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Autore: The Custodian ofthe Doors    07/12/2017    1 recensioni
Jason è piccolo e ogni cosa attorno a lui sembra gigantesca ed irraggiungibile.
Sua madre lo ignora, sdraiata sul lettino a prendere il sole e solo sua sorella lo distrae e lo fa felice, prendendosi cura di lui finché non scompare, diretta in un posto che non è ancora il suo.
Poi vede un bambino, che gioca sul ponte di quella nave da crociera con una barchetta di carta e gli racconta di come ha intenzione di costruirne una tutta sua da grande, una nave così bella che potrà volare e su cui ci sarà anche un drago. È un sogno ad occhi aperti e Jason ci crede, ci crede fermamente alle parole di quel bambino che ora è suo amico, che gli promette che lo farà viaggiare con lui sulla nave alla conquista dei sette mari, che insieme vivranno avventure incredibili e che ora, come per sempre, saranno amici. E Jason gli crede.
Eppure ora è solo.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jason Grace, Leo Valdez
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Jason è piccolo e ogni cosa attorno a lui sembra gigantesca ed irraggiungibile. Si spinge in punta di piedi e cerca di vedere cosa ci sia oltre il parapetto della nave su cui si trova. Si volta indietro per controllare che la mamma se ne stia ancora tranquilla a leggere il suo giornale e che non lo veda, se no è sicuro che lo sgriderebbe. Non sa bene perché poi, ma ha questa sicurezza, a sua madre non piacerebbe per niente che lui si allontani troppo dal suo lettino. Scruta con attenzione la donna sdraiata mollemente a prendere il sole: ha un costume rosso fuoco e le gambe lunghe e abbronzate. Può vedere lo smalto in tinta con i vestiti, le mani curate ma su cui spuntano delle macchioline, che sia il caldo a fargliele venire, come le lentiggini? Il volto della mamma è però coperto dalla rivista aperta, riesce solo a scorgere i boccoli biondi che le ricadono sul seno e uno scorcio dei grandi occhiali da sole scuri che le coprono gli occhi. La testa è protetta da un cappello a falde larghe e vicino al lettino, su di un tavolinetto basso, è posto un bicchiere pieno di un liquido colorato.
Jason storce la bocca, non sa perché ma non gli piace per niente quel coso, né il bicchiere né il liquido, ma davvero non si sa spiegare il motivo.
Si rigira e prova di nuovo a tirarsi sulle punte, senza successo, è davvero troppo piccolo ancora.
Poi due mani si stringono intorno ai suoi fianchi, delle braccia lo avvolgono e lo tirano su di peso per fargli vedere l'oceano blu e bianco di schiuma mossa dalla nave. Sorride meravigliato e stupito, felice di essere arrivato alla sua meta e sicuro, perché sa di chi sono quelle braccia pallide, lentigginose e così famigliari.
Talia gli sorride senza un dente, è l'ultimo che le è caduto, ora non ne ha più nessuno da latte. I capelli scuri e scompigliati sono mossi dalla brezza marina ed il naso, le guance e anche un po' la fronte, sono pieni di piccoli puntini chiari, come gli arti della ragazzina.
<< Ti piace Jaja?>> gli chiede sorridendo malgrado lo sforzo.
Jason le regala un sorriso smagliante e annuisce. << Mi piace tanto, ci restiamo ancora?>>
<< Certo! È una crociera questa, staremo qui finché non arriveremo al prossimo porto.>>
<< E intanto cosa facciamo? Possiamo giocare? Mamma dice che non mi devo allontanare...>> lascia la frase in sospeso, perché non sa cosa deve fare e perché sa che Talia spesso ha idee tutte diverse da quelle di sua madre.
La ragazzina infatti scuote la testa e poi si toglie una mollettina per rimettersela bene e fermare la frangia scura che le va sugli occhi.
La mamma dice che ha i capelli come quelli del loro papà e Jason gli crede, certo, ma non lo ha mai visto quindi non sa proprio come sono i suoi capelli.
<< Facciamo così!>> la sorella lo poggia a terra e gli sistema la maglietta arancione che gli si era tirata su. Jason la guarda per un attimo e si domanda perché proprio quel colore, l'avrebbe preferita viola.
<< Giochiamo ai pirati!>> trilla sua sorella felice e Jason lo è con lei. Saltella sul posto e dice di voler fare il capitano. Si mettono a discutere su chi debba farlo, perché è Talia la più grande e alla fine Jason le da ragione e si accontenta di farle da secondo.
Giocano così per tanto tempo, la mamma non li degna neanche di uno sguardo ma ci sono abituati, lui c'è abituato. È Talia che lo fa giocare, che si impegna per farlo star bene e che si cura di lui, lo sa che sua madre non muoverà un dito, ne ha la certezza e la cosa, in un certo modo, non lo disturba più.
Corrono per tutto il ponte della nave, inventano storie grandiose ma poi Talia si ferma. Gli poggia una mano sulla spalla e gli dice che ora deve andare via. Ha un impegno, deve andare da una parte e non può portarlo con sé perché quel luogo non fa per lui, non è il suo, non ancora.
Jason non la capisce, si sente un po' tradito a dire il vero, mentre vede la sorella andarsene verso una porta e scomparire. Lo ha lasciato solo, perché lo ha fatto?
Si volta verso la sdraio di sua madre ma anche la donna è scomparsa chissà dove.
Si siede sconsolato su un gradino, impunta i gomiti sulle ginocchia e si prende il volto paffuto tra le mani piccole e piene di calli.
Come se li è fatti quelli? Sembrano centinaia di ferite da carta, ma molto più grandi.
Perplesso le osserva bene ma viene interrotto da qualcosa.
C'è un bambino, più in là, sul ponte, che gioca da solo. È bassino e ha la pelle scura, i capelli castani e ricci, un groviglio senza senso e senza ordine. Stringe in mano un cacciavite e una barchetta di carta. Jason lo guarda girare su se stesso e incontra un paio di occhi vivaci e caldi, allegri ed intelligenti. Il nasino a punta, il sorriso ampio e sdentato, ma di certo non come quello di...di chi? Chi era? Non se lo ricorda più, non ricorda più nulla. Però continua a tenere d'occhio il bambino con le orecchie da folletto e dopo un po' decide di alzarsi e andargli a chiedere se può giocare con lui.
Jason non ha paura di fare amicizia, gli piace stare con le persone, gli è sempre piaciuto e sente la mancanza di qualcosa di importante.
<< Ciao, posso giocare con te?>> gli chiede semplicemente e il bambino allarga il sorriso e annuisce contento, come se fosse il primo a chiederglielo, come se non lo facesse mai nessuno e anche lui, come Jason, fosse sempre solo, anche se forse in modo diverso dal suo.
<< Certo! Stavo giocando ai pirati!>>
E quella risposta gli piace, gli ricorda qualcosa che non sa bene ma che gli piace proprio, si. Forse ci giocava anche lui prima, ma con chi?
È un gioco famigliare come lo è la presenza di quel bambino.
<< Mi piace! Quella è la tua nave? Sei il capitano no? Mi fai salire a bordo?>> chiese subito.
Il bambino annuisce e gli mostra fiero la barchetta. << Questa è la mia nave si, ma quando sono grande ne costruisco una tutta mia, più grande e più bella. Ci metto sopra pure un drago e la faccio volare!>> Afferma orgoglioso.
Jason sgrana gli occhi, non ci può credere. << Davvero? Ne fai una così grande che può tenere un drago?>>
<< Si! E vola!>>
<< E posso salire anche su quella? Quando la fai, da grande, posso salirci anche io e navigare insieme a te? E volare anche?>>
Il bambino pare quasi più felice di lui, annuisce con vigore e gli prende la mano con quella stessa che stringe il cacciavite, << Vuoi davvero venire con me?>>
<< Certo! Chissà dove può arrivare una barca così, lo voglio vedere!>>
<< Allora si! Si che bello! Finalmente ho trovato qualcuno che vuole venire sulla mia nave! Mi dicono tutti che non ce la farò mai, che è una cosa che penso ora che sono piccolo ma poi passa...>>
Jason scuote la testa e gli stringe di più la mano. << No, sono sicuro che tu ce la farai. E se vuoi io vengo con te. Allora? Posso?>>
Il sorriso del bambino è una delle cose più belle, e famigliari, che Jason abbia mai visto.
<< Certo, puoi viaggiare con me per sempre. Amici?>> Gli chiede quasi timidamente.
<< Amici!>> risponde Jason sicuro.
Una vocina gli suggerisce che giocheranno per sempre ai pirati. Che quando cresceranno costruiranno insieme la nave e che non lo abbandonerà mai. È una promessa, ne ha lo stesso sapore a dir il vero, la stessa pesante ed ufficiosa potenza.
Jason sorride a quel bambino e sa di aver trovato un amico, qualcuno su cui contare, qualcuno che finalmente diventi parte della sua famiglia.
Una famiglia che lui non ha più, sgretolatasi pezzo dopo pezzo lasciandolo vuoto, senza ricordi.
Ma lui no. Guarda il bambino e lo sa: lui non lo lascerà solo come hanno fatto quelle persone prima di lui. Lo ha appena incontrato ma sa con la sconcertante certezza dei sogni che da quel momento loro due sono fratelli, che lo saranno sempre e che ci saranno l'uno per l'altro.
Si ferma di colpo nella corsa e si rende conto che non gli ha chiesto come si chiama.
Lo sta per fare ma ancora una volta, come un dato scontato, una cosa ovvia, una certezza, sa che nome deve chiamare.
<< Leo!>> chiama a gran voce.
Ed il bambino è li davanti a lui e ride mentre gira su se stesso e fa girare la barchetta, felice.
Festus.
<< Leo!>> chiama ancora.
Ed il bambino lancia la nave verso l'alto e la fa volare, sospinta dal vento, verso una sdraio solitaria su cui è poggiato un grande cappello e un paio di occhiali da sole, lì vicino un bicchiere vuoto raccoglie il fondo di un liquido rosato.
Verso casa.
<< Leo!>> ci riprova, ora quasi preoccupato perché il bambino non lo sente.
Si mette a correre e va verso una scaletta, la sale e arriva al piano superiore. Jason lo segue di corsa, cercando di stargli al passo, ma lui è più veloce ed è già a girovagare tra gli arredi del terrazzo.
In un nuovo mondo.
<< Leo!>> la sua voce si incrina mentre quello salta dentro e fuori dall'ascensore che porta dentro la nave.
Le porte della morte.
<< Leo!>> è una nota stonata in quella giornata di sole, l'inquietudine che lo assale quando il suo amichetto sale su un ripiano e poi si slancia verso l'alto, verso il cielo, verso la stella maggiore che incendia la sua figura e lo sottrae al suo sguardo.

<< Leo!>>

E' come un grido di dolore, è il panico, la paura e l'impotenza. È la stanchezza che lo rende lento e non gli fa capire cosa sta succedendo.
Si rigira ansante tra le lenzuola, un groviglio di stoffa che lo blocca e lo fa sentire costretto, come se delle catene lo tenessero legato al letto.
Quel terribile senso d'oppressione che gli stringe il petto e gli toglie il respiro, una fitta dolorosa e tremenda al petto, vicino al cuore e dentro ad esso, il muscolo che geme assieme a qualcosa di più astratto che ormai l'ideale generale ha posto di casa proprio in quell'ammasso di valvole cardiache.
Si passa una mano tra i capelli, la vista sfocata ed il respiro corto. Non ce la fa, si sente soffocare, non ci vede, gli servono gli occhiali. Vuole aprire la finestra, non respira. Non respira.
Tira un calcio più forte degli altri, altrettanto inutile e alla fine, sfinito, dolorante, frustrato come un animale in gabbia, terrorizzato da ciò che prova, si lascia cadere sul materasso. Stringe i pugni e li batte sulla superficie morbida, le braccia, la schiena ed il suo intero corpo teso in uno spasmo di dolore e confusione. L'urlo soffocato che prorompe dalle sue labbra non gli da nessuno sfogo.
Batte ancora un colpo, un altro e un altro ancora. Il collo contratto tanto da fagli male, stilettate di pura tensione muscolare che lo uccidono lentamente e gli riempiono il campo visivo di puntini neri e flash bianchi.
Si porta le mani alla testa e se le preme sugli occhi, deluso, sconfitto.
Sente umido sotto i palmi e non sa, non vuole sapere, se sia sudore o siano lacrime.
Probabilmente entrambi.
Si accascia senza forze, tira le gambe al petto e si volta di fianco, riuscendo a sgusciare fuori dalle coperte come non era riuscita fare a suon di calci.
Si stringe le braccia contro il torace, i polsi sovrapposti per impedirsi di congiungere le mani in preghiera come tante, troppe, volte ha fatto i quei mesi.
È solo. Questa è la verità. È di nuovo solo.
E lo sa, sa perfettamente che fuori dalle porte della sua cabina lo aspetta Piper che dorme ancora tranquilla nel suo letto. Che Percy deve mandargli un messaggio Iride per dirgli cosa si è scordato al Campo e cosa gli deve spedire a casa. Sa che Nico lo aspetta come ogni giorno per fare silenziosamente la strada verso il padiglione assieme, anche se le loro cabine sono lontanissime e farebbe prima ad andare da solo. Sa che Talia è da qualche parte per il mondo a cacciare ma che gli manderà qualcosa, un souvenir o una cartolina anche. Sa che deve alzarsi e finire la lista delle divinità a cui fare un tempio, sa che deve chiamare Reyna e chiederle come procedono i lavori a Nuova Roma, come stanno le nuove leve, che fanno le truppe. Sa che c'è la vita fuori da lì e che tanti lo aspettano. Eppure è così solo.
Una persona, ne manca una sola e Jason si sente maledetto. Ogni singolo essere che incrocia la sua strada, a cui si affeziona e poi si lega, a cui vuole bene, in un modo o nell'altro rischia la vita, muore, lo tradisce, soffre, lo abbandona o si sacrifica.
Quanto può far schifo tutto ciò? Se lo domanda ogni mattina.
Tira su con il naso ed uno strano rumore rimbomba per la cabina vuota. Ci mette un po' a rendersi conto che è un singhiozzo, che è un suo signghiozzo. Si ritrova a piangere senza potersi fermare, le fitte che si liberano dalla sua vecchia ferita per tutto il corpo sente quasi di meritarsele. Lui era il figlio di Giove, lui era il principe dei cieli, l'eroe del campo Romano, lui sarebbe dovuto morire in quella fottutissima esplosione, non l'altro.
Non Leo che aveva, proprio come lui, trovato finalmente una famiglia, un posto nel mondo. Non Leo che si sentiva amato e utile dopo tanto tempo che si era sentito solo un peso per tutti. Non Leo che aveva realizzato il su sogno e costruito la sua nave, che aveva perso Festus, che li aveva portati nel vecchio mondo, che aveva fatto così tanto, che era andato su Ogigia e che se ne era andato con la certezza di sapere come tornare. Che si era innamorato e che aveva trovato qualcuno che lo ricambiasse. Non lui, non Leo.

<< Leo...>> lascia quella parola in sospeso come se poi dovesse dire altro ma non ne ha la forza.
Si domanda che razza di Pretore dev'essere stato se non è riuscito neanche a proteggere il suo miglior amico, quello che era diventato come un fratello sia per lui che per la ragazza che ama. Non ci vuole pensare, non vuole ricordare lo sguardo addolorato e distrutto di Piper quando risvegliatasi in Infermeria si era resa conto che Leo non c'era, che non ce l'aveva fatta. Non vuole ricordare le sue lacrime e le sue grida, come urlasse che non era vero, che non era possibile.
Non vuole ricordare ma lo fa e si sente terribilmente responsabile.
Non riesce mai a tenersi vicina la sua famiglia, è questa la verità.
Si chiude ancora di più in se stesso e si concede di essere debole, infantile e fragile solo per quel momento, quando nessuno lo vede e nessuno lo può giudicare. Quando non possono aver pietà di lui e nessuno si sente costretto a dirgli che non è colpa sua quando invece Jason sente che lo è, che doveva saperlo, doveva capirlo perché quello era Leo, era il suo Leo.
Apre gli occhi che aveva tenuto serrati fino a quel momento e con scherno si dice che vede tutto appannato perché sta frignando come un poppante e non perché non ha quegli stupidi occhiali. Bel romano che è, si, davvero magnifico. A dirla tutta non è neanche un greco. Non è nulla.
Un sorriso accennato si apre sulle sue labbra per poi allargarsi al ricordo di Leo che lo costringe a vedere quel cartone sui cani da slitta che portano un vaccino in Alaska o dov'era.
Come in un sogno rivede la cabina dell'Argo II, Leo seduto a gambe incrociate sulla sedia davanti alla console, il joystick della Wii in mano ed il petto gonfio per imitare la voce del personaggio:
<< Non è un cane, non è un lupo, sa soltanto quello che non è!>>
Se lo rivede girarsi verso di lui e sorridere furbo con quel suo dannato ghigno da folletto.
<< Non sei più romano, non sei greco. Sai soltanto quello che non sei!>>.

<< Uno stupido e debole, ecco cosa sono.>> farfuglia affranto prima che un moto di rabbia gli esploda nel petto.
Perché? Perché è morto?
Déi, quando si rivedranno negli Inferi lo riempirà di botte.
E poi lo abbraccerà e probabilmente piangerà proprio come sta facendo ora.
La verità è che gli manca, gli manca da morire e lo rivuole indietro. Rivuole in suo amico, quello che non conosceva anche se l'altro diceva in contrario, quello che gli aveva fatto scoprire un mondo e che lo interrompeva ogni volta che stava per baciare Piper. Rivuole Leo, punto.
Si stropiccia gli occhi e si mette a sedere senza forze, stremato da una notte che non gli ha portato nulla se non stanchezza e dolore.
Fisico e mentale.
Allarga il collo della maglia per guardarsi la ferita, rossa e violacea, come un gigantesco livido su un taglio profondo e sanguinolento. Gli fa un male cane ma va bene, il dolore è una cosa positiva, è un modo per redimersi dalla sue colpe. Forse il Fato già sapeva che non sarebbe riuscito a salvare il suo amico e lo aveva punito in precedenza. Forse se la ferita sarebbe rimasta così per tutta la vita sarebbe riuscito a scendere a patti con la cosa. Non a perdonarsi, quello mai.
Butta i piedi fuori dal letto e li poggia sulla superficie fredda, resistendo all'impulso di tornare nel caldo del letto. Non si merita neanche quello.
Alza lo sguardo sulla statua di suo padre, sulle sue spalle a dir il vero, e si domanda perché non lo ha punito, perché Efesto non sia venuto di persona ad incenerirlo per ciò che ha fatto. Che non ha fatto.
Poi si ricorda che agli Déi spesso non frega nulla dei loro figli e la cosa gli fa ancora più rabbia.
Ne ha così tanta dentro di sé che è costretto a chiedersi perché e a rispondersi che più che rabbia è dolore, è abbandono, è vuoto.
Il suo sogno gli torna in mente come un fulmine a ciel sereno e capisce che è suo padre probabilmente che lo punisce come ha appena chiesto di essere punito.
Si ricorda che della donna, di sua sorella, del bambino e della barchetta di carta. Si ricorda di come si è sentito sollevato nel sogno per aver trovato qualcuno con cui giocare, con cui vivere avventure e di con cui, ne era certo, avrebbe affrontato il futuro.
Non sarebbe più successo. Non erano rimasti assieme e anche se per sempre sarebbe stato il suo miglio amico, la sua famiglia, Leo non c'era più.
Era di nuovo solo.
Leo non c'era più.

Non c'era più.



 
   
 
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