Anime & Manga > Rocky Joe
Segui la storia  |       
Autore: Redferne    03/12/2017    3 recensioni
A cosa pensa un uomo durante gli ultimi istanti della sua vita?
A che pensa, mentre si trova sul punto di morire?
Genere: Drammatico, Sportivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Danpei Tange, Joe Yabuki, José Mendoza, Sorpresa, Yoko Shiraki
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 5

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel frattempo, all’interno del palazzetto sportivo, avevano cominciato ad averne tutti quanti abbastanza di quella ridicola e tragicomica farsa, sicuramente inappropriata ad un evento così importante.

Ne avevano avuto abbastanza gli spettatori, che gli vomitavano addosso tutta la loro rabbia e la loro delusione sotto forma di improperi, ingiurie e bestemmie di ogni tipo e risma.

 

“VAFFANCULO, YABUKI!!”

 

“MA VAI A FARTI FRIGGERE, COGLIONE!!”

 

“MUOVITI, PER DIO...SCHIVA!! FA’ QUALCOSA, INVECE DI MENAR COLPI ALLA CIECA!! NON SEI BUONO DI COMBINARE ALTRO?!”

 

“CI HAI ROTTO, HAI CAPITO?! NON NE POSSIAMO PIU’!!”

 

C’era da giurare che di lì a poco avrebbero iniziato con il consueto lancio di cuscini e oggetti vari all’indirizzo del ring. Come sempre facevano, ogni volta che i due contendenti non soddisfacevano le loro aspettative.

Tsk. Che ci venissero loro a combattere lì sopra, se ritenevano di poter fare meglio. Anzi, che facessero e che dicessero pure tutto quel che passava per le loro teste ottuse e bacate, giunti a quel punto. Potevano pure morire, per ciò che gli fregava.

Aveva iniziato ad averne abbastanza pure il vecchio pugilomane, che durante il break al termine della terza ripresa aveva attaccato con la solita, pallosa manfrina.

 

“Senti, Joe...dimmi solo una cosa. Una cosa soltanto, e poi non ti romperò mai più. Lo giuro sulla mia testa, per quel che vale. Ma tu rispondimi, ti prego. E rispondimi SINCERAMENTE. Dimmi...dimmi solo perché stai facendo questo. Perché...stai facendo tutto questo a te stesso...e a me. Dimmelo, per favore. Tutto quello che abbiamo fatto, passato insieme...ti ricordi quante ore abbiamo speso, quanta fatica abbiamo fatto per prepararci a questo giorno? A QUESTO MATCH? Te lo sei dimenticato, forse? Perché ti stai comportando così, eh?! PERCHE’ VUOI MANDARE TUTTO ALL’ARIA IN QUESTO MODO? CI SARA’ PURE UNA RAGIONE, PER CUI TI STAI COMPORTANDO IN QUESTA MANIERA!! E TU ME LA DEVI DIRE, CAPITO?! VOGLIO SAPERE IL PERCHE’, CHIARO?! SONO IL TUO ALLENATORE! NE HO IL DIRITTO, DANNAZIONE!!”

 

Gli aveva dato le spalle e si era rimesso in piedi, come a voler raggiungere il centro del quadrato ancora prima che risuonasse il gong di inizio ripresa. Non si era nemmeno preso la briga di volergli rispondere.

Era una totale perdita di tempo e di fiato. Non ne valeva nemmeno la pena.

 

“NON TI PERMETTO DI IGNORARMI COSI’!! MI SENTI, MALEDETTO?! PERCHE’...PERCHE’ MI STAI...CI STAI FACENDO QUESTO, EH?! RISPONDIMI, RAZZA DI SCHIFOSO INGRATO E MANGIAPANE A TRADIMENTO CHE NON SEI ALTRO!! PIANTALA, HAI CAPITO?! DEVI PIANTARLA, CON QUESTA DANNATA PRESA PER IL CULO!! E SUBITO, ANCHE!!”

 

CI STAI FACENDO QUESTO.

Tsk. Ma sentitelo. Allo zietto Danpei gli erano venute le manie di protagonismo. Gli stava facendo fare brutta figura, a quanto pareva. Manco fosse lui, lì in mezzo, quello che si stava facendo riempire di botte.

Non aveva voluto guardare. Probabilmente Nishi, insieme a Chomei e Masato, lo stavano trattenendo a forza al di fuori delle corde per impedirgli di saltargli addosso e ammazzarlo. O di sbranarlo vivo, a giudicare da come urlava e sbavava.

Che ci provasse pure a farlo, quel vecchio beone testa di rapa. Ormai non poteva più infastidirlo. Magari pensava di potergli dare ancora una lezione come ai primi tempi, quando si erano trovati per puro caso ed avevano deciso di dar vita al loro strano sodalizio. Ma ormai non poteva suonargliele nemmeno se avesse avuto entrambe le mani legate ed immobilizzate dietro la schiena. Senza offesa per DANPEI TANGE detto LA TIGRE, vecchia gloria del pugilato giapponese dal coraggio indomito, ma...ormai non poteva reggere un solo round, per come stava messo. Nemmeno contro TOPOLINO.

Ma la cosa peggiore era che aveva iniziato ad averne abbastanza anche il campione. Il suo sconcerto iniziale doveva già essersi tramutato in feroce disappunto. Molto probabilmente era passato dal chiedersi se la buffonata a cui stava partecipando era valsa un volo intercontinentale al ritenere più che giustificati i sospetti che doveva nutrire da tempo. E l’impressione che doveva essersi fatto sul suo conto sin dal loro incontro – scontro alle Hawaii. E cioé di aver di fronte un giovanotto arrogante e presuntuoso che dimostrava chiaramente, con la sua condotta da sbruffone, di non avere nessun rispetto per la boxe in generale. E nemmeno per colui che, al momento, ne costituiva uno dei massimi rappresentanti. Uno sciocco ed impertinente ragazzino a cui doveva impartire, a cui doveva essere impartita una sonora lezione. Ed il tutto nel pieno rispetto della sua figura di pugile professionista.

Valeva a dire una bella batosta. E di quelle memorabili, per giunta.

Non ci aveva messo poi molto a prendergli le misure, com’era prevedibile. E ad iniziare a dare sfoggio di quella sua tecnica sopraffina per cui veniva tanto rispettato, venerato e temuto.

Ogni suo gesto, ogni sua tecnica era una perfetta sintesi di potenza, velocità ed eleganza. Ma soprattutto di economia di movimento. Pura scienza applicata alla disciplina, che con lui trascendeva i confini sportivi per diventare autentica ARTE. Un’arte dove nulla era lasciato al caso o era frutto di trovate estemporanee. Ogni cosa, ogni particolare che componeva il suo stile era calcolato al secondo e al millimetro, con precisione estrema. E gli permetteva di ottenere il massimo con il minimo, tutto qui. Non sprecava una sola stilla di energia di quanto gli servisse o gli fosse necessario allo scopo. Detta così sembrava una cosa da nulla, ma occorrono anni di allenamento severo e rigoroso, al limite delle possibilità umane, per ottenere tale risultato. Nonché una certa predisposizione naturale. Servono una mente ed un cuore freddi e duri come il ghiaccio o l’acciaio, e una determinazione ed una volontà a dir poco maniacali di volersi migliorare costantemente, giorno dopo giorno. Mica é una roba da tutti. Ed é la cosa che fa la differenza tra un picchiatore qualunque ed un FUORICLASSE quale era Mendoza.

Effettuava le schivate giusto un istante prima che il tuo pugno si abbattesse su di lui. Fino all’attimo precedente ce lo avevi lì, perfettamente immobile, e poi...all’improvviso il bersaglio non c’era più. Riuscivi al massimo a sfiorarlo, ma mai a colpirlo veramente. E a causargli danni consistenti. L’effetto era a dir poco straniante, inquietante. Sembrava di prendere a ceffoni uno specchio d’acqua limpida e placida. Per quanto ti sforzavi, riuscivi solo ad intaccare la superficie, mentre il resto rimaneva intatto. Finivi per sfiancarti senza aver ottenuto nulla. Inutile, ecco come ti sentivi. I tuoi guantoni scivolavano sopra la sua pelle, come se avesse l’intero corpo cosparso di vaselina o di olio. Pareva che non si limitasse ad evitare semplicemente gli attacchi. Le sue movenze fluide ed aggraziate ricordavano quelle di kendoka o di un karateka impegnato ad usare quella tecnica che loro chiamano MIKIRI. Dove mandare a vuoto l’iniziativa avversaria non consiste solo nell’ondeggiare col tronco o con le gambe. Era l’insieme del saper calcolare la distanza, il ritmo, la direzione di ogni offesa o potenziale minaccia rivolta alla propria persona. Mendoza dominava davvero il tempo e lo spazio, sul quadrato. Lo mancavi, e nel momento stesso in cui tu ti sbilanciavi anche solo impercettibilmente lui partiva. Aggiungendo ad ogni suo colpo la forza del tuo slancio in avanti, massimizzandone in tal modo l’efficacia. Ed in quello il MIKIRI mutava forma. Diventava come l’HIRIMI dell’Aikido. Accogliere dentro il proprio territorio la furia omicida del contendente ed assecondarla, almeno all’inizio, per poi guidarla e manovrarla a piacimento. Ed in ultimo ritorcergliela contro. E a guardarlo bene in faccia José condivideva proprio l’impassibile ed imperturbabile espressione tipica dei più grandi praticanti e depositari di quelle antichissime tecniche marziali. Il volto di chi é riuscito a TRASCENDERE, diventando parte di un tutto. Ed elevandosi a una dimensione superiore. Tipi così ti atterriscono con la loro semplice presenza. Ora gli era ben chiaro cosa doveva aver provato il povero Carlos quando se l’era trovato davanti. Ogni volta che gli si faceva sotto, aveva la sensazione di mettersi contro l’intero universo.

Se le cose stavano davvero così, allora che senso aveva continuare a combattere?

Come accidenti fai a vincere contro L’INTERO UNIVERSO?

Doveva davvero aver preso a prestito una goccia del saper millenario di quegli antichi maestri, così come doveva averla adattata al suo stile. Antico e moderno che si fondevano e convivevano come se si trattasse della cosa più semplice e naturale di questo mondo. Un’eresia, per i puristi. O forse, solo per gli ottusi. O magari non aveva preso un bel niente. Gli si era rivelato e basta, una volta giunto al termine del suo percorso di ascesi. Dicono i monaci Zen che la conoscenza, la VERA CONOSCENZA, quella che scaturisce dal profondo, é sostanzialmente la stessa per ognuno di noi. Gli illuminati giungono tutti alle stesse conclusioni, oggi come centinaia di secoli addietro.

O magari aveva anche lui dei poteri soprannaturali. Dicevano che alcuni di quei combattenti leggendari, grazie alla loro assidua pratica quotidiana, a furia di ripetere mille e mille volte gli stessi gesti fino a crollare a terra esausti per la fatica, avessero acquisito capacità extra – sensoriali. Chissà, magari anche José era in grado di prevedere le sue intenzioni prima ancora che riuscisse a metterle in atto. Leggendogliele negli occhi. Oppure dalle micro – vibrazioni delle fibre muscolari. O forse vedeva anche lui delle scie luminose partire dal suo corpo, un istante prima che partisse l’attacco...

E comunque...era proprio il caso che stesse lì a riflettere su stronzate senza alcun senso come quelle? IN UN MOMENTO SIMILE?

E’ proprio vero che quando sei con le spalle al muro e annaspi nella merda fino al collo inizi a pensare alle cose più assurde. Ti vengono in mente le cazzate più improbabili. Proprio come quando sei sul punto di MORIRE.

Era meglio pensare ad altro, và.

Come ai suoi pugni, per esempio.

Già. Proprio così. I suoi pugni.

I SUOI PUGNI, CRISTO SANTO.

I PUGNI.

Era una sensazione che lo accompagnava da quando aveva iniziato a vederlo all’opera. Dal primo momento che lo aveva visto danzare, muoversi e combattere sull’immacolato tappeto. L’impressione che Mendoza somigliasse più ad un’aquila che ad un uomo. Un’aquila come quella stilizzata che fungeva da stemma e che adornava la bandiera del suo paese di origine, al centro del tricolore. Un’aquila che esultava su di una pianta di cactus ed in equilibrio su di un’unica zampa, orgogliosa e fiera, mostrando soddisfatta tra le proprie grinfie la serpe che aveva appena catturato. E proprio come lei sembrava volare alto nei cieli, maestoso ed irraggiungibile. Dominava l’aria incontrastato, e di conseguenza tutto ciò che viveva e respirava sotto la sua sagoma. Perché chi governa il cielo governa anche la terra, e tutte le creature che si muovono sopra la sua superficie. Tu non potevi nemmeno pensare, SPERARE di toccarlo, nemmeno con un dito, mentre lui era libero di disporre di te a proprio piacimento. Di piombare su di te e ghermirti in qualunque istante, ogni volta che lo desiderasse.

Si librava libero ed imperturbabile sulle ali del vento, per poi gettarsi all’improvviso in picchiata sulla preda che aveva appena scelto e straziarne le carni a colpi implacabili di becco, artigli e rostro.

La triade, la santissima trinità delle micidiali armi naturali impiegate dal Re, dal Dio dei rapaci per imporre la sua legge e la sua supremazia su chiunque altro. E che nella sua trasfigurazione umana umana quale era Mendoza confluivano tutte quante nel suo pugno. Uno e trino, era proprio il caso di dirlo.

I pugni, cristo santo. I PUGNI.

Quel modo che aveva di sferrare i diretti, puntando dall’esterno verso l’interno, con il braccio leggermente flesso all’altezza del gomito, quasi si trattassero di una curiosa variante imbastardita con un qualche tipo di gancio molto ma molto ampio, ma che a differenza delle sventole mantenevano una traiettoria chiusa e stretta al massimo. E poi quello scatto secco che imprimeva al polso, facendolo roteare in senso antiorario ed avvitare su sé stesso fino a fargli assumere una posizione che per per qualunque altro essere umano avrebbe dovuto risultare innaturale ma non per lui, con il dorso della mano ritorto di quasi centottanta gradi rispetto alla posizione di partenza, tanto da risultare quasi parallelo al pavimento, con l’articolazione che a fine corsa pareva sul punto di spezzarsi da un momento all’altro mentre trasferiva sulle prime due nocche il peso dell’intero corpo giusto un attimo prima che impattassero sull’obiettivo…

Quella tecnica, LA SUA TECNICA, era unica al mondo. Non aveva eguali. Nessuno l’aveva mai perfezionata fino a quel punto. E nessuno sarebbe mai riuscito a fare altrettanto dopo di lui, molto probabilmente. Era il suo marchio di fabbrica. Al punto che l’aveva persino battezzata. Sul serio, le aveva davvero trovato un nome.

IL COLPO A CAVATAPPI.

Spiritoso. Si era persino voluto concedere il lusso di scherzarci pure sopra. Privilegi del rango.

Un nome così buffo per un colpo così micidiale. Ogni volta che ti centrava era come se ti scavava in profondità con un punteruolo. Oppure con uno scalpello. Bordate di maglio tirate con la punta di un ago sottile. Ti asportava un pezzo dopo l’altro, con precisione metodica e chirurgica, Proprio come uno scultore alle prese con un blocco di marmo, pietra o di granito, una stoccata alla volta scolpiva il suo capolavoro sul tuo corpo. Ti staccava un pezzettino, un frammento alla volta. Di muscoli, di carne e di pelle. E di sangue, di nervi e di ossa.

Ti distruggevano, quei colpi.

TI DEVASTAVANO DALL’INTERNO, LETTERALMENTE.

L’ultimo che lo aveva raggiunto all’altezza della tempia destra, poi...quello con cui lo aveva spedito al tappeto alla quarta ripresa. Per la terza volta in quattro round. Aveva sentito uno strano rumore diffondersi dalla zona colpita fino al timpano, che gli aveva preso subito a fischiare. Un rumore simile a quello dei denti di un bambino intento a sgranocchiare...giovani mandibole all’assalto di qualcosa di CROCCANTE. DI MOLTO CROCCANTE.

Come le seppie essiccate che comperava sempre al piccolo Kinoko, ben sapendo che il tappetto ne andava matto…

Oppure come doveva essere quello spiedino che aveva rubato Sachi, quando lui era intervenuto a difesa della ragazzina dopo averla vista in balia di quel gruppetto di mafiosi da strapazzo...per poi, una volta sistemato tutto a suon di sganassoni, sberle, calci, spintoni contro il muro, gente gonfiata peggio dei tamburi e teste vuote fracassate, prenderla per i fondelli fino alla morte chiamandola LADRA DI YAKITORI oppure LA SIGNORINA RUBASPIEDINI, proprio durante i primi giorni di permanenza al quartiere...anzi, no: doveva essere accaduto il giorno stesso del suo arrivo. IL PRIMO GIORNO, il giorno in cui era iniziata ogni cosa…

Davvero incredibile. Il destino, alle volte. Vai tu a sapere che…

No. Era qualcosa di diverso. E di molto più sinistro. Era il rumore di qualcosa che andava in FRANTUMI.

La parte destra del suo osso temporale.

Gli era sembrato di sentire, insieme alla fitta di dolore, una crepa profonda che partiva dalla tempia e che poi si biforcava all’altezza dello zigomo, raggiungendo in contemporanea la zona dell’orbita ed il lato del mento. Aveva chiuso gli occhi di riflesso, ed aveva udito anche una sorta di impercettibile schiocco, seguito da un lampo bianco. E poi da uno rosso. Ed il suo cervello che si era messo a vagare tra le sue scarne reminescenze di medicina e chirurgia applicata. Quei due bagliori improvvisi...poteva essere il cristallino che si era appena staccato. O la cornea lacerata. Oppure un capillare o un vaso sanguigno che si era appena reciso e che aveva iniziato a spargere copiosamente la linfa vitale tutt’intorno a sé, invece di continuare ad irrorare i tessuti circostanti...o magari entrambe le cose, giusto per non farsi mancare nulla.

Intanto però si ritrovava schiena a terra, disteso. La prima cosa da fare era rialzarsi. Ancora.

Si era rimesso in piedi e solo allora li aveva riaperti. E quando finalmente si era deciso a farlo, a riaprire quelle dannate palpebre, si era accorto che...non ci vedeva.

Non vedeva più come prima.

L’occhio destro era come velato da una patina rossastra, una nebbia vermiglia che inghiottiva le linee, i colori ed i contorni. E che aumentava sempre più d’intensità, con il passare dei secondi.

Non gli importava. Non avrebbe smesso di combattere. Né di attaccare. Per nulla al mondo. Poi...

Poi aveva alzato lo sguardo. E aveva visto Mendoza.

All’inizio il messicano era di spalle, sembrava stesse raggiungendo il suo angolo. Probabilmente riteneva il discorso già chiuso. Poi, sentendo l’arbitro interrompere il conteggio, si era girato.

La parte sinistra del suo corpo, dal braccio fino al cuore, appariva tutta confusa, sbiadita, indistinta. E sul suo volto vi era una smorfia di alterigia e supponenza, unita a quello sguardo enigmatico ed impenetrabile che non ti faceva mai capire a cosa stesse pensando. Sembrava lo stesse osservando dall’alto. Come dalla vetta di una montagna inaccessibile al resto dei mortali.

Le sue labbra si mossero impercettibilmente.

“Yellow sheep...”

Yellow sheep.

Proprio quello, aveva detto.

La stessa frase che aveva sussurrato quella volta nella palestra di Honolulu, quando gli aveva fatto assaggiare per la prima volta il suo colpo a cavatappi e lo aveva mandato disteso con un un unico, fulmineo destro.

Yellow sheep.

PECORELLA GIALLA.

Aveva parlato MISTER FACCIA DI SORCIO.

 

Si. Hai capito benissimo.

Ho detto proprio FACCIA DI SORCIO.

Sarò anche ignorante come una capra, ma stavolta mi sono preparato anch’io, che ti credi.

E’ così che vi chiamano gli Yankee, non é vero?

E vi fa incazzare tanto quanto fa incazzare noi giapponesi quando sentiamo una frase che termina con il suffisso GIALLO.

SCIMMIA GIALLA, LIMONE GIALLO, MUSO GIALLO, NANEROTTOLO GIALLO...E PECORELLA GIALLA, NATURALMENTE.

Lo so a cosa stai pensando, anche se stai facendo finta di ignorarmi.

Stai pensando che non é valsa la pena attraversare mezzo mondo e giungere fin qui in Giappone per uno spettacolo così deplorevole, non é vero?

Beh, sappi che ti sbagli.

TI SBAGLI DI GROSSO, CARO MIO.

Avrai anche tu la tua bella dose di colpe da dover espiare. Chissà quanti poveracci avrai ridotto come Carlos, nel corso della tua lunga carriera. E della maggior parte di loro nemmeno ti ricordi.

Per te sarebbe come ricordarsi di QUANTO PANE HAI MANGIATO FINO AD ORA, NON E’ FORSE COSI’?

Io i miei me li ricordo benissimo, invece. TUTTI QUANTI.

Tienilo bene a mente, José: I CONTI SI PAGANO, PRIMA O POI.

E IO, STASERA, SONO VENUTO QUI A RISCUOTERE.

Devi pagarmela per quel che hai fatto al mio amico. E ME LA PAGHERAI, TE LO GARANTISCO.

MI AMMAZZERAI, MA TE LA FACCIO PAGARE.

HAI CAPITO?! BRUTTO FIGLIO DI UNA GRANDISSIMA PUTT…

 

Aveva scostato violentemente l’arbitro che gli si era avvicinato per sincerarsi delle sue condizioni e si era lanciato di nuovo all’assalto.

Aveva tirato il guantone destro all’indietro, fin oltre la spalla, e tenendo l’occhio ancora buono fisso sul campione. Ne vedeva tre, di lui. Aveva mirato a quello di mezzo e…

LO AVEVA PRESO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve a tutti, rieccomi qua!

Chiedo scusa per il ritardo, ma ho avuto un sacco di problemi in questo periodo.

Tra cui di salute.

Diciamo che riuscivo a stare in piedi giusto per andare a lavorare e poi, una volta a casa, crollavo per la febbre…

E leggendo questo capitolo, a qualcuno verrà da chiedersi se la febbre non ce l’avevo anche mentre scrivevo.

Lo ammetto, forse mi sono lasciato prendere un po' la mano. A giudicare dalla descrizione che ne faccio, sembra quasi che abbia voluto dare a Mendoza un’immagine quasi divina.

In realtà non deve stupire. Nell’antica Grecia, ai tempi delle Olimpiadi, gli atleti (o AGONI) venivano considerati la trasfigurazione umana degli Dei. Osannati ed ammirati da tutti. E, per la cronaca, gli sport da combattimento come il pugilato e la lotta erano amatissimi, dal pubblico.

Lo stesso Muhammad Alì era considerato il Dio della boxe. E quindi perché non dovrebbe esserlo anche il nostro José, che é senza dubbio il più forte pugile della sua categoria?

Inoltre, ho cercato di far trasparire anche l’enorme soggezione che nutro per questo personaggio. A me, da piccolo, FACEVA PAURA.

Anche Ivan Drago faceva paura. Ma sapevi che Rocky, alla fine, avrebbe vinto. Ma qui non siamo in America, come ho già detto. Arrivi veramente a temere per l’incolumità di Joe.

Ringrazio intanto i sempre presenti (e gentilissimi) Devilangel476, innominetuo e kyashan_luna per le recensioni all’ultimo capitolo. E un grazie anche a chiunque leggerà la storia e vorrà lasciare un parere.

Grazie ancora a tutti e alla prossima!!

 

See ya!!

 

 

 

 

Roberto

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Rocky Joe / Vai alla pagina dell'autore: Redferne