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Autore: SherryVernet    13/12/2017    2 recensioni
Sheev Palpatine, Signore dei Sith, Imperatore. Post Yavin.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Generale Hux, Palpatine/Darth Sidious
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Post Scriptum dell’Autrice (25 novembre 2018)


Questa storia era stata concepita come un’antologia che coprisse un largo arco cronologico, di ponte tra A New Hope e la fine di quell’abominio di The Force Awakens, inclusi gli anni raccontati in quel gioiellino che è la trilogia di Aftermath.

In quanto antologia, questa storia rimarrà incompiuta, nonostante i successivi capitoli siano tra le pochissime cose scampate al furto del mio computer e siano anche quasi pronti per la pubblicazione.

Ho preso questa decisione a seguito del licenziamento di Chuck Wendig – autore della succitata trilogia – da parte di Disney/Lucas Film, per aver espresso posizioni sociali e politiche contrarie a quelle di una certa destra americana ipercapitalista, razzista ed omofoba. Per quel che mi riguarda, il lavoro di Wendig è l’unica cosa valida venuta fuori da questi sequel mediocri, partiti col piede sbagliato e senza un’idea originale in testa. Non ho nessuna intenzione di perdere altro tempo sostenendo, seppure indirettamente, questo tipo di politiche repressive della libertà d’opinione e d’espressione, promosse da Disney/Lucas Film. È stato bello finché è durato, ma questa gente con me ha chiuso.



Premesse:

1) La presente storia contiene accenni – più o meno velati e dunque più o meno spoiler – a molti dei nuovi romanzi, racconti e fumetti canonici.

2) La presente storia contiene riferimenti piuttosto liberi alle ormai Leggende (o al vecchio Universo Esteso che dir si voglia), in particolare per quanto riguarda la giovinezza di Palpatine;

5) I nomi in Star Wars tendono ad essere nomi parlanti. I nomi dei personaggi originari di Naboo sono a base sanscrita (Padmé, Sheev, eccetera). Amrita (अमृत) in Sanscrito significa "ambrosia" o "immortalità". La metatesi di posizione è uno dei fenomeni fonetici più comuni in tutte le lingue indo-europee. A questo punto, credo che sia evidente dove intendo andare a parare.


Molto peccato

Confiteor Deo omnipotenti

et vobis, fratres,

quia peccavi nimis

cogitatione, verbo, opere et omissione,

mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.


Confiteor

“...my name is Sheev. We will be friends. An Emperor must have friends, after all.”

– Chuck Wendig, Life Debt: Aftermath (Star Wars), "Epilogue" –

[Anno 0 ABY]

Se non c'è penitenza, non c'è assoluzione.

Il Lato Oscuro punta all'essenziale, a quella parte di noi cui solo un Jedi o uno stolto vorrebbe rinunciare – e che, stando agli antichi, dovremmo cercare di capire. È tutto ciò che importa: è quello che c'impone il costo della liberazione. Siamo comunque i soli con cui dovremo morire.

Il Lato Oscuro insegna il sacrificio del prezzo da pagare – in perdita ed in sangue, nella conquista, nella disperazione – in cambio di noi stessi e del potere.

Il Lato Oscuro è fare i conti con la propria ombra: un debito in sospeso che si deve saldare – e siamo noi i morosi e il creditore.

A che servirebbe una confessione? Della consapevolezza non ci si può pentire. Come non c'è perdono,  così non c'è nessuno cui l'Imperatore si possa inginocchiare, che voglia supplicare.

Eppure, qualche volta, Sheev vorrebbe parlare: vorrebbe un amico con cui confidarsi, con cui magari  bere; o un altro sé stesso da istruire, con cui poter spiegarsi senza dover insegnare.

L'avrebbe detto a Tarkin, se Wilhuff ormai non fosse che un pugno di vuoto interstellare, forse di ceneri disperse tra Yavin IV e chissà dove.

Un apprendista non è né un amico né tantomeno il nostro confessore; talvolta, però, ci si può avvicinare. Vader – che è quanto di più simile a un amico Sheev sia ancora in grado d'avere –, tuttavia, non può capire: Anakin Skywalker non ebbe mai un padre da ammazzare; per lui il passaggio non fu un parricidio, bensì un atto d'amore, senza elazione, senza gioia o piacere, senza la lucidità della deliberazione. Soltanto Sheev lo chiamò 'figliolo'; e Sidious, che, nel togliergli la vita e dargli un altro nome, si fece suo boia, l'unico genitore, per mano di Darth Vader dovrà un giorno cadere – come ha vaticinato nella Forza, come vorrebbe evitare, benché sia così prescritto nel Codice cui sottostà ogni Oscuro Signore.

Galli di Jakku fu un figlio della sabbia e di nessuno; per lui, Sheev fu un mentore, qualcuno da temere e da imitare, da cui imparare, come s'apprende solo con l'ammirazione e col terrore: l'opera, gli scacchi, e che la morte non vuol dir finire, che c'è ancora un futuro da pianificare – e che qualcuno lo dovrà assicurare. Rax – che del suo testamento è il depositario, e presto ne sarà l'esecutore – è un altro pedone ed è un eroe: non è che una finzione, un mezzo tenore da operetta, convinto però d'esserne il direttore. E Sheev – da buon regista, da bravo giocatore –, senza ingannarlo, glielo lascia pensare: Gallius, benché quasi un amico, mantiene la reverenza e l'illusione che la creatura porta al suo creatore, ed al potere.

Tashu, col suo fanatismo e la sua devozione, non sarebbe in grado d'ascoltare: un dio non si confessa al mero fedele; se anche lo facesse, ogni parola cadrebbe muta come una metafora, avrebbe il peso d'una rivelazione. Sotto le parvenze dello studioso, del ministrante, del buon consigliere, Yupe è un giullare, l'ennesimo attore che non sa di recitare; ma spetta a lui la parte del messaggero, del messo viaggiatore – così come Sheev già ha stabilito sin dalle dramatis personae.

La verità, nella maggior parte dei casi, è semplice, è essenziale: è priva d'ogni fronzolo o belletto, si lascia denudare sino all'osso; è un'arma primordiale.

La verità è che l'Impero dovrà presto cadere – e, con l'Impero, anche il suo Imperatore. Forse è la stessa piaga che afflisse la Repubblica e non si può curare, o forse Sheev non è un buon dottore; fatto sta che l'Impero è un malato terminale: è questione di tempo, non c'è niente da fare. Un'eutanasia discreta si somministra con tutti i crismi d'un'estrema unzione, per poi lasciar di proprio pugno ogni dettaglio con cui disporre di quello che rimane – ché nulla è la creatura senza il suo creatore. Non c'è di che pentirsi né per cui pregare, se s'è pianificata la propria resurrezione; quello per cui si prega, in fondo, non è altro che una seconda occasione – un'occasione che Sheev sa come avere: Darth Plagueis non ebbe il tempo d'insegnarglielo, non riuscì a scoprire come fare; ma Sheev ha superato il suo maestro precisamente perché non ha mai avuto remore a barare.

La verità è che Sheev non vuole morire: in lui c'è qualche cosa che deve continuare; o forse è la mancanza di qualcosa, di quello che gli prese Mace Windu, di quello che concesse al Lato Oscuro – un po' d'umanità, che nessuno mai gli potrà restituire.

La verità, a quegli altri, Sheev non la può dire, a stento lui stesso la riesce a ricordare; è un'eredità che soltanto a sé stesso potrebbe tramandare – e chissà che, ricevendola come un reperto polveroso, ologramma sbiadito d'un passato sepolto e vagamente curioso, un giorno non la possa anche capire.

Non che abbia importanza, alla fin fine. Non ha importanza l'agonia di suo padre, ciocco di legno consunto tra le fiamme; non ce l'ha adesso, come non l'ebbe allora. Ed anche il disappunto d'un'uccisione di cui non val la pena, è un'ombra di fumo, l'odore di bruciato che torna, qualche volta, alla memoria. Non hanno più importanza la Galassia, il potere, l'Impero, che per tanto tempo ne hanno avuta troppa; col senno di poi, ora l'Imperatore vorrebbe solo essere sé stesso e qualcun altro, concedersi una libertà che non ha prezzo – aver, per una volta, un assegno in bianco e un conto aperto.

Forse soltanto lei, un po' d'importanza, ce l'ha ancora: il suo sorriso è ognora vivido, affilato, col rossetto scarlatto, color sangue; ha quella crudeltà che non si perdona, mentre – spietato – s'affievolisce e però non si spegne, in una morte assurda ed irridente, che canzona Sheev e sbeffeggia il sonno. Il suo fallimento fu una lezione che Sheev non riesce ad imparare né a dimenticare, l'ultima catena di cui neanche il Lato Oscuro lo potrà liberare: ci sono vincoli che non si possono spezzare, impressi nella forma della carne, primitivi più dell'egoismo, più dell'ambizione – per una madre, è un vincolo d'amore; e per un figlio... di cosa? D'inadeguatezza? Di perdita? D'un che d'indefinito che, dopo tanti anni, fa ancora sanguinare?

Tornando a nascere, una madre, non la vorrebbe avere; senza di lei, chi sarebbe potuto diventare? Non resta che aspettare e stare a vedere.

Sorride, accarezzando l'elsa di phrik e d'aurodium – l'elsa indistruttibile, immutabile, d'un'arma che s'addice a un immortale – prima di posarla sul cuscino di velluto rosso cardinale, accanto all'holocron – sferico, perfetto, come la vocazione e il compimento – cui ha riferito tutto quello che c'è da dire e ci sarà da sapere. Chiude la scatola, abbraccia l'oscurità di quella parte di sé che ha affidato al contenitore; sul coperchio, le sue iniziali, e poi un nome – che è un buon nome, per ricominciare.

Senza madre. Magari solamente con qualche menzogna melodrammatica, pruriginosa e un poco roboante, come s'addice a un opus magnum che è una messa in scena.... Qualcosa come una sguattera oppure una servetta, o – meglio ancora – una cuciniera: qualcuno che sia facile immaginare sempre amorevole, sempre confortante, personaggio abbozzato, comparsa inesistente.

Con un padre, però. Un padre rabbioso, umiliato, poco più che mediocre, ma competente. Un padre reticente, costretto per editto e per segreto a non essere assente. Un padre che non sia un padre nel sangue, nella carne, e che anche nel nome non lo sia ufficialmente. Un padre che del padre di Sheev abbia poco o niente. Un padre che meriti un parricidio di cui non ci si pente.

Il marchio dell'infamia, lo sforzo, la lotta, la furia del rancore, dell'autoaffermazione... per l' Oscurità, è questo che ci libera e ci tempra – di questo, Sheev si vuole omaggiare: una manciata di sofferenza e di privazione, per imparare il valore delle stelle, della fame, d'una Galassia matura per farsi divorare; una dose d'ostilità, d'insofferenza, d'insoddisfazione, per limar la forza, affinar l'intelligenza, ed insegnare al cuore ad essere crudele ed efficiente; e tanta solitudine, per capire infine che non c'è nessun altro da noi stessi, in tutto l'universo, da cui implorare un po' di comprensione.

Un Sith è il migliore amico di sé stesso; per Sheev, questi son pegni del più sincero affetto.

Chi sono e chi saremo?, gli chiede, contemplando il viso che un tempo, di certo, fu il proprio. Quanto grandi potremmo diventare, se avessimo le redini della nostra sorte, ed il coraggio di sapere quand'è necessario soffrire? Chi diventerai, prima d'essere me? Un senatore? Un ingegnere? Uno scrittore? O, forse, un pilota? No, già è scritto nella Forza: un generale. Alla fine, comunque sarai ciò che sei: padrone delle sfere, Signore dei Sith, Imperatore.

Tashu entra, sentendosi chiamare, chino con reverenza e con venerazione.

"Portalo ad Arkanis, consegnalo a Brendol", comanda Sidious, con la voce profonda di chi per una vita s'è spacciato per un vecchio autorevole eppure gentile – per Yupe è la voce d'una divinità che bisogna adorare.

"Che cosa dovrò riferire, mio Signore?".

Sheev, con un gesto della mano, indica la Sentinella che l'accompagnerà per ordinare al Comandante Hux che cosa fare, con la voce stessa dell'imperatore – e per omettere quanto non gl'occorre sapere.

Poi una postilla, minuta, personale: "Digli: Armitage. E che ha il suo cognome".


   
 
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