss Italia?” borbottò Salvatore.
“Salvo, ma c’è una cosa che ti rende felice?” chiese Giada,
dubbiosa, facendoci ridere tutti.
Salvatore non rispose, preso alla sprovvista, e Mario ne
approfittò per continuare il discorso. “Dicevo, anche i ragazzi vedranno una
scena e a turno dovranno imitarla. Inizieremo noi con una scena di gruppo, dai!
Suggerimenti?”.
“Una scena che coinvolga tutti? Mi sembra impossibile”
osservò Nadia, “Siamo troppi”.
“Esatto, magari meglio tre scene con massimo tre persone a
testa” propose Elena.
“Ma tutti insieme era più divertente” mise il broncio
l’activity leader, incrociando le braccia.
“L’esperto sei tu, dai, dicci cosa stavi pensando” si
intromise Saverio, piuttosto severo, come a voler dire che non dovevamo osare
intrometterci visto che ognuno aveva il proprio ambito e nessuno doveva
interferire con il campo degli altri.
“Lo scoprirete tra qualche ora! Oggi i ragazzi hanno i vari
laboratori quindi saranno con gli inglesi e gli spagnoli e noi possiamo
prenderci un’oretta per provare”.
“Tradotto: non ne hai ancora idea” ridacchiò Elena, dandogli
una pacca sulla spalla con aria ilare.
Per tutta risposta, Mario prese il bicchiere di acqua ormai
vuoto e fece finta di rovesciarglielo in testa, facendo davvero scivolare
qualche residuo di acqua tra i capelli.
“Mario, deve esserci qualcuno a sorvegliare i ragazzi! Nel
caso succedesse qualcosa sarebbe la loro parola contro la nostra” gli ricordò
Saverio pazientemente.
“Posso farlo io” mi offrii.
“E anche io” disse Giada.
“Non volete partecipare?” domandò Mario, imbronciato.
“Possiamo fare delle comparse! Così partecipiamo ma diamo
comunque uno sguardo ai ragazzi”.
“Esatto!” le diedi man forte, più che altro sollevata dal non
dover partecipare a qualche scenetta dopo essermi messa in gioco con la salsa.
Mario non parve convinto e felice ma Saverio sì, infatti ci
diede l’ok e disse che dalle quattro alle cinque toccava a noi fare qualche
giro tra i ragazzi.
Vedere Luca che giocava a calcio con i ragazzi nell’ora
libera prima dell’inizio dei laboratori mi fece sentire strana.
Me ne stavo seduta sul prato con Giada, Salvatore faceva
l’arbitro, Nadia e Clara parlavano con alcuni loro ragazzi, Saverio ne
approfittava per riposarsi un po’ sull’erba e Mario e Elena controllavano dei
documenti.
La giornata era abbastanza calda, io indossavo una semplice
maglia di cotone e quasi mi sentivo sudare.
Luca non sembrava fregarsene della temperatura, correva
agilmente da una parte del prato all’altra, rubava la palla ai ragazzi più
grossi e la passava ai più minuti, io lo guardavo, esasiata, e mi rendevo conto
di non sapere nemmeno cosa facesse in Italia, quando non lavorava come group
leader.
Era una sensazione strana per me, perché avevo sempre
catalogato qualcuno in base alle sue passioni, al suo lavoro, ai suoi gusti
messi in confronto ai miei...
Era ciò che mi aiutava a fare una lista, a vedere i pro e i
contro, ad analizzare tutto per capire la compatibilità.
Questa volta stavo avendo a che fare con una scatola chiusa
e, tuttavia, la cosa mi piaceva perché non sentivo pressioni di alcun tipo.
Tuttavia, volevo provare a saperne di più su di lui, scoprire
eventuali cose che avevamo in comune e riderci su, volevo davvero sentirmi
ancora più connessa a lui.
Lo vidi passare la palla a un ragazzo di massimo quindici
anni che prese l’occasione al volo, trovandosi vicino la porta, tirò e fece
goal con la gioia della sua squadra che esultò, facendo scatenare un enorme
boato.
Felice, Luca gli corse incontro, lo sollevò e se lo trascinò
così per qualche decina di metri, poi lo lasciò agli amici che gli si gettarono
addosso e, sudato, corse verso la parte di campo in cui c’ero io e si tolse la
malgietta, lanciandomela.
Sorpresa, spalancai gli occhi e vidi che mi guardava
sforzandosi di sembrare normale ma sapevo che fosse una cosa mirata, studiata,
con il fine di ottenere qualche effetto su di me.
“Hai un vizio, eh? Lo hai fatto anche il primo giorno” dissi,
falsamente disinvolta.
“Sì. Ne sono cambiate di cose, eh” rispose, falsamente vago.
“Cristian, dammi il cambio, entra il campo!” gridò in direzione di un ragazzone
alto almeno un metro e ottanta che scattò su, emozionato ed esultante.
Prese posto al mio fianco mentre gli tendevo la maglietta, la
prese e lanciò un’occhiata a Giada che se ne stava al mio fianco.
“Stanco? Dopo venti minuti al massimo?” lo presi in giro,
sforzandomi di guardargli il viso e non il torso nudo.
Si voltò verso di me – si vedeva lontano un miglio che si
stava sforzando di comportarsi normalmente senza dare nell’occhio – si passò la
lingua sulle labbra e scrollò le spalle. “Conservo delle energie, non si sa
mai, qui”.
“Addirittura?”.
“Mentre voi fate gli scemi vado a farmi un caffè, sperando
che nessuno si faccia male”.
La voce di Giada ci riportò alla realtà e ridemmo per
mascherare l’evidente nervosismo.
La vedemmo allontanarsi in direzione della caffetteria per
poi voltarci l’uno verso l’altro.
“Pensi di provocarmi?” sussurrai, rigida.
“Ci sto riuscendo?”.
“Pensa solo che potrei fare lo stesso con te”.
“Non vedo l’ora”.
La tensione tra noi era palpabile, di sicuro ci saremmo
buttati l’uno sull’altra in quel momento se non avessimo avuto tutti quegli
spettatori.
“Inventiamo di dover fare il bucato, ora, i laboratori
iniziano tra trentacinque minuti” mi supplicò in un soffio, deciso.
“Cosa? Saverio non ci lascerà mai andare!”.
“Proviamoci. Lo facciamo davvero, ma almeno possiamo starcene
un po’ in pace, sto impazzendo senza poterti nemmeno sfiorare o parlarti
apertamente senza dovermi trattenere”.
“Luca...”.
Ma fu inutile, in tre secondi lo vidi alzarsi e raggiungere
Saverio, il quale si era svegliato e guardava i ragazzi giocare.
Il capo esitò, guardò l’orologio, mormorò qualcosa e poi Luca
se ne andò, vittorioso.
“Andiamo, alle quattro meno cinque dobbiamo essere di nuovo
qui” disse, quando fu abbastanza vicino.
Incredula, mi alzai, presa da un’ondata di giubilo, e
corremmo in direzione del campus senza riuscirci a contenere.
Luca era a pochi passi da me, quando fummo abbastanza lontani
da tutti si voltò e mi prese per mano, con sicurezza.
C’era il sole pomeridiano che ci faceva da sfondo, gli
rendeva i capelli scuri leggermente ramati, in modo da farlo sembrare il
prototipo umano di qualcosa di divino.
“Quanto sei bello” mi lasciai sfuggire, senza potermi
trattenere oltre, e avvertii la stretta di mano aumentare.
Sembrava imbarazzato, tuttavia fissò il suo sguardo su di me
e mormorò: “Senti chi parla”.
Non dicemmo altro, emozionati, quasi corremmo per prendere i
nostri vestiti e portarli in lavanderia, dove c’erano le apposite lavatrici che
avrebbero lavorato al posto nostro.
“Questo posto mi ricorda una scena di Friends” dissi,
mentre lui dosava il detersivo con cura.
“Oh, quella in cui Rachel e Ross vanno in lavanderia e lei
non sa come fare il bucato?” domandò, per poi selezionare le modalità di
lavaggio.
“Sì! Lei lo bacia e lui va contro non so cosa e cade... Ho
sempre amato quella sitcom, in inverno vedevo gli episodi mentre bevevo
cioccolata calda o mangiavo biscotti, mentre fuori pioveva, e mi sentivo al
sicuro” confessai.
“Io lo vedevo con mia nonna!” disse, nostalgico. “Spesso
andavo a fare i compiti da lei e prima che iniziasse un episodio mi portava
pane e nutella, non del semplice pane, quello appena sfornato da lei, e mi
diceva “muoviti che mo’ iniziano i sei amici, a’ nonna”. Amava Joey,
ovviamente”.
“Che bello, avrai dei ricordi magnifici! La mia viveva a
Sorrento e la vedevo poco, l’altra è morta prima della mia nascita”.
Luca annuì e non so come ci ritrovammo seduti sui gradini di
ingresso della lavanderia, deserta a quell’ora del primo pomeriggio.
C’era un gran silenzio, l’unico rumore in sottofondo era
quello della lavatrice in funzione.
“Sì, diceva che ero il suo nipotino prediletto, guai a chi mi
toccava. Amavo vederla cucinare gli struffoli, la pastiera, i casatelli, la
delizia al limone... Preferivo questo ai compiti, onestamente, sarà per questo
che sono un pasticciere. Mi dispiace per le tue nonne...”.
Scrollai le spalle, portandomi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
“Almeno non ho sofferto per il distacco, dai. Quindi sei
pasticciere? Wow! E’ assurdo, ti conosco da una settimana e non sapevo che
mestiere facessi!” dissi, stupita.
Immaginai Luca vestito di bianco, coperto da farina, mentre
decorava dei dolci con grande impegno e sorrisi spontaneamente.
“Abbiamo parlato di altro” minimizzò. “Sorpresa?”.
“Un po’. Non so perché ma vedendo quanto sei bravo con i
ragazzi ti immaginavo tipo educatore, professore di educazione fisica, oppure
maestro” rivelai, immaginandolo dietro una cattedra, con il solito sorriso che
lo distingueva, mentre chiamava qualcuno alla lavagna.
“Ma dai! Maestro, io! Ho fatto l’albeghiero e non mi hanno
bocciato solo perché ero bravissimo in cucina, in italiano e in inglese, per il
resto non ero per nulla brillante. Non volevo nemmeno proseguire oltre la
qualifica del terzo anno, pensa! Poi mi hanno convinto a proseguire, ho avuto
soddisfazioni, e a diciannove anni ho iniziato a lavorare” spiegò.
“E, scusa, cosa ci fai qui, allora?”.
“Ho cambiato luogo di lavoro... Lavoravo in una pasticceria
al Vomero dove ormai non mi trovavo bene, era come se fossi il dirigente del
laboratorio dove facevamo delle sperimentazioni ma sottopagato. Mi sono
scocciato e ho scoperto che in una pasticceria che apprezzavo molto, vicino al
Teatro San Carlo, cercava un nuovo dirigente per rinnovare un po’ il menù, dopo
non so quante prove mi hanno detto che da fine agosto mi avrebbero assunto, ho
firmato il contratto, mi sono licenziato... Ed eccomi qui per guadagnare
qualcosa nel frattempo”.
Più Luca parlava, più volevo sapere qualcosa in più sulla sua
vita.
Il ragazzo con cui inizialmente mi ero scontrata, quello che
mi aveva fatto arrabbiare varie volte, ora era lì, seduto di fronte a me,
sincero.
Me l’ero presa quando mi aveva detto che dovevo abituarmi ai
loro ritmi e non sapevo che in realtà per lui svegliarsi alle sei e trenta era
quasi un privilegio, abituato com’era ad essere a lavoro già alle cinque.
Lavorava da sei anni, sei anni passati così, senza orari
decenti, ma alimentati dalla passione per ciò che faceva, ed io in quella prima
settimana mi ero lamentata per la stanchezza, io che stavo lavorando per la
prima volta in vita mia.
“Mi sento stupida” ammisi quindi, deglutendo.
“Per cosa?” chiese, senza capire.
Lentamente, passò un braccio attorno alle mie spalle, mi
strinse a sè e poi mi guardò come se fossi un quadro interessante.
“Me la sono presa con te quando mi dicesti che dovevo
abituarmi ai ritmi... Non sapevo del tuo lavoro, di tutte le ore che passi in
pasticceria, io...”.
“Alice” mi interruppe, appoggiando l’indice sulla mia bocca.
“Facciamo due mestieri diversi, abbiamo esperienze diverse, pensi che io
all’inizio fossi contento di svegliarmi alle quattro, dover andare a dormire
presto, rinunciare alle uscite con gli amici? Ci si abitua e ti auguro di non
dover più fare questi orari”.
“Ti ammiro” dissi senza giri di parole, presa dal suo
racconto.
“E io ammiro te. Quando ti vedevo tradurre ciò che diceva
Javi sembravi così entusiasta, fiera, piena di energie... Non nascondevo che
pensavo che fosse dovuto anche a lui” ridacchiò.
“Gelosone”.
“Ha parlato quella che se mi vedeva parlare con Paula andava
in tilt...”.
Non ce ne rendemmo conto ma il tempo volò, la centrifuga finì
e ci rassegnammo ad appoggiare i vestiti vicino le nostre finiestre per farli
asciugare visto che non avevamo trenta minuti di tempo per l’asciugatrice.
Sulla via del ritorno, alle quattro meno dieci, Luca mi
trascinò dietro un edificio pieno di alberi e cespugli e mi ritrovai stretta
contro un muro con lui che mi stringeva a sé.
“Come devo fare con te? Il tempo vola, hai questa capacità di
non farmi rendere conto del tempo che passa, vorrei passare ore ed ore con te”
sussurrò, per poi abbracciarmi. “Mi piace parlare con te, scoprire nuove
cose...”.
“Lo so... Stasera, dopo la riunione, vieni da me” dissi,
decisa.
“Non vedo l’ora”.
Ci baciammo, era un bacio colmo di urgenza, desiderio, un
bacio che voleva suggellare ciò che ci eravamo detti e che voleva confermare
che sì, ci trovavamo bene, e non solo fisicamente.
Io sentivo di essere sulla via del non ritorno, ero sempre
più attratta da quel ragazzo e il pensiero di incontrarlo quella sera, senza
fretta e pressioni, mi emozionava sempre di più.
Fu un pomeriggio sereno, senza pressioni. Io e Giada ci
divertimmo un mondo ad andare in giro per i laboratori, notammo che ormai
eravamo delle figure di riferimento per i ragazzi nonostante non fossimo delle
group leader.
Ci acclamarono come se fossimo degli ospiti d’onore, durante
il laboratorio di cucina notai che molti ci tenevano a farmi assaggiare piatti
tipici spagnoli da loro preparati, come se io potessi dare un giudizio più
valido rispetto a Paula e Alejandro.
Paula si guardava intorno, sorpresa di vedere me e la
dottoressa al posto di Luca e gli altri, infatti, mentre i ragazzi si
adoperavano per provare a fare la crema catalana, mi si avvicinò e mi chiese
dov’era Luca.
Quando le risposi che era alle prove con il resto dello staff
annuì e si allontanò, dubbiosa.
Dal canto mio, serena più che mai – Luca aveva ragione, era
Paula ad essere ossessionata da lui – aiutai i ragazzi a destreggiarsi con i
vari ingredienti con piacere.
Ci fu un coro di “Alice! Alice, vieni un secondo?” che si
ripeteva ogni due minuti e Alejandro ne era soddisfatto perché non era molto
bravo in cucina e spesso invece di aiutare era un disastro.
C’era chi, a quattordici anni, non aveva mai cucinato un
uovo, chi non sapeva dosare gli ingredienti, ed io ero lì, pronta a dare una
mano nel mio piccolo.
Pensavo a cosa avrebbe detto Luca nel vedermi così, in vesti
che erano più sue che mie, sperai che tornasse presto.
Alle cinque, eccolo lì, che varcò la soglia della cucina
gentilmente offerta dal college, con il solito sorrisone stampato in faccia e
l’immancabile maglia rossa addosso.
In quel momento io ero troppo presa dall’aiutare Lino, un
diciassettenne alto e di statura abbastanza grossa, che aveva combinato non so
quanti casini in quella prima ora.
“Guarda, è semplice, rompere un uovo non fa schifo, dai!”
stavo dicendo, dovendo iniziare dall’inizio perché aveva rovesciato il
contenuto della sua ciotola per terra, senza volerlo, e io gli avevo dato una
mano a pulire.
“Lo so, ma a casa mia abbiamo una cameriera, i miei viaggiano
sempre” spiegò, rattristito.
Dai vestiti e dalle scarpe super costose e dai viaggi che gli
avevo sentito nominare in quei giorni potevo dedurre quanto Lino fosse ricco.
“E fatti insegnare qualcosa, è divertente” lo spronai.
Presi due uova, le ruppi entrambe, poi gli diedi lo zucchero
e gli dissi di pesare la giusta quantità.
“Mi rubi il mestiere, mediatrice?” disse Luca, fingendosi
arrabbiato.
“Alice sarebbe un’ottima group leader!” rispose Lino,
ovviamente non potendo capire a cosa si riferisse sul serio Luca.
“Ecco, vedi? Zitto”.
“No, no, continua” ridacchiò, divertito.
“Dipende, non so se Saverio mi cerca” dissi, riluttante,
spostandomi di qualche passo.
“Non ci ha detto nulla...”.
“Luca, hello! Welcome to the kitchen lab!” esclamò
Paula, nel suo inglese che non esitava a celare l’accento spagnolo.
Vedendola così entusiasta mi irrigidii.
“Ma, dopotutto, se Saverio mi vuole me lo farà sapere”
conclusi, tornando al mio posto.
Vidi Luca quasi trattenere una risata seguita da un’occhiata
che stava a dire “Calmati” per poi informarsi su cosa stavamo cucinando.
Non disse il suo mestiere, come evidentemente non lo aveva
detto durante il primo laboratorio di cucina, quello in cui Paula gli aveva
palpato il sedere e lo aveva invitato in camera sua, forse per non porsi in una
situazione di superiorità.
Entrambi ci occupammo di Lino, gli insegnammo le cose
basilari e l’aiuto di Luca fu fondamentale per fare tutto nella sola ora
restante.
Vederlo così dedito al lavoro, mentre faceva battute che
facevano ridere Lino e lo incoraggiavano, mi fece realizzare ancora di più in
che grande pasticcio mi stavo cacciando.
Un gran bel pasticcio, dolce, di quelli che mangeresti a
volontà senza fermarti, nemmeno in nome della decenza.
Alla fine avevamo recitato una scena carina tratta da “La
vita è bella” – quella della celebre “Maria, la chiave!” – e per rendere il
tutto più divertente Saverio e Nadia avevano rappresentato i protagonisti.
Luca e Mario avevano interpretato il dottore che dice al
protagonista “Sette minuti!” e il signore del cappello, noi altri eravamo delle
semplici comparse.
I ragazzi si impegnarono per interpretare al meglio scene
tratte da Grease, Titanic, High School Musical e probabilmente fu la
serata più riuscita di tutte.
Erano felici, tanto che prima di andarsene avevano voluto
cantare delle canzoni tratte dai musical che gli avevamo fatto interpretare ed
io mi lasciai prendere la mano e diedi il mio contributo a “Summer Nights”,
sentendola un po’ mia.
La riunione fu più allegra del solito, eravamo tutti
soddisfatti e in più guardavamo con gli occhi a cuoricini Saverio che
casualmente passava il braccio attorno alle spalle di Nadia o le cedeva il
bicchiere di birra.
Poi, quando per magia il capo disse “Va bene, è tutto,
possiamo andare”, verso le undici, io e Luca fummo i primi a scattare dalla
sedia.
Ci eravamo seduti vicini sullo stesso divano e ci eravamo
sfiorati così tante volte senza volerlo che, nei piccoli momenti di caos o
distrazione generale, ci eravamo scambiati occhiate fugaci.
Corremmo verso l’edificio E a passo svelto, timorosi di un
eventuale problema che avrebbe potuto indurci a dividerci, e appena ci
ritrovammo in un corridoio vuoto gli sussurrai all’orecchio: “Camera mia”.
Luca mi guardò e sorrise, quasi incredulo, per poi
abbracciarmi da dietro e stringersi a me.
“Non vedo l’ora...”.
Come due bambini che scappano dall’asilo, entrammo nel
corridoio della mia stanza, silenziosi, aprii la porta mentre mi guardavo in
giro e appena si aprì lo gettai dentro, così che male che andasse le ragazze
del mio piano avrebbero visto solo me.
Quando mi chiusi la porta alle mie spalle, vidi che Luca
stava chiudendo le tendine della finestra.
“E perché le chiudi? Sta per succedere qualcosa di
scandaloso?” domandai, fingendomi tonta.
“Sì, tanto, tanto scandaloso” replicò lui, avvicinandosi a me
in modo da trovarci faccia a faccia, respiro contro respiro.
“Oggi è stato bellissimo parlare, scoprire cose nuove su di
te” sussurrai, accarezzandogli il volto con tutta la dolcezza che sentivo
dentro di me.
“Sì! Mi sembrava di conoscerti da anni, sarà che hai parenti
Campani...”.
“Ma che c’entra, scemo”.
“Scemo?”.
“Sì, scemo”.
“Hai ragione, sono proprio scemo. Qui, in una camera, con una
collega, di notte, contro le regole...”.
Si calò su di me, mi baciò e poi si separò, guardandomi negli
occhi.
“Siamo scemi, tanto, ma chi se ne frega...” gli diedi man forte,
prima di attirarlo a me con decisione.
Sembravamo avere una sorta di accordo tacito, eravamo sulla
stessa lunghezza d’onda: volevamo di più, avevamo perso due giorni, avevamo
l’urgenza di conoscerci più a fondo.
In quel momento smisero le chiacchiere e, dopo un’intera
giornata, passammo all’azione dopo provocazioni, occhiate, frasi sussurrate
all’orecchio.
Non mi era mai successo prima di quel momento ma Luca aveva
la capacità di mandarmi fuori controllo semplicemente toccandomi, attirandomi a
sè, sfiorandomi una parte a caso del mio corpo.
Mi tolsi la maglietta e lui mi imitò, per poi far sì che mi
ancorassi a lui e trascinandomi sul letto, dove passò a dedicarsi con fin
troppa dovizia allo spazio compreso tra il mio collo e il mio seno mentre io, impaziente,
riuscivo finalmente a tastare senza vergogna quel sedere perfetto che si
ritrovava.
“Complimenti” borbottai, sentendomi audace più che mai.
“Complimenti a te, sei magnifica, mi stai mandando in
tilt...”.
Un po’ più energica, mi misi a sedere e presi il suo volto
tra le mani, lo ribaciai senza esitare nemmeno un istante e poi condussi le sue
mani sul gancetto del reggiseno.
Comprese l’invito e obbedì, slacciandolo, poi ci separammo e
mi vide togliermelo lentamente.
“Alice, mi sembra scontato ma preferisco chiederlo,
vuoi...?”.
“Sì” lo interruppi subito, decisa.
Gettai il reggiseno per aria, mi sbottonai i jeans e lui mi
aiutò a sfilarmeli, poi lo aiutai a sua volta a fare lo stesso con i suoi.
Era visibilmente eccitato e la cosa mi lusingava, possibile
che riuscissi a sortire un simile effetto su un ragazzo che ritenevo molto più
affascinante e bello di me?
Luca era dolcissimo ma passionale, mi faceva sentire
desiderata, rispettata.
Mi sfilò il resto dell’intimo con delicatezza, toccandomi in
un modo tale da farmi desiderare di più, sempre di più, tanto da ridurmi ad uno
stato frenetico in cui non volevo altro che unirmi a lui.
Lo attirai su di me con decisione, senza smettere di
baciarlo, toccarlo, lasciarmi toccare con decisione, quando un suono fastidioso
ci fece sussultare.
Luca spalancò gli occhi, sbuffò, si mise a sedere di
malavoglia mentre diceva “Cazzo, il mio telefono...”.
Con l’aria di chi è infastidito ma teme il peggio ripescò il
cellulare dai pantaloni che se ne stavano sulla moquette e disse “Cazzo, è
Saverio!” pieno di terrore.
Si schiarì la voce, rispose subito, ma non ebbe nemmeno il
tempo di dire “Saverio, dimmi” che lui lo interruppe con un fiume di parole.
Io lo guardavo, lui così, solo in boxer, alzato, inquieto, ed
io che iniziavo a sentire freddo e mi coprivo col lenzuolo.
Luca staccò la telefonata, nero in volto, il respiro pesante.
“Che è successo?” domandai, preoccupata.
Luca si infilò la maglia in mezzo secondo e poi mi guardò,
con aria funebre.
“Uno della mia squadra, Giulio, si è rotto un braccio.
Dobbiamo correre all’ospedale”.
Grazie a chi continua a leggere <3