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Autore: milly92    01/12/2017    2 recensioni
“Io sono Alice, piacere. La mediatrice culturale”.
“La che?”.
Offesa, feci una smorfia: il mio era un mestiere come tanti, non di certo uno di quelli super fighi con il titolo tradotto in inglese giusto per sembrare ancora più irraggiungibili.
“La me-dia-tri-ce culturale” rispiegai pazientemente.
“Ah, mediatrice! A causa del viaggio sto così fuso che avevo capito meretrice, ecco perché ero confuso” ridacchiò, con un palese accento romano. “Salvatore, comunque. Piacere. Faccio questo mestiere da cinque anni e non ho mai sentito parlare di una mediatrice nel team!”.
“E’ un’eccezione, oltre agli inglesi ci sono gli spagnoli e l’azienda aveva bisogno di una traduttrice. Diciamo che è un esperimento... Scusami comunque, mi sono bloccata nel bel mezzo della strada perché ho appena ricordato di aver dimenticato l’adattore e il mio cellulare è appena morto”.
“Azzò, sei perspicace, Alice la Mediatrice. Spero non dimentichi le traduzioni delle parole così come dimentichi le cose essenziali”.
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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8pasticci

Capitolo 8

Day 8: Pasticci e Pasticcieri

 

Non ero tranquilla e non ne capii il motivo visto che come al solito avevo agito seguendo la logica e ciò che mi sentivo di fare e mi faceva sentire più al sicuro.

A fine riunione avevo visto Nadia sorridere a Saverio mentre lui le porgeva un bicchiere di acqua e quella stupida immagine non mi si toglieva dalla mente.

Un gesto così, semplice, può dire tante cose: lui vuole prendersi cura di lei, lei è felice di averlo al suo fianco.

Il gruppo mi aveva sorpreso, quando ce ne eravamo andati, durante il breve percorso che ci separava dai vari edifici in cui alloggiavamo, tutti avevano detto parole carine e dolci, nessuno aveva sparlato della nuova coppietta che si era creata.

Probabilmente era in quel momento che tutto il castello di convinzioni che mi portavo dietro crollò silenziosamente, facendomi venire mille dubbi.

Ovviamente io e Luca alloggiavamo nell’edificio E, così, senza dire nulla, ci eravamo ritirati insieme: lui aveva preso la chiave, aprendo il portone principale, e mi aveva fatto passare con gentilezza prima di avviarsi verso la sua camera e dirmi un semplice “Buonanotte”.

Non ero serena, mi ero voltata almeno un paio di volte senza vederlo dietro di me e mi dissi che ero davvero una gran stupida.

Davvero pretendevo che mi seguisse dopo il modo in cui mi ero comportata?

Stendermi a letto, quel letto dove ci eravamo coccolati poco più di dodici ore prima, fu una tortura perché mi sembrava ancora di sentire il suo cuore battere forte mentre mi stringeva.

Il mio problema, alla fine, era stato l’eventuale giudizio altrui, non l’eventuale valutazione negativa, e ora che avevo avuto la prova della fiducia del gruppo ero più serena e mi tormentavo per ciò che non avevo.

Non mi cambiai, non mi struccai, non feci nulla per minuti interi fino ad appurare che, se volevo agire, dovevo farlo in fretta visto che mancavano quindici minuti alle ventitré.

Presi un bel respiro ed uscii dalla stanza, pronta a scendere al piano sottostante.

 

Non ricordo precisamente come mi ritrovai di fronte alla  stanza E18, ma bussai rapidamente, sperando che nessuno dei ragazzi si affacciasse.

Ero nervosa, trepidante, emozionata, ma anche spaventata e intimorita.

Da questo momento tutto sarebbe cambiato, in positivo o negativo, e avrei dovuto facci i conti una volta per tutte.

Luca aprì la porta nel giro di pochi istanti e quando mi vide assunse un’aria interrogativa, mentre io volevo sprofondare sotto terra perché se ne stava solo con dei pantaloncini, con la sua pancetta in bella vista e i capelli un po’ umidi.

Rapidamente, si affacciò, vide che non c’era nessuno e mi fece segno di entrare senza dire nulla, evidentemente per non far sentire a nessuno le nostre voci.

“Scusami per l’improvvisata, lo so che è tardi e che starai morendo di sonno, sarò breve” dissi subito, con aria di scuse.

Mi ci volle uno sforzo enorme per non balbettare e deconcentrarmi vista la situazione.

“Dimmi” si limitò a dire, tuttavia gentile come sempre.

Mi guardai le scarpe per guadagnare tempo ma poi capii di dover risultare decisa, così lo guardai.

“Sono una stupida. Oggi sono andata in panico... Ho sbagliato, lo so. Mi è bastato vedere Nadia e Saverio così tranquilli e i ragazzi che li supportavano per capire che temevo solo eventuali loro reazioni. E’ un’idiozia, lo so, e ciò ti farà cambiare ancora più idea su di me ma dovevo dirtelo. Non ci parliamo da otto ore e ciò ha avuto un impatto negativo sulla mia giornata. Scusami per oggi” dissi, seppur indugiando ed esitando di tanto in tanto.

Lui mi ascoltò, le braccia incrociate, lo sguardo deciso, e si limitò a dire un: “Ok”.

“Ok? Non hai altro da dire...?”.

Luca scrollò le spalle e con mia somma sorpresa accennò un sorriso amaro.

“Hai detto che sono io quello che ha sempre fatto tutto, quindi ora lascio fare a te” decretò.

“E infatti ti ho detto cosa mi è successo, perché mi sono comportata così...”.

“Ed io ho capito”.

“E non hai nulla da dire...?”.

“Mi sono scocciato di dire, Alice”.

“Va bene. Buonanotte...” sbottai, dandogli le spalle e dirigendomi di nuovo verso la porta, salvo poi fermarmi e rivoltarmi. “Anzi, no! No! Non me ne se vado non mi dici qualcosa in più che “ok”, se stasera dobbiamo chiuderla qui voglio che sia con una spiegazione, come ho fatto io oggi” esclamai decisa, non pronta a vedere il ricordo di Luca scivolare via dai miei ricordi.

Luca mi si avvicinò, facendomi ritrovare stretta contro la porta.

Ricordare che solo quella mattina ci eravamo abbracciati in quella posizione mi fece male al cuore.

“Voglio vederti agire, Alice, non hai capito? Come mi hai detto qualche giorno fa? Che una persona non può capire le intenzioni di qualcuno, le deve sapere ed io non posso capire cosa vuoi da me se non me lo dimostri!” spiegò supplichevole, senza smettere di respirare in una maniera così accelerata che sentivo il suo fiato sul suo collo.

“Io voglio passare questi giorni con te, averti al mio fianco quando è possibile perché ho capito che non me ne frega degli altri ma solo di ciò che tu pensi di me”.

“Sono stato male oggi” mormorò, togliendosi dei capelli umidi dalla fronte.

“Scusami...”.

“Ma se servirà a stare bene ora non me ne frega” aggiunse cautamente, cingendomi la vita con le mani e avvicinandomi a sé.

Volevo agire, in quel momento, subito, con urgenza, così lo attirai a me a mia volta appoggiando le mani sul suo viso e lo baciai, sentendo le farfalle nello stomaco quando lui rispose subito al mio gesto e schiuse le labbra per consentirmi di approfondire il contatto.

Ci ritrovammo schiacciati contro la porta, io lo stringevo a me mentre gli accarezzavo il petto e lui faceva vagare la mano sui miei fianchi, al di sotto della maglietta.

In quel momento capii che non mi importava di nulla se non di vivere ogni momento possibile con lui mentre svolgevo il mio lavoro di mediatrice, ero pronta a mettermi in gioco con tutta me stessa perché ne valeva decisamente la pena.

“Vedi? Ci siamo solo noi, gli altri non esistono” sussurrò mentre mi lasciava una scia di baci tra la guancia e la spalla, insistendo sul collo, cosa che ormai sapeva che apprezzavo particolarmente.

“Siamo solo noi” ribadii, al settimo cielo.

“Maledetta, ora non mi farai dormire...” disse, seppur sorridendo e senza mollare la presa sui miei fianchi.

Con l’altra mano disegnò il contorno del mio viso, mi accarezzò i capelli, senza smettere di guardarmi come se fossi un quadro che apprezzava fin troppo.

“E se dormissi qui?” azzardai, presa dall’enfasi del momento.

Lo vidi disorientato, quasi impaurito, cosi feci un cenno col capo.

“Che idiota, ti darei fastidio, già ieri si è dormito poco...” borbottai, rossa in volto per la figuraccia.

“No! Alice, non dire stupidaggini! E’ che... Insomma, averti al mio fianco tutta la notte mi farebbe fare pensieri non proprio casti e, insomma, non voglio che tu pensi che...”.

“Luca, sono una donna adulta, consenziente ed attratta da te e a tua volta non mi stai rendendo le cose facili visto che sei mezzo nudo” ironizzai, accennando con lo sguardo al suo torace. “Non diciamoci stupidaggini, insomma, mi sembra palese che nella nostra situazione qualcosa scatterà per la volontà di entrambi! Non devi trattenerti con me, sii te stesso e... Non è male sapere che mi desideri” aggiunsi, stringendomi a lui.

Si calò su di me, sorpreso come non mai, e mi baciò con passione mentre tracciava il profilo della mia sagoma.

“Ti desidero, Alice, probabilmente da quando ti ho visto” disse deciso.

“Anche io... Da quando ci siamo urlati cose a caso sotto la pioggia, probabilmente” ridacchiai.

Continuavamo a baciarci come due adolescenti, finimmo sul letto con io che lo sovrastavo e, senza controllarmi, lasciai che mi togliesse la maglietta.

Mi guardò con sorpresa e dolcezza prima di attirarmi a sé e farmi stendere al suo fianco, così ci ritrovammo viso contro viso, pelle contro pelle.

“Se ti fa piacere in hotel, domenica, ho la camera deluxe...” la buttai lì, senza riuscire a trattenere quell’informazione.

Mi sentivo troppo audace, il sentirmi desiderata e coccolata faceva decisamente bene alla mia predisposizione nei suoi confronti in quella situazione e, ovviamente, il fatto che lui si stesse comportando in maniera gentile contribuiva non poco.

“Non era di Saverio?” chiese, incredulo.

“No, me l’ha ceduta per aver salvato la gita”.

“Mi farebbe piacere, anche se magari finiamo a dormire come due vecchi per la stanchezza” ironizzò.

“Ma io infatti mi riferivo a questo” lo presi in giro.

Fu bello vederlo ridere di gusto, genuinamente, mentre mi prendeva una mano e la intrecciava alla sua.

Quel gesto mi fece rabbrividire in senso positivo e mi fece rilassare del tutto, tanto che chiusi gli occhi.

“Cinque minuti e me ne vado” promisi.

“Puoi rimanere anche fino al sedici luglio. E non lo dico perché sei senza maglietta” mi rassicurò, prendendo la mia t-shirt e porgendomela con gentilezza.

La indossai di nuovo, senza sapere cosa dire, mentre lui si stendeva meglio e mi faceva segno di accoccolarmi sul suo petto.

Decisi di assecondarlo, tolsi le scarpe e mi appoggiai sentendo, di nuovo, il suo battito.

 

Quella mattina ringraziai il mio orologio biologico che alle sei e un quarto mi fece riaprire gli occhi.

Luca era al mio fianco, con i capelli ormai asciutti e un po’ crespi, forse per la mancanza di gel o spazzola, sempre senza maglietta, che mi stringeva a sé in un modo che mi fece battere forte il cuore.

Erano anni che non mi svegliavo così, dalla vacanza a Madrid con il mio ex.

“Luca... Scusami, corro in camera mia” sussurrai dolcemente, senza riuscire ancora a togliere la sua mano che mi cingeva la vita.

Lui aprì gli occhi e mi sorrise, per poi mettersi a sedere con gli occhi ancora impastati dal sonno.

“Ci siamo addormentati” constatò, sbadigliando.

“Sì, e decisamente in fretta. Questo lavoro...”.

“Ci mette k.o., maledizione”.

“Oggi niente escursione, magari ci va meglio”.

“Lo spero...”.

Mi alzai, stiracchiandomi, e lui mi imitò, per poi abbracciarmi con dolcezza da dietro.

“Sarà dura fare finta di niente” sospirò, stringendomi con decisione.

Chiusi gli occhi, beandomi di quel contatto, e poi mi voltai, trovando il suo volto di fronte al mio che mi scrutava, quasi con curiosità.

“Ricorda in che condizioni sono appena sveglia e sarà più facile” ironizzai, meritandomi uno sguardo di pura disapprovazione.

 

 

Più la gita ad Oxford si avvicinava e più spuntavano i problemi dal punto di vista amministrativo e ovviamente Saverio non era in sé.

Quel giovedì mattina mi trascinò in lungo e in largo per i vari uffici e fui costretta a sorbirmi tutti i battibecchi con gli inglesi.

Saverio arrabbiato che doveva controllarsi di essere educato era un vero spettacolo: mentre ascoltava si tratteneva dal fare smorfie, stringeva i pugni e se doveva alzare gli occhi al cielo si girava per qualche secondo per non darlo a vedere.

“Deficienti incapaci” sbottò quindi a metà mattinata, mentre il cortile dell’istituto si riempiva di ragazzi che avevano finalmente la tanto agognata pausa.

“Abbiamo fatto il possibile, Saverio, andrà bene” lo rassicurai.

“Sì ma non è tollerabile lo stesso, prima l’hotel, poi il pullman, ora un casino per la cena del sabato ad Oxford! Non si può lavorare così!”.

“Hai ragione...”.

“Ovvio che ho ragione”.

Stizzita, non aggiunsi altro.

“Ho bisogno di caffè, lo vuoi?” domandò, quando passammo davanti a Luca e Nadia che chiacchieravano tra loro mentre sorvegliavano dei ragazzi che se ne stavano seduti su delle panchine.

“No, grazie. Perché non te lo prendi con Nadia? Posso guardare io i ragazzi, non stanno facendo niente di che” mi offrii volontaria.

“Alice, il mio rapporto con Nadia non deve cambiare lo status quo delle cose, sta svolgendo il suo lavoro” mi ricordò, tuttavia con una nota di amarezza nella voce.

“Hai ragione. Allora ve lo vado a prendere io, ve lo porto e lo bevete mentre fate due chiacchiere qui, in cortile, così ti calmi” stabilii e, senza dire altro, mi dileguai, mentre lui mi diceva che ero impazzita.

Da dove usciva quella disponibilità? Era un gesto davvero altruista?

Sì, o, almeno, quasi.

Capivo perfettamente il dilemma di Saverio, la voglia di trascorrere del tempo con Nadia, volevo aiutarli perché mi rivedevo in loro e avrei tanto voluto passare del tempo con Luca semplicemente per avere una vera conversazione con lui.

Non ci conoscevamo, davvero, per nulla!

Cosa faceva a Napoli?

Studiava, lavorava?

Aveva dei fratelli?

Qual era il suo sogno?

Mi ripromisi di dare una risposta a queste domande al più presto, quel giorno, mentre ordinavo i caffè e li portavo in cortile.

Nadia mi guardò, stupita, mentre Saverio scuoteva il capo con disapprovazione – ma era evidentemente divertito – ed io facevo segno a Luca di seguirmi.

Lui mi guardò in maniera interrogativa quando ci sedemmo su una panchina dal lato opposto del cortile, vicino a dei ragazzi che si scattavano dei selfie e ridevano come matti.

“Saverio ha sbottato di grosso con gli inglesi quindi lo faccio calmare un attimo. Mi ringrazierete tutti” puntualizzai.

Luca levò un sopracciglio e mi fissò.

“Che magnanima che sei” commentò, falsamente lusinghiero.

“Vero?”.

“Dai, dillo che era una scusa...”.

“Per cosa?”.

“Per passare del tempo con me, qui, nell’angolo più remoto del cortile con dei ragazzi così presi dalle foto che non si accorgerebbero nemmeno se ci buttassimo l’uno addosso all’altra” osservò, appoggiando una mano sulla panchina e sfiorando impercettibilmente la mia mano, che avvicinai ancora di più alla sua.

“Sì, ma non mi sembra che tu ti stia lamentando” lo punzecchiai.

“Assolutamente no. E dovrei rimproverarti...”.

Lo guardai interrogativa, più seria del dovuto e lui comprese di dover essere più specifico perché avvicinò la bocca al mio orecchio e sussurrò: “...Perché se chiudo gli occhi ho impressa l’immagine di te senza maglia”.

Rabbrividii e mi fu difficile mantenere la calma mentre se ne stava a pochi centimetri da me, con il suo dopobarba dal profumo che apprezzavo fin troppo e il suo ginocchio che sfiorava il mio.

Mi alzai di scatto e lui sembrava divertito dalla cosa.

“Così non ci arriviamo vivi a stasera, signorino” sbottai, puntandogli l’indice contro.

“No, hai ragione. Facciamo così” disse serio, agitando le mani in maniera quasi convulsa mentre sembrava articolare chissà quale pensiero, “A fine pausa io e gli altri andiamo a controllare che tutti siano in classe. Io fingerò di metterci un po’ di più e ci incontriamo nei bagni del quarto piano, nessuno si trova mai in quella zona”.

“Saverio mi cercherà subito... Ho del lavoro da finire. A differenza mia tu sei più autonomo, io praticamente gli vivo dietro” sospirai, cercando di non immaginarci mentre pomiciavamo come selvaggi in un posto squallido come il bagno.

“Allora a pranzo” tentò, “Magari non in un bagno” si corresse, evidentemente comprendendo dalla mia espressione che non era l’ideale.

“Vedremo” mormorai, prima di ridere vista la sua espressione dubbiosa e insicura.

 

 

“Stasera serata recitazione e ovviamente noi saremo i primi a dare il buon esempio” esclamò Mario a ora di pranzo, interrompendo il silenzio misto a qualche precoce sbadiglio.

“In che senso?” domandò Clara, prima di mangiare una manciata di patatine fritte, seguita da un mormorio di assenso.

Mario era evidentemente felice per la suspense ottenuta perché gongolò soddisfatto e si strofinò le mani con fare diabolico.

“Avete presente quando, a Miss Italia, le concorrenti vedono la scena di un film e devono imitarla con degli attori?”.

“Ma chi cazzo vede Miss Italia?” borbottò Salvatore.

“Salvo, ma c’è una cosa che ti rende felice?” chiese Giada, dubbiosa, facendoci ridere tutti.

Salvatore non rispose, preso alla sprovvista, e Mario ne approfittò per continuare il discorso. “Dicevo, anche i ragazzi vedranno una scena e a turno dovranno imitarla. Inizieremo noi con una scena di gruppo, dai! Suggerimenti?”.

“Una scena che coinvolga tutti? Mi sembra impossibile” osservò Nadia, “Siamo troppi”.

“Esatto, magari meglio tre scene con massimo tre persone a testa” propose Elena.

“Ma tutti insieme era più divertente” mise il broncio l’activity leader, incrociando le braccia.

“L’esperto sei tu, dai, dicci cosa stavi pensando” si intromise Saverio, piuttosto severo, come a voler dire che non dovevamo osare intrometterci visto che ognuno aveva il proprio ambito e nessuno doveva interferire con il campo degli altri.

“Lo scoprirete tra qualche ora! Oggi i ragazzi hanno i vari laboratori quindi saranno con gli inglesi e gli spagnoli e noi possiamo prenderci un’oretta per provare”.

“Tradotto: non ne hai ancora idea” ridacchiò Elena, dandogli una pacca sulla spalla con aria ilare.

Per tutta risposta, Mario prese il bicchiere di acqua ormai vuoto e fece finta di rovesciarglielo in testa, facendo davvero scivolare qualche residuo di acqua tra i capelli.

“Mario, deve esserci qualcuno a sorvegliare i ragazzi! Nel caso succedesse qualcosa sarebbe la loro parola contro la nostra” gli ricordò Saverio pazientemente.

“Posso farlo io” mi offrii.

“E anche io” disse Giada.

“Non volete partecipare?” domandò Mario, imbronciato.

“Possiamo fare delle comparse! Così partecipiamo ma diamo comunque uno sguardo ai ragazzi”.

“Esatto!” le diedi man forte, più che altro sollevata dal non dover partecipare a qualche scenetta dopo essermi messa in gioco con la salsa.

Mario non parve convinto e felice ma Saverio sì, infatti ci diede l’ok e disse che dalle quattro alle cinque toccava a noi fare qualche giro tra i ragazzi.

 

 

Vedere Luca che giocava a calcio con i ragazzi nell’ora libera prima dell’inizio dei laboratori mi fece sentire strana.

Me ne stavo seduta sul prato con Giada, Salvatore faceva l’arbitro, Nadia e Clara parlavano con alcuni loro ragazzi, Saverio ne approfittava per riposarsi un po’ sull’erba e Mario e Elena controllavano dei documenti.

La giornata era abbastanza calda, io indossavo una semplice maglia di cotone e quasi mi sentivo sudare.

Luca non sembrava fregarsene della temperatura, correva agilmente da una parte del prato all’altra, rubava la palla ai ragazzi più grossi e la passava ai più minuti, io lo guardavo, esasiata, e mi rendevo conto di non sapere nemmeno cosa facesse in Italia, quando non lavorava come group leader.

Era una sensazione strana per me, perché avevo sempre catalogato qualcuno in base alle sue passioni, al suo lavoro, ai suoi gusti messi in confronto ai miei...

Era ciò che mi aiutava a fare una lista, a vedere i pro e i contro, ad analizzare tutto per capire la compatibilità.

Questa volta stavo avendo a che fare con una scatola chiusa e, tuttavia, la cosa mi piaceva perché non sentivo pressioni di alcun tipo.

Tuttavia, volevo provare a saperne di più su di lui, scoprire eventuali cose che avevamo in comune e riderci su, volevo davvero sentirmi ancora più connessa a lui.

Lo vidi passare la palla a un ragazzo di massimo quindici anni che prese l’occasione al volo, trovandosi vicino la porta, tirò e fece goal con la gioia della sua squadra che esultò, facendo scatenare un enorme boato.

Felice, Luca gli corse incontro, lo sollevò e se lo trascinò così per qualche decina di metri, poi lo lasciò agli amici che gli si gettarono addosso e, sudato, corse verso la parte di campo in cui c’ero io e si tolse la malgietta, lanciandomela.

Sorpresa, spalancai gli occhi e vidi che mi guardava sforzandosi di sembrare normale ma sapevo che fosse una cosa mirata, studiata, con il fine di ottenere qualche effetto su di me.

“Hai un vizio, eh? Lo hai fatto anche il primo giorno” dissi, falsamente disinvolta.

“Sì. Ne sono cambiate di cose, eh” rispose, falsamente vago. “Cristian, dammi il cambio, entra il campo!” gridò in direzione di un ragazzone alto almeno un metro e ottanta che scattò su, emozionato ed esultante.

Prese posto al mio fianco mentre gli tendevo la maglietta, la prese e lanciò un’occhiata a Giada che se ne stava al mio fianco.

“Stanco? Dopo venti minuti al massimo?” lo presi in giro, sforzandomi di guardargli il viso e non il torso nudo.

Si voltò verso di me – si vedeva lontano un miglio che si stava sforzando di comportarsi normalmente senza dare nell’occhio – si passò la lingua sulle labbra e scrollò le spalle. “Conservo delle energie, non si sa mai, qui”.

“Addirittura?”.

“Mentre voi fate gli scemi vado a farmi un caffè, sperando che nessuno si faccia male”.

La voce di Giada ci riportò alla realtà e ridemmo per mascherare l’evidente nervosismo.

La vedemmo allontanarsi in direzione della caffetteria per poi voltarci l’uno verso l’altro.

“Pensi di provocarmi?” sussurrai, rigida.

“Ci sto riuscendo?”.

“Pensa solo che potrei fare lo stesso con te”.

“Non vedo l’ora”.

La tensione tra noi era palpabile, di sicuro ci saremmo buttati l’uno sull’altra in quel momento se non avessimo avuto tutti quegli spettatori.

“Inventiamo di dover fare il bucato, ora, i laboratori iniziano tra trentacinque minuti” mi supplicò in un soffio, deciso.

“Cosa? Saverio non ci lascerà mai andare!”.

“Proviamoci. Lo facciamo davvero, ma almeno possiamo starcene un po’ in pace, sto impazzendo senza poterti nemmeno sfiorare o parlarti apertamente senza dovermi trattenere”.

“Luca...”.

Ma fu inutile, in tre secondi lo vidi alzarsi e raggiungere Saverio, il quale si era svegliato e guardava i ragazzi giocare.

Il capo esitò, guardò l’orologio, mormorò qualcosa e poi Luca se ne andò, vittorioso.

“Andiamo, alle quattro meno cinque dobbiamo essere di nuovo qui” disse, quando fu abbastanza vicino.

Incredula, mi alzai, presa da un’ondata di giubilo, e corremmo in direzione del campus senza riuscirci a contenere.

Luca era a pochi passi da me, quando fummo abbastanza lontani da tutti si voltò e mi prese per mano, con sicurezza.

C’era il sole pomeridiano che ci faceva da sfondo, gli rendeva i capelli scuri leggermente ramati, in modo da farlo sembrare il prototipo umano di qualcosa di divino.

“Quanto sei bello” mi lasciai sfuggire, senza potermi trattenere oltre, e avvertii la stretta di mano aumentare.

Sembrava imbarazzato, tuttavia fissò il suo sguardo su di me e mormorò: “Senti chi parla”.

Non dicemmo altro, emozionati, quasi corremmo per prendere i nostri vestiti e portarli in lavanderia, dove c’erano le apposite lavatrici che avrebbero lavorato al posto nostro.

“Questo posto mi ricorda una scena di Friends” dissi, mentre lui dosava il detersivo con cura.

“Oh, quella in cui Rachel e Ross vanno in lavanderia e lei non sa come fare il bucato?” domandò, per poi selezionare le modalità di lavaggio.

“Sì! Lei lo bacia e lui va contro non so cosa e cade... Ho sempre amato quella sitcom, in inverno vedevo gli episodi mentre bevevo cioccolata calda o mangiavo biscotti, mentre fuori pioveva, e mi sentivo al sicuro” confessai.

“Io lo vedevo con mia nonna!” disse, nostalgico. “Spesso andavo a fare i compiti da lei e prima che iniziasse un episodio mi portava pane e nutella, non del semplice pane, quello appena sfornato da lei, e mi diceva “muoviti che mo’ iniziano i sei amici, a’ nonna”. Amava Joey, ovviamente”.

“Che bello, avrai dei ricordi magnifici! La mia viveva a Sorrento e la vedevo poco, l’altra è morta prima della mia nascita”.

Luca annuì e non so come ci ritrovammo seduti sui gradini di ingresso della lavanderia, deserta a quell’ora del primo pomeriggio.

C’era un gran silenzio, l’unico rumore in sottofondo era quello della lavatrice in funzione.

“Sì, diceva che ero il suo nipotino prediletto, guai a chi mi toccava. Amavo vederla cucinare gli struffoli, la pastiera, i casatelli, la delizia al limone... Preferivo questo ai compiti, onestamente, sarà per questo che sono un pasticciere. Mi dispiace per le tue nonne...”.

Scrollai le spalle, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

“Almeno non ho sofferto per il distacco, dai. Quindi sei pasticciere? Wow! E’ assurdo, ti conosco da una settimana e non sapevo che mestiere facessi!” dissi, stupita.

Immaginai Luca vestito di bianco, coperto da farina, mentre decorava dei dolci con grande impegno e sorrisi spontaneamente.

“Abbiamo parlato di altro” minimizzò. “Sorpresa?”.

“Un po’. Non so perché ma vedendo quanto sei bravo con i ragazzi ti immaginavo tipo educatore, professore di educazione fisica, oppure maestro” rivelai, immaginandolo dietro una cattedra, con il solito sorriso che lo distingueva, mentre chiamava qualcuno alla lavagna.

“Ma dai! Maestro, io! Ho fatto l’albeghiero e non mi hanno bocciato solo perché ero bravissimo in cucina, in italiano e in inglese, per il resto non ero per nulla brillante. Non volevo nemmeno proseguire oltre la qualifica del terzo anno, pensa! Poi mi hanno convinto a proseguire, ho avuto soddisfazioni, e a diciannove anni ho iniziato a lavorare” spiegò.

“E, scusa, cosa ci fai qui, allora?”.

“Ho cambiato luogo di lavoro... Lavoravo in una pasticceria al Vomero dove ormai non mi trovavo bene, era come se fossi il dirigente del laboratorio dove facevamo delle sperimentazioni ma sottopagato. Mi sono scocciato e ho scoperto che in una pasticceria che apprezzavo molto, vicino al Teatro San Carlo, cercava un nuovo dirigente per rinnovare un po’ il menù, dopo non so quante prove mi hanno detto che da fine agosto mi avrebbero assunto, ho firmato il contratto, mi sono licenziato... Ed eccomi qui per guadagnare qualcosa nel frattempo”.

Più Luca parlava, più volevo sapere qualcosa in più sulla sua vita.

Il ragazzo con cui inizialmente mi ero scontrata, quello che mi aveva fatto arrabbiare varie volte, ora era lì, seduto di fronte a me, sincero.

Me l’ero presa quando mi aveva detto che dovevo abituarmi ai loro ritmi e non sapevo che in realtà per lui svegliarsi alle sei e trenta era quasi un privilegio, abituato com’era ad essere a lavoro già alle cinque.

Lavorava da sei anni, sei anni passati così, senza orari decenti, ma alimentati dalla passione per ciò che faceva, ed io in quella prima settimana mi ero lamentata per la stanchezza, io che stavo lavorando per la prima volta in vita mia.

“Mi sento stupida” ammisi quindi, deglutendo.

“Per cosa?” chiese, senza capire.

Lentamente, passò un braccio attorno alle mie spalle, mi strinse a sè e poi mi guardò come se fossi un quadro interessante.

“Me la sono presa con te quando mi dicesti che dovevo abituarmi ai ritmi... Non sapevo del tuo lavoro, di tutte le ore che passi in pasticceria, io...”.

“Alice” mi interruppe, appoggiando l’indice sulla mia bocca. “Facciamo due mestieri diversi, abbiamo esperienze diverse, pensi che io all’inizio fossi contento di svegliarmi alle quattro, dover andare a dormire presto, rinunciare alle uscite con gli amici? Ci si abitua e ti auguro di non dover più fare questi orari”.

“Ti ammiro” dissi senza giri di parole, presa dal suo racconto.

“E io ammiro te. Quando ti vedevo tradurre ciò che diceva Javi sembravi così entusiasta, fiera, piena di energie... Non nascondevo che pensavo che fosse dovuto anche a lui” ridacchiò.

“Gelosone”.

“Ha parlato quella che se mi vedeva parlare con Paula andava in tilt...”.

Non ce ne rendemmo conto ma il tempo volò, la centrifuga finì e ci rassegnammo ad appoggiare i vestiti vicino le nostre finiestre per farli asciugare visto che non avevamo trenta minuti di tempo per l’asciugatrice.

Sulla via del ritorno, alle quattro meno dieci, Luca mi trascinò dietro un edificio pieno di alberi e cespugli e mi ritrovai stretta contro un muro con lui che mi stringeva a sé.

“Come devo fare con te? Il tempo vola, hai questa capacità di non farmi rendere conto del tempo che passa, vorrei passare ore ed ore con te” sussurrò, per poi abbracciarmi. “Mi piace parlare con te, scoprire nuove cose...”.

“Lo so... Stasera, dopo la riunione, vieni da me” dissi, decisa.

“Non vedo l’ora”.

Ci baciammo, era un bacio colmo di urgenza, desiderio, un bacio che voleva suggellare ciò che ci eravamo detti e che voleva confermare che sì, ci trovavamo bene, e non solo fisicamente.

Io sentivo di essere sulla via del non ritorno, ero sempre più attratta da quel ragazzo e il pensiero di incontrarlo quella sera, senza fretta e pressioni, mi emozionava sempre di più.

 

Fu un pomeriggio sereno, senza pressioni. Io e Giada ci divertimmo un mondo ad andare in giro per i laboratori, notammo che ormai eravamo delle figure di riferimento per i ragazzi nonostante non fossimo delle group leader.

Ci acclamarono come se fossimo degli ospiti d’onore, durante il laboratorio di cucina notai che molti ci tenevano a farmi assaggiare piatti tipici spagnoli da loro preparati, come se io potessi dare un giudizio più valido rispetto a Paula e Alejandro.

Paula si guardava intorno, sorpresa di vedere me e la dottoressa al posto di Luca e gli altri, infatti, mentre i ragazzi si adoperavano per provare a fare la crema catalana, mi si avvicinò e mi chiese dov’era Luca.

Quando le risposi che era alle prove con il resto dello staff annuì e si allontanò, dubbiosa.

Dal canto mio, serena più che mai – Luca aveva ragione, era Paula ad essere ossessionata da lui – aiutai i ragazzi a destreggiarsi con i vari ingredienti con piacere.

Ci fu un coro di “Alice! Alice, vieni un secondo?” che si ripeteva ogni due minuti e Alejandro ne era soddisfatto perché non era molto bravo in cucina e spesso invece di aiutare era un disastro.

C’era chi, a quattordici anni, non aveva mai cucinato un uovo, chi non sapeva dosare gli ingredienti, ed io ero lì, pronta a dare una mano nel mio piccolo.

Pensavo a cosa avrebbe detto Luca nel vedermi così, in vesti che erano più sue che mie, sperai che tornasse presto.

Alle cinque, eccolo lì, che varcò la soglia della cucina gentilmente offerta dal college, con il solito sorrisone stampato in faccia e l’immancabile maglia rossa addosso.

In quel momento io ero troppo presa dall’aiutare Lino, un diciassettenne alto e di statura abbastanza grossa, che aveva combinato non so quanti casini in quella prima ora.

“Guarda, è semplice, rompere un uovo non fa schifo, dai!” stavo dicendo, dovendo iniziare dall’inizio perché aveva rovesciato il contenuto della sua ciotola per terra, senza volerlo, e io gli avevo dato una mano a pulire.

“Lo so, ma a casa mia abbiamo una cameriera, i miei viaggiano sempre” spiegò, rattristito.

Dai vestiti e dalle scarpe super costose e dai viaggi che gli avevo sentito nominare in quei giorni potevo dedurre quanto Lino fosse ricco.

“E fatti insegnare qualcosa, è divertente” lo spronai.

Presi due uova, le ruppi entrambe, poi gli diedi lo zucchero e gli dissi di pesare la giusta quantità.

“Mi rubi il mestiere, mediatrice?” disse Luca, fingendosi arrabbiato.

“Alice sarebbe un’ottima group leader!” rispose Lino, ovviamente non potendo capire a cosa si riferisse sul serio Luca.

“Ecco, vedi? Zitto”.

“No, no, continua” ridacchiò, divertito.

“Dipende, non so se Saverio mi cerca” dissi, riluttante, spostandomi di qualche passo.

“Non ci ha detto nulla...”.

Luca, hello! Welcome to the kitchen lab!” esclamò Paula, nel suo inglese che non esitava a celare l’accento spagnolo.

Vedendola così entusiasta mi irrigidii.

“Ma, dopotutto, se Saverio mi vuole me lo farà sapere” conclusi, tornando al mio posto.

Vidi Luca quasi trattenere una risata seguita da un’occhiata che stava a dire “Calmati” per poi informarsi su cosa stavamo cucinando.

Non disse il suo mestiere, come evidentemente non lo aveva detto durante il primo laboratorio di cucina, quello in cui Paula gli aveva palpato il sedere e lo aveva invitato in camera sua, forse per non porsi in una situazione di superiorità.

Entrambi ci occupammo di Lino, gli insegnammo le cose basilari e l’aiuto di Luca fu fondamentale per fare tutto nella sola ora restante.

Vederlo così dedito al lavoro, mentre faceva battute che facevano ridere Lino e lo incoraggiavano, mi fece realizzare ancora di più in che grande pasticcio mi stavo cacciando.

Un gran bel pasticcio, dolce, di quelli che mangeresti a volontà senza fermarti, nemmeno in nome della decenza.

 

 

Alla fine avevamo recitato una scena carina tratta da “La vita è bella” – quella della celebre “Maria, la chiave!” – e per rendere il tutto più divertente Saverio e Nadia avevano rappresentato i protagonisti.

Luca e Mario avevano interpretato il dottore che dice al protagonista “Sette minuti!” e il signore del cappello, noi altri eravamo delle semplici comparse.

I ragazzi si impegnarono per interpretare al meglio scene tratte da Grease, Titanic, High School Musical e probabilmente fu la serata più riuscita di tutte.

Erano felici, tanto che prima di andarsene avevano voluto cantare delle canzoni tratte dai musical che gli avevamo fatto interpretare ed io mi lasciai prendere la mano e diedi il mio contributo a “Summer Nights”, sentendola un po’ mia.

La riunione fu più allegra del solito, eravamo tutti soddisfatti e in più guardavamo con gli occhi a cuoricini Saverio che casualmente passava il braccio attorno alle spalle di Nadia o le cedeva il bicchiere di birra.

Poi, quando per magia il capo disse “Va bene, è tutto, possiamo andare”, verso le undici, io e Luca fummo i primi a scattare dalla sedia.

Ci eravamo seduti vicini sullo stesso divano e ci eravamo sfiorati così tante volte senza volerlo che, nei piccoli momenti di caos o distrazione generale, ci eravamo scambiati occhiate fugaci.

Corremmo verso l’edificio E a passo svelto, timorosi di un eventuale problema che avrebbe potuto indurci a dividerci, e appena ci ritrovammo in un corridoio vuoto gli sussurrai all’orecchio: “Camera mia”.

Luca mi guardò e sorrise, quasi incredulo, per poi abbracciarmi da dietro e stringersi a me.

“Non vedo l’ora...”.

Come due bambini che scappano dall’asilo, entrammo nel corridoio della mia stanza, silenziosi, aprii la porta mentre mi guardavo in giro e appena si aprì lo gettai dentro, così che male che andasse le ragazze del mio piano avrebbero visto solo me.

Quando mi chiusi la porta alle mie spalle, vidi che Luca stava chiudendo le tendine della finestra.

“E perché le chiudi? Sta per succedere qualcosa di scandaloso?” domandai, fingendomi tonta.

“Sì, tanto, tanto scandaloso” replicò lui, avvicinandosi a me in modo da trovarci faccia a faccia, respiro contro respiro.

“Oggi è stato bellissimo parlare, scoprire cose nuove su di te” sussurrai, accarezzandogli il volto con tutta la dolcezza che sentivo dentro di me.

“Sì! Mi sembrava di conoscerti da anni, sarà che hai parenti Campani...”.

“Ma che c’entra, scemo”.

“Scemo?”.

“Sì, scemo”.

“Hai ragione, sono proprio scemo. Qui, in una camera, con una collega, di notte, contro le regole...”.

Si calò su di me, mi baciò e poi si separò, guardandomi negli occhi.

“Siamo scemi, tanto, ma chi se ne frega...” gli diedi man forte, prima di attirarlo a me con decisione.

Sembravamo avere una sorta di accordo tacito, eravamo sulla stessa lunghezza d’onda: volevamo di più, avevamo perso due giorni, avevamo l’urgenza di conoscerci più a fondo.

In quel momento smisero le chiacchiere e, dopo un’intera giornata, passammo all’azione dopo provocazioni, occhiate, frasi sussurrate all’orecchio.

Non mi era mai successo prima di quel momento ma Luca aveva la capacità di mandarmi fuori controllo semplicemente toccandomi, attirandomi a sè, sfiorandomi una parte a caso del mio corpo.

Mi tolsi la maglietta e lui mi imitò, per poi far sì che mi ancorassi a lui e trascinandomi sul letto, dove passò a dedicarsi con fin troppa dovizia allo spazio compreso tra il mio collo e il mio seno mentre io, impaziente, riuscivo finalmente a tastare senza vergogna quel sedere perfetto che si ritrovava.

“Complimenti” borbottai, sentendomi audace più che mai.

“Complimenti a te, sei magnifica, mi stai mandando in tilt...”.

Un po’ più energica, mi misi a sedere e presi il suo volto tra le mani, lo ribaciai senza esitare nemmeno un istante e poi condussi le sue mani sul gancetto del reggiseno.

Comprese l’invito e obbedì, slacciandolo, poi ci separammo e mi vide togliermelo lentamente.

“Alice, mi sembra scontato ma preferisco chiederlo, vuoi...?”.

“Sì” lo interruppi subito, decisa.

Gettai il reggiseno per aria, mi sbottonai i jeans e lui mi aiutò a sfilarmeli, poi lo aiutai a sua volta a fare lo stesso con i suoi.

Era visibilmente eccitato e la cosa mi lusingava, possibile che riuscissi a sortire un simile effetto su un ragazzo che ritenevo molto più affascinante e bello di me?

Luca era dolcissimo ma passionale, mi faceva sentire desiderata, rispettata.

Mi sfilò il resto dell’intimo con delicatezza, toccandomi in un modo tale da farmi desiderare di più, sempre di più, tanto da ridurmi ad uno stato frenetico in cui non volevo altro che unirmi a lui.

Lo attirai su di me con decisione, senza smettere di baciarlo, toccarlo, lasciarmi toccare con decisione, quando un suono fastidioso ci fece sussultare.

Luca spalancò gli occhi, sbuffò, si mise a sedere di malavoglia mentre diceva “Cazzo, il mio telefono...”.

Con l’aria di chi è infastidito ma teme il peggio ripescò il cellulare dai pantaloni che se ne stavano sulla moquette e disse “Cazzo, è Saverio!” pieno di terrore.

Si schiarì la voce, rispose subito, ma non ebbe nemmeno il tempo di dire “Saverio, dimmi” che lui lo interruppe con un fiume di parole.

Io lo guardavo, lui così, solo in boxer, alzato, inquieto, ed io che iniziavo a sentire freddo e mi coprivo col lenzuolo.

Luca staccò la telefonata, nero in volto, il respiro pesante.

“Che è successo?” domandai, preoccupata.

Luca si infilò la maglia in mezzo secondo e poi mi guardò, con aria funebre.

“Uno della mia squadra, Giulio, si è rotto un braccio. Dobbiamo correre all’ospedale”.

 *°*°*°*

Scusatemi, come al solito la vita da "adulta" tra lavoro, casa e mille cose da fare prende il sopravvento ma alla fine aggiorno sempre :D

Allora, capitolo interessante!

Alice capisce il suo "errore" e fa un passo indietro, Luca comprende tutto e passano un pomeriggio piacevole, conosciamo qualche dettaglio in più sulla vita di Luca e a fine giornata... Eheh.

Poverini, sono stati sfortunati.

Cosa succederà ora?

Fatemi sapere che ne pensate!
Grazie a chi continua a leggere <3 

a presto (dico davvero!)

Milly.

  
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