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Autore: fran79    13/12/2017    4 recensioni
"Ho promesso a me stessa che non avrei più operato."
"Benissimo: le promesse sono fatte per non essere mantenute. Quel maledetto intervento poteva andar male a chiunque!"
"Ho sbagliato io. E' stata colpa mia."
Davanti all'insistenza del dottor Alfredi perché accetti di operare Rocco, la dottoressa Lisandri si ritrova a fare i conti con una ferita ancora sanguinante: questo brevissimo dialogo è l'unico accenno a un passato che l'ha segnata per sempre. Ma che cosa è accaduto?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dottor Alfredi, Dottoressa Lisandri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro. I personaggi appartengono alla Palomar Television & Film Production.
La vicenda si svolge circa tre anni prima dell'inizio di Braccialetti Rossi.





Michele sta male. Più di tutte le altre volte. L’emergenza è cominciata intorno a mezzanotte, e da allora è stato un susseguirsi di crisi convulsive e respiratorie che si sono placate solo verso le quattro. Ora è in Rianimazione, sedato e ventilato artificialmente: lo hanno, come si suol dire, ripreso per i capelli e tutto è tranne che fuori pericolo.

Sono le sei del mattino. Maria Pia Lisandri controlla i parametri vitali sul monitor e sostituisce la flebo vuota dei farmaci; poi si china sul letto e guarda a lungo il piccolo volto finalmente tranquillo, prima di accarezzare con la mano guantata la testolina adagiata sul cuscino. Alza gli occhi, toglie la mascherina e si sforza di regalare un sorriso alla giovane donna dal viso tirato e cereo che, addossata alla parete a vetri che separa la stanza dall’esterno, contempla la scena con occhi cerchiati dalla stanchezza e gonfi di lacrime.

Michele ha quasi cinque anni, una cascata di fitti riccioli neri, due occhi azzurri come il cielo d’estate, un sorriso bellissimo… e una forma gravissima di tetraparesi spastica distonica da asfissia perinatale. A causa di complicazioni sopraggiunte durante il parto, il suo cervello non ha ricevuto ossigeno: Michele non parla, non coordina i movimenti, non è in grado di stare seduto autonomamente ed è alimentato tramite PEG. Gli attacchi epilettici di cui soffre dalla nascita resistono ai farmaci, nel tempo sono cresciuti in numero e in intensità e hanno cominciato ad associarsi a insufficienze respiratorie sempre più gravi: è ricoverato ormai da sei mesi, senza alcuna prospettiva di dimissione, perché ogni episodio necessita di essere immediatamente trattato in ambiente ospedaliero. Ha una forza impressionante, è intelligentissimo, socievole, curioso, sempre allegro e pieno di voglia di vivere, ma questo non basta a evitare che le sue condizioni continuino a peggiorare: quest’ultima sequenza di crisi, più lunga e più violenta di tutte le altre, ne è un’evidente dimostrazione.

«Dottoressa…»

La voce rotta dal pianto, il viso stravolto dall’angoscia e dalla mancanza di sonno: in questo momento la madre di Michele, la mano spasmodicamente aggrappata al braccio del medico che ha appena varcato la soglia del reparto, dimostra molto più dei suoi ventotto anni. È stata una notte tremenda.

«Elena… – La Lisandri si volta, si libera con dolcezza dalla presa, le stringe le spalle con entrambe le mani. – Vada a riposare. Non può fare niente qui.»
«Dottoressa, la prego…»
«Mi ascolti, Elena. Ora possiamo solo aspettare. Non sappiamo niente. Dobbiamo fare degli esami per capire qual è la situazione, ma finché Michele non si stabilizza non possiamo procedere.»
«Michele non è stabile adesso?»
«No.»
«Ma… è addormentato… lo state aiutando a respirare…»
«Sì. Ma sedazione e ventilazione non sono terapie: servono solo a impedirgli di subire altri traumi. Per le crisi di Michele non c’è cura, lo sa.»
«Quanto tempo ci vorrà prima che si stabilizzi?»
«Non lo sappiamo.»

Non sappiamo neanche se lo farà.

Questo pensiero non le è affiorato sulle labbra, ma in qualche modo deve aver raggiunto i suoi occhi. E nulla può ingannare l’istinto di una madre.

«E se non si stabilizzasse più?»
«Speriamo che non sia così.»

La Lisandri sa che non può mentire, però la risposta che ha cercato di addolcire è suonata patetica alle sue stesse orecchie: e infatti le parole appena sussurrate di Elena gliene dimostrano tutta l’inadeguatezza.

«Michele… può morire?»

Puntati nei suoi ci sono occhi colmi di una comprensione divenuta terrore: occhi che le perforano l’anima e di cui per un istante non riesce a sostenere lo sguardo. Si riprende subito, ma quel brevissimo cedimento ha già parlato per lei. Le risponde uno scoppio di singhiozzi disperati.

«Elena… – La Lisandri cinge con un braccio le spalle tremanti della giovane madre che ha nascosto il viso tra le mani, la guida verso una breve fila di poltroncine, la fa sedere. – La situazione è molto grave, non posso nasconderglielo, ma lei questo già lo sa. Da molti mesi Michele è un paziente ad altissimo rischio anche quando sta bene – e calca sulla parola come per racchiuderla tra virgolette immaginarie, perché in realtà Michele bene non è stato mai. – Dobbiamo essere preparati a qualsiasi eventualità. Le prossime ore ci diranno qualcosa di più. Quello che posso dirle adesso, e davvero non c’è altro, è che l’evento di stanotte è stato particolarmente violento, si è rivelato difficilissimo da controllare, ha causato una forte instabilità neurologica che persiste tuttora… e ovviamente questo ci preoccupa molto. Ma ora tutto dipende da come Michele reagirà a questa nuova crisi.»

Elena alza gli occhi, rivelando un volto disfatto.

«Lei pensa che…»
«Io non penso niente. Non ho elementi per pensare nulla più di quanto le ho già detto… che è poco, mi rendo conto, ma in questo momento è davvero tutto. Non avremo altre notizie senza aver fatto gli esami necessari, e cioè almeno un EEG, una risonanza e una TAC, ma per farli dobbiamo sospendere i farmaci e la ventilazione e per ora è impossibile. – Accenna stancamente un sorriso e le sfiora con una carezza un po’ impacciata la guancia livida. – Deve riposare, Elena. È distrutta.»
«Voglio rimanere con Michele.»
«Lo sa che non posso farla entrare.»
«Resto qui, allora. Lo guardo dal vetro.»
«Mi stia a sentire, Elena. Lei ha bisogno di un calmante e di dormire almeno un po’, perché è sull’orlo di un collasso. Gliel’ho detto, qui non può fare niente e prima di sapere qualcosa potrebbero volerci ancora molte ore. Per allora avrà bisogno di tutte le sue energie e del massimo della lucidità. Notizie di suo marito?»
«È in viaggio. Non voleva andare stavolta, sembrava che se lo sentisse, ma non ha potuto farne a meno… Doveva rientrare domani. L’ho chiamato appena Michele ha cominciato a stare male… Mi ha detto che sarebbe ripartito subito, dovrebbe essere qui nel pomeriggio.»
«Gli ha detto di guidare con prudenza e di non lanciarsi in corse folli per essere qui mezz’ora prima? Non abbiamo bisogno di altri pensieri né tantomeno di altri incidenti.»
«Ci ho provato, ma lo sa com’è Stefano.»
«D’accordo, speriamo bene. Lei è sola, quindi.»
«Sì… per ora sì.»
«E certamente non è nelle condizioni più indicate per mettersi in macchina e andarsene a casa. Perciò ora lei va nella stanza di Michele, si siede in poltrona… o se preferisce può stendersi sul letto, tanto la camera è vuota… si fa dare un tranquillante leggero e si fa qualche ora di sonno.»
«No, dottoressa, voglio…»
«Non è un consiglio né un invito, Elena: è un ordine. Altrimenti la ricovero e facciamo prima. Laura? – L’infermiera, che era poco lontano, si avvicina. – Per favore, accompagni la signora nella stanza di Michele, le dia un calmante e si assicuri che si stenda e che riposi. Elena, cerchi di stare tranquilla e, per quanto è possibile, di non pensare a niente: le garantisco che sarà informata immediatamente di qualsiasi eventuale novità.»
«Venga, signora.»

Laura passa con gentilezza un braccio intorno alle spalle di Elena e si avviano entrambe. La Lisandri ha già fatto qualche passo nella direzione opposta, quando si sente richiamare.

«Dottoressa…»

Si volta. La giovane ha fatto altrettanto e ora la guarda con il viso nuovamente rigato di lacrime.

«Sì?»
«Michele le vuole bene.»

Lei sorride con tenerezza… e ringrazia mentalmente che a quella distanza non si vedano i suoi occhi lucidi.

«Lo so.»

Sta per aggiungere «anch’io», ma la voce le manca. Gira bruscamente sui tacchi e si allontana.

Poter finalmente sfuggire lo sguardo di questa madre che cerca nel suo una speranza che lei stessa ha quasi smesso di avere, potersi infine sottrarre a un simile abisso di sofferenza! Maria Pia Lisandri non sa come sia riuscita a mantenere finora la maschera di professionalità che si richiede a un medico anche nelle situazioni più disperanti, perché è letteralmente allo stremo delle forze. Non per il sonno perduto, non perché è in piedi ininterrottamente da più di ventiquattr’ore, neppure perché questa è stata la peggiore delle tante emergenze di stanotte: la verità è che il pensiero di perdere Michele è un pugnale rovente conficcato nelle viscere, un dolore lancinante che le martella nella testa e nel petto fin dai primi istanti di queste ore spaventose.

Dovrebbe aver già staccato molto tempo fa, avrebbe tutto il diritto di andare a cambiarsi, tornare a casa e infilarsi immediatamente a letto, ma i suoi passi esausti la portano ancora una volta sulla soglia della Rianimazione. Si ferma un istante a guardare attraverso il vetro il bambino che dorme nel primo letto vicino alla porta, poi si dirige nello stanzino attiguo, si lava come prescritto mani e braccia fino ai gomiti, indossa nuovamente gli abiti sterili ed entra. Anche lei, come tutti, può solo aspettare… ma, mentre si siede sul bordo del letto, sa che non c’è stanchezza, non c’è sentimento di impotenza che possa farla desistere dal rimanere lì. Anche solo a guardarlo. Per lui, che lotta per vivere da quando è nato; per Elena, che vorrebbe essere al suo posto e non può; per se stessa, che nei suoi pazienti più piccoli, e soprattutto nello scricciolo ferito che le sta di fronte, ha imparato a riversare tutto l’amore soffocato dalla propria maternità negata.

Quante volte, fin dai tempi del tirocinio universitario, ha sentito ripetere che non ci si deve affezionare ai pazienti: soprattutto se sono bambini, specialmente se ci si orienta a lavorare in un campo che, come il suo, può essere segnato da molte perdite. È inutile, non ci è mai riuscita, il dolore altrui le è sempre penetrato a fuoco nella carne. Questo le è costato e continua a costarle notti insonni, domande senza risposta, lacrime nascoste, persino qualche sguardo di commiserazione o disapprovazione: non le importa, è la sua vita, non ha mai pensato di poter essere medico in un modo diverso. Nei momenti più duri le capita, ed è successo anche stanotte, di chiedersi se sia possibile soffrire meno, se davvero i suoi colleghi che riescono a tracciare una linea invalicabile tra se stessi e i malati facciano meno fatica; ma poi guarda i “suoi” bambini, i “suoi” ragazzi, guarda Michele… e si rende conto che così, insieme all’angoscia lacerante di cui sono innegabilmente intrisi innumerevoli momenti, si perderebbe anche la loro sconfinata tenerezza. E di questo, lo sa bene, non sarebbe mai capace.

Michele le vuole bene.

Ha fatto tutto da solo Michele, è stato lui a “sceglierla”: questo bimbo così tormentato nel corpo ha conservato intatte un’intelligenza vivacissima, un’allegria contagiosa e una sensibilità stupefacente, e le ha voluto bene da subito, l’ha letteralmente adorata. Non le conta neanche più, le sue dimostrazioni di affetto: e adesso, mentre lo guarda immerso nel torpore provocato dai farmaci, il piccolo viso seminascosto dal tubo del respiratore, le sembra di rivederle una per una.
 
Michele è appena arrivato in ospedale: i suoi genitori, che si sono trasferiti da pochi giorni in città a causa del lavoro del papà, stamattina lo hanno portato d’urgenza al Pronto Soccorso perché a un attacco epilettico è seguita quella che si rivelerà la prima crisi respiratoria, fortunatamente non grave. Lo portano in sala TAC e al termine dell’esame, come fa sempre con i bambini, lei entra per fargli una carezza. Sembra assopito, ma al tocco della sua mano apre gli occhi; lei gli dice «sei stato bravissimo» e lui, ancora debole e un po’ intontito, le regala un luminoso sorriso.
 
Michele è ricoverato da circa due mesi. Tutte le mattine lei fa il solito giro in reparto e lui la accoglie sempre, oltre che con il suo sorriso radioso, con i gorgheggi gioiosi che, le ha spiegato la mamma, riserva soltanto alle persone che gli piacciono di più. Michele comunica così, con lo sguardo, le espressioni del viso, qualche piccolo movimento impreciso, ma soprattutto con questi suoni che, se a chiunque altro possono sembrare del tutto inarticolati, per la sua mamma non hanno segreti. Ha appena finito di visitarlo e sta uscendo dalla stanza, ma Elena la richiama.
«Dottoressa, Michele avrebbe una domanda da farle.»
Sì, lo ha sentito “parlare” con la mamma, ma onestamente non era riuscita a dare un senso a quel “discorso”. Torna indietro con un sorriso.
«Dimmi, Michele.»
«Vorrebbe chiederle come si chiama.»
Lui la guarda come se la sua risposta fosse la cosa più importante del mondo.
«È un nome solo, ma sono due – scherza lei. – Mi chiamo Maria Pia.»
«Sa, dottoressa – interviene Elena – questa per Michele è una domanda importantissima: lui chiede il nome alle persone che porta nel cuore.»
Lei gli passa una mano tra i capelli, con dolcezza.
«Grazie. Anch’io ti porto nel cuore.»
 
Sette di sera di una giornata pesantissima. Perdere due pazienti in meno di dodici ore è più di quanto crede di poter sopportare. Ha finito il turno, ma prima di andarsene a casa preferisce passare un momento da Michele: oggi non è stato benissimo e, anche se sa che ora sta meglio, non le va di aspettare fino a domattina per vederlo. Quando entra nella stanza gli sorride, e lui si illumina, però torna quasi subito serio e lo resta per tutto il tempo della visita, senza smettere mai di guardarla. Alla fine lei gli fa una carezza per salutarlo e si avvia alla porta, ma lui sembra preoccupato e “dice” qualcosa alla mamma.
«Dottoressa, mi scusi…»
«Sì, Elena.»
«Michele mi dice di chiederle… – esita un istante, poi si rivolge al bambino – ma forse non è il caso, Micky.»
«Non si preoccupi. Cosa c’è, Michele?»
«Vuole sapere come sta… perché gli pare che stasera lei sia triste.»
La giornata appena trascorsa le passa davanti in un attimo. Due persone che se ne vanno, la firma su due referti di decesso, lo strazio di due famiglie; il tutto dentro la quotidiana girandola di visite, prescrizioni, telefonate, scartoffie, sirene di ambulanze, emergenze. Arrivare a sera con una stanchezza mortale nella mente, negli occhi, nelle gambe, nel cuore. Doversi preoccupare ogni minuto di come stanno tutti quelli che sono affidati a te, e non un’anima che si domandi, che ti domandi come ti senti tu, che si accorga di quanta fatica e quanto dolore tu ti stia trascinando addosso dal momento in cui hai infilato il camice. E sentirtelo chiedere da un bambino di cinque anni a cui basta incontrare i tuoi occhi per leggerti dentro, perché ha deciso che tu per lui sei importante: per lui che non ha mai corso, giocato, parlato, per lui che per tutta la vita non ha visto che ospedali, per lui per il quale ogni giorno, ogni ora è un regalo.
Il cuore le si stringe in una morsa di commozione quasi dolorosa. Gli si siede vicino, sul bordo del letto, e, mentre lui la fissa ansioso, tenta di trovare la forza e le parole per rispondergli.
«Sì, un po’. – La sua voce è poco più che un sussurro. – Adesso però va molto meglio, sai. – Sorride, ma sente che gli occhi le si sono riempiti di lacrime e sa che lui se n’è accorto. – Grazie. Sei un bimbo generoso… e dolcissimo.»
Lui ricambia il sorriso, felice. Un respiro profondo, e poi un suono faticoso, interrotto, ma chiaro.
«M… i… a…»
«Ha sentito, dottoressa? – interviene Elena, commossa. – Michele le ha fatto un grande regalo. L’ha chiamata per nome. Sa, le uniche parole che pronuncia veramente sono “mamma” e “papà”.»
Lo sguardo raggiante di Michele è pervaso da un’indicibile fierezza. Si agita, inquieto, come per costringere il corpo a obbedirgli, e con un gesto inequivocabile, ma che deve costargli uno sforzo sovrumano, cerca di tenderle le braccia. E allora lei fa una cosa che non ha fatto mai con nessun altro: si china, lo prende in braccio e lo stringe a sé. Sente le sue piccole mani che tentano di cingerle il collo e preme il viso sulla testina ricciuta che le si è appoggiata sulla spalla, soffocando le lacrime che ormai minacciano di uscire. Poi lo riadagia sul letto e prima di andarsene, mentre lui la guarda con un’espressione che è il ritratto della felicità, gli lascia un lieve bacio sulla fronte.
 
Si riscuote. La realtà di adesso è lo sbuffo ritmico del respiratore, il costante bip-bip dei macchinari, il verde delle lenzuola sterili. Michele dorme, lei dà le spalle a una stanza deserta: le lacrime che ha nascosto quella sera, che trattiene già da ore e che adesso le annebbiano la vista, nessuno può vederle. Tanto vale lasciarle andare.
 
***
 
Il sole sta tramontando.

Stefano, il papà di Michele, è arrivato in ospedale un paio d’ore fa, fuori di sé per la stanchezza e per l’ansia, poco dopo che il bambino, le cui condizioni si sono faticosamente stabilizzate, era stato spostato dalla Rianimazione per essere sottoposto agli esami del caso. Adesso i due giovani genitori, abbracciati l’uno all’altro, aspettano di conoscere i risultati.

«Signori, siete attesi in sala medici. Se volete seguirmi…»

Quasi sobbalzano, Elena e Stefano, quando Ester si presenta davanti a loro: l’infermiera ha parlato con grande tatto, ma a loro sembra che ogni minima cosa debba spezzare bruscamente il delicatissimo equilibrio che hanno a fatica raggiunto in queste ore di attesa. Si alzano, frastornati, e tenendosi convulsamente per mano si avviano in silenzio lungo il corridoio, con Ester che li precede.

Maria Pia Lisandri e Andrea Alfredi sono in piedi dietro la scrivania. Quando i genitori di Michele entrano nella stanza, accompagnati dall’infermiera che subito esce chiudendo la porta dietro di sé, è la dottoressa la prima a parlare.

«Vi presento il dottor Alfredi, il primario di Chirurgia.»

Il medico, con il consueto sorriso paterno, stringe la mano a entrambi, invitandoli ad accomodarsi.

«Diteci qualcosa, vi prego.»

Stefano, così agitato che le mani gli tremano, ha parlato prima ancora di sedersi. Anche i due medici siedono. La Lisandri apre lo spesso plico di fogli che ha davanti, lo guarda per un istante, poi alza gli occhi.

«Voi sapete che il quadro clinico recente di Michele mi ha sempre lasciato molto perplessa: è vero che le crisi convulsive sono una componente abituale della sua patologia, sono spesso resistenti ai farmaci ed eventualmente associate, come molte sindromi epilettiche, a problemi respiratori, ma la situazione mostrata dall’elettroencefalogramma e dalla TAC non mi è mai sembrata compatibile con eventi così violenti e soprattutto non con un’evoluzione così rapida. In questi mesi c’è stato, non occorre ricordarvelo, un peggioramento continuo e velocissimo, mentre in genere condizioni uguali o simili a questa restano complessivamente abbastanza stabili per tutta la vita della persona. È per questo che stavolta, per puro scrupolo, ho voluto sottoporre Michele, oltre che agli esami consueti, anche a un’angiografia cerebrale. La mia era una semplice supposizione, non sostenuta da nessun’altra evidenza… ma il referto non lascia dubbi. – Emette un profondo respiro. – L’angiografia ha rilevato la presenza di un aneurisma molto grande nella zona del tronco encefalico. Non abbiamo modo di sapere se sia congenito o acquisito; soprattutto, date le dimensioni, non ci spieghiamo il fatto che nessuna TAC lo abbia mai fatto almeno sospettare prima d’ora. Il tronco encefalico è sede di molte funzioni basilari per la vita, tra cui i centri del respiro: crediamo che la forte compressione dei tessuti cerebrali esercitata dall’aneurisma sia la ragione dell’intensificarsi delle crisi epilettiche e soprattutto respiratorie.»

Elena e Stefano sono muti, impietriti: per un istante sembra addirittura che non abbiano capito quanto è stato loro detto. È lei, dei due, la prima a scuotersi: lo fa con un sussurro tremante, con uno sguardo annientato.

«Anche questo, dottoressa? Non bastava tutto il resto? Anche questo?»

La Lisandri distoglie il viso, senza rispondere. Non dovrebbe, lo sa: sentimenti ed emozioni vanno lasciati fuori, il paziente e i suoi familiari devono sempre trovare nel medico un appoggio solido e sicuro. Ma proprio non riesce a guardare negli occhi questa madre, adesso: non ce la fa perché le parole annichilite di Elena sono esattamente le stesse che poco fa, davanti alle immagini del referto, sono rimbombate in testa a lei.

Alfredi intuisce il suo turbamento. Posa una mano sulla sua e interviene, pacato.

«Signori, comprendo il vostro stato d’animo, ma vi prego di ascoltare attentamente perché dovete capire che questa scoperta cambia profondamente le cose. Ora, la probabilità di rottura di un aneurisma è direttamente proporzionale alle sue dimensioni: ciò significa, purtroppo, che nel nostro caso una simile eventualità è molto concreta, soprattutto tenendo conto anche della situazione cerebrale già molto compromessa di Michele. Siamo qui perché, come forse sapete, il trattamento dei grandi aneurismi è esclusivamente chirurgico.»
«Michele deve essere operato?» chiede subito Stefano.
«Sì. Naturalmente spetta a voi decidere, ma dovete sapere che non ci sono trattamenti alternativi.»
«In che cosa consiste l’operazione?»
«Ci sono varie tecniche, tutte modernissime ed estremamente valide, ma casi come quello di Michele richiedono, in genere, l’applicazione di una clip metallica in corrispondenza del colletto dell’aneurisma… cioè del punto in cui la vena o l’arteria ha collassato formando la sacca aneurismatica, in modo da escludere quest’ultima dalla circolazione sanguigna.»
«È un intervento rischioso?»
«Non esistono operazioni che non lo siano, soprattutto se riguardano il cervello. Senza contare che un aneurisma così importante pone già in sé dei rischi, anche in una persona altrimenti sana. Questo significa, non posso nascondervelo, che, dalla somma tra la patologia pregressa di Michele e le sue attuali condizioni dopo la fortissima criticità dell’evento di stanotte, emerge una percentuale di rischio particolarmente elevata.»
«Michele può… non farcela?»
«Purtroppo è altamente possibile che non superi l’intervento.»
«Quante probabilità ci sono che l’operazione riesca?»
«Venti per cento, più o meno.»

I due giovani si guardano. Lei ha gli occhi gonfi di lacrime, lui è così bianco da sembrare sul punto di svenire. Quando riprende a parlare, la voce gli trema in un tono incerto tra la disperazione e la sfida.

«E se decidessimo di non farlo operare?»
«Stefano, parliamoci chiaro. – La Lisandri ha recuperato la propria fermezza e si inserisce, secca, prima che il collega possa rispondere. – Se l’aneurisma si rompe, causerà un’emorragia sulla quale non ci sarà il tempo di intervenire. Se non si rompe, provocherà comunque in tempi verosimilmente molto brevi una nuova sequenza di crisi che, visti i precedenti, sarà probabilmente peggiore di quella di stanotte. E questa volta Michele non sarà più in grado di superarla.»
«Vuol dire che…»
«Voglio dire – e solo lei sa quanto dolore nasconda il suo tono aspro – che con l’intervento, anche se è quasi disperato, Michele qualche possibilità di farcela ce l’ha ancora; diversamente, è condannato.»

Elena la guarda. Anche lei è pallidissima, stravolta, ma adesso ha negli occhi qualcosa di diverso. Un misto, forse, di rassegnazione e determinazione.

«Se firmiamo… quando sarà?»
«Immediatamente. – La voce le si è addolcita, ma stavolta lo sguardo non ha vacillato. – Non c’è tempo da perdere, Elena. Neanche un minuto.»
«Lo opererà lei?»
«Sì.»
«Allora sì. – Elena guarda alternativamente, freneticamente il marito e la dottoressa, con una supplica che le vibra nella voce spezzata. – Sì. Con lei Michele è al sicuro. Lui vorrebbe… lui sarà contento che sia lei. – Stefano sembra cercare negli occhi della moglie una certezza che lui non possiede: fa per parlare, ma lei lo anticipa. – Lo capisci che questa è la sua unica possibilità?»
«Elena, se non…»
«Hai sentito la dottoressa, se non lo facciamo operare Michele morirà comunque!»
«Ho paura…»
«Anch’io – e per un attimo la voce di Elena si spegne in un singhiozzo. – Anch’io, Stefano! Ma non starò qui ad aspettare che arrivi la prossima crisi, o che vengano a dirci che non c’è stato tempo di provare a salvarlo! Non puoi volere questo, non puoi nemmeno pensarlo!»
«Signori – interviene Alfredi, mite – forse sarebbe meglio che rimaneste da soli per qualche minuto…»
«No! – Elena quasi grida, adesso. – No, non ce n’è bisogno. Io firmo. Firmo subito.»
«Dovete firmare entrambi, signora. Dovete essere d’accordo.»

Pronunciando l’ultima frase il medico ha guardato Stefano, che sembra riscuotersi da un sogno orribile.

«Sì… sì, certo che sono d’accordo. Io… non so che cosa mi ha preso.»
«Siete sconvolti, è comprensibile. Cercate di farvi forza. Credo sia comunque meglio che vi lasciamo soli un momento. La nostra presenza non deve interferire in alcun modo con la vostra decisione.»
«No, dottore. – Stefano ha ripreso lucidità e parla con voce ferma, stringendo la mano di Elena. – Mia moglie ha ragione. Mi sono fatto prendere dal panico, ma è l’ultima cosa che dovrebbe succedere. Dobbiamo… almeno provare. Abbiamo piena fiducia in voi, Michele non potrebbe essere in mani migliori. Noi siamo pronti. Se è vero che non c’è tempo da perdere, fateci firmare e operatelo.»

In silenzio, la Lisandri estrae un foglio dal plico sulla scrivania, lo porge loro insieme a una penna e indica dove firmare; quando lo restituiscono, è Alfredi a rimetterlo nella cartella, perché lei si è già alzata.

«Vi prego di scusarmi, ma la sala operatoria è già pronta. Devo andare a dare disposizioni perché portino giù Michele.»
«Dottoressa…» Elena ha teso una mano, ha sfiorato la sua.
«Sì, Elena.»
«Per favore, possiamo vederlo? Solo cinque minuti. Per… salutarlo. Sappiamo che è in Rianimazione, ma…»
«Certo – risponde lei, con dolcezza. – Però vi avverto, non è cosciente. Non ha più il respiratore e abbiamo ridotto la sedazione per fargli gli esami, ma non al punto da svegliarlo completamente: è troppo rischioso.»
«Non fa niente. Lui… sentirà lo stesso.»
«Venite, vi faccio accompagnare.»

Li precede fuori dalla stanza, lasciando la porta aperta. Alfredi la sente congedarsi da loro, poi chiamare Ester, chiederle di accompagnarli a vedere Michele, ordinarle di aspettare che arrivi anche lei prima di portarlo al blocco operatorio. Nella sua voce è affiorata d’un tratto un’insolita durezza.

«Maria Pia.»

Lei si volta, torna sulla soglia, ma non entra.

«Devo andare, Andrea. Dobbiamo andare, veramente.»

Lui si alza e la raggiunge. Non lo ferisce né lo stupisce il tono scostante: sa che questo è il solo modo che lei conosca per far prevalere la lucida e distaccata razionalità del chirurgo sul pensiero che fra poco avrà tra le mani la vita di un bambino che ama come un figlio.

«Come stai?»

Lei lo fissa, senza rispondere. Un istante così, occhi negli occhi, in un silenzio carico di parole: si capiscono al volo, lui le legge dentro, è sempre stato così.

«Ci vediamo al blocco operatorio.»

Un sussurro, le labbra contratte nel volto di pietra. Poi gli volta le spalle e si allontana.

Quando arriva in Rianimazione, la prima cosa che fa è chiamare Laura e chiederle se i genitori di Michele se ne siano già andati. La sua risposta affermativa è un sollievo.

«Il bambino è pronto?»
«Sì, dottoressa. Aspettavamo lei, come ha chiesto.»
«Bene. Devo fermarmi un attimo a… controllare alcuni parametri… e poi potrete portarlo giù. Vada pure, la chiamo io quando ho finito.»

Non è vero, non c’è niente da controllare, tutto è già stato verificato e predisposto perfettamente come al solito. Appena l’infermiera si è allontanata, la Lisandri tira la cordicella che abbassa la veneziana sulla parete a vetri e ruota il dispositivo che la chiude, poi si siede sul bordo del primo letto vicino alla porta.

Una carezza, le dita che indugiano nei riccioli neri risparmiati dal rasoio, l’altra mano che prende e stringe piano quella immobile del bambino, le palpebre abbassate di colpo sugli occhi che hanno cominciato a bruciare intollerabilmente.

«Andrà tutto bene. – Glielo ha bisbigliato all’orecchio, abbastanza piano da poter fingere di non accorgersi che la voce le trema. Forse lo ha detto più a se stessa che a lui. – Non aver paura, Michele.»

Per un attimo le sembra che gli impulsi sonori del macchinario che registra il battito cardiaco abbiano accelerato, addirittura che la piccola mano si sia mossa nella sua. Ma senz’altro è solo un’impressione, Michele dorme, non può sentire. Neanche il bacio che, come quella sera di un paio di mesi prima, gli posa sulla fronte.

Basta. Adesso basta. Ora lei è solo un chirurgo e lì c’è solo una testa da aprire, riparare e richiudere. Punto.

Si alza, riapre la tendina, esce. Seria, controllata, impassibile. Ghiaccio negli occhi, marmo sul viso. Non ha mai fallito in sala operatoria: ha fama di essere un fuoriclasse della neurochirurgia, capace di rischiare dove altri non oserebbero, dotata di intuito, freddezza, eccezionale rapidità e una certa dose di spregiudicatezza. È tutto vero, fin dai tempi della specializzazione le hanno sempre detto che possiede un talento straordinario, ma solo lei sa quale lotta estenuante si svolga ogni volta tra il suo cuore e il suo cervello: soprattutto se deve operare un bambino, mille volte oggi che quel bambino è Michele. Ciò che trapela all’esterno in questi momenti è un distacco che sembra sconfinare nel cinismo e che assolutamente non le appartiene: è una cosa che la fa soffrire, ma sa anche che è la sua salvezza, perché senza non ce la farebbe.

Come se fosse quella di un altro, sente la sua voce chiamare Laura e dirle che si può andare. L’infermiera si avvicina e, mentre comincia a spingere il letto di Michele, le lancia una rapida occhiata e tace. Anche se nessuno quanto il dottor Alfredi, tutti la conoscono abbastanza da sapere che quando parla con quel tono, quando ha quello sguardo che sembra trapassare chiunque e perdersi chissà dove, la sola cosa da fare è restare in silenzio.

La Lisandri lascia che Laura si allontani con Michele prima di muoversi; poi, con un profondo respiro, esce dalla Rianimazione e fa per imboccare il corridoio che conduce agli ascensori del personale. Prima di ogni intervento si chiude talmente in se stessa che quasi smette di rendersi conto dei passi che fa, del percorso che compie. Sarebbe così anche adesso, se non fosse per la mano che improvvisamente si stringe sul suo braccio, per la voce rotta dal pianto che le parla.

«Dottoressa…»

La corazza appena indossata si spezza bruscamente. E fa malissimo.

«Elena…»

Un istante di totale disorientamento. Cosa ci fa qui la madre di Michele? Dovrebbe essere con suo marito, due piani più sotto, fuori dal blocco operatorio. E probabilmente questa domanda le si legge in viso, perché la giovane donna inizia a parlare rapidamente, ansimando, con voce soffocata e interrotta.

«L’ho sentita, prima… dire all’infermiera che sarebbe venuta qui, che la aspettassero prima di portare via Michele. Sono venuta via con una scusa, volevo vederla… È venuta a salutarlo anche lei, vero? Io lo so… lo so che anche lei gli vuole bene. Mi ricordo quella sera…»

Basta, smetti di parlare, non voglio sentirti. Come faccio a operare tuo figlio? Lo capisci che così non ce la posso fare?

«Elena, la prego, si calmi… Io devo andare adesso…»

È con uno sforzo tremendo che la Lisandri riesce a controllarsi, a ricacciare in un angolo della mente le parole brutali e disperate che le martellano in testa, a mantenere ferma la voce. Ma Elena le ha afferrato le mani, le stringe spasmodicamente.

«Lo salvi, dottoressa, me lo restituisca… Michele è tutta la mia vita…»
«Elena. – La Lisandri rinuncia a resistere. Una profondissima compassione si è impadronita di lei, ha abbattuto tutte le sue difese, al punto che sente la gola chiudersi e gli occhi inumidirsi. Libera delicatamente le mani, gliele posa sulle spalle. – Lei ricorda quello che abbiamo detto prima, lei sa che non posso prometterglielo. Ma una cosa sì, una cosa gliela prometto: ce la metterò tutta. Glielo prometto, Elena. Glielo giuro.»

La giovane abbassa il capo, si copre il viso con le mani; il suo corpo è squassato dai singulti. Istintivamente la Lisandri la attira a sé, e sente che le si aggrappa come se stesse annegando. La stringe brevemente, poi si stacca da lei con dolcezza.

«Mi lasci andare adesso, Elena – mormora. – Mi stanno aspettando. La faccio riaccompagnare giù. Anche suo marito ha bisogno di lei.»
«Mi perdoni. Grazie… per tutto» singhiozza lei.
«Non ho niente da perdonarle. E soprattutto non c’è niente di cui debba ringraziarmi. – Non farlo, ti prego. Non finché non sarà tutto finito. – Ora vada e cerchi di tranquillizzarsi il più possibile.»

Ester, che era sopraggiunta, ha assistito a tutta la scena tenendosi con discrezione a distanza: le basta un’occhiata della dottoressa per avvicinarsi a Elena e guidarla con gentilezza verso gli ascensori del pubblico.

Si può essere già stremati prima di entrare in sala operatoria? Durante il breve tragitto in ascensore, finalmente sola, Maria Pia Lisandri chiude gli occhi, si appoggia alla parete metallica e cerca di regolarizzare il respiro, di riacquistare lucidità. Sa che il solo modo per riuscirci davvero è tornare a vestire l’armatura di impassibilità di poco prima, ed è ancora più difficile e doloroso che averla sentita spezzarsi, ma non farlo non è un’opzione: quanto più fa male, tanto più è necessaria. E adesso fa malissimo… quindi è indispensabile.

Sono già tutti pronti, quando lei arriva; e al suo ingresso cala istantaneamente il silenzio. Non è una novità, di per sé: i membri dell’équipe chirurgica, che fino ad allora hanno discusso i dettagli dell’intervento, sanno che lei esige di non sentir volare una mosca. Ma stavolta è diverso: è come se con lei fosse entrata una folata di vento gelido. Non scambia neppure le poche parole di routine con l’assistente che la aiuta a vestirsi, sembra non sentire nulla e non vedere nessuno. Camice verde, berretto, mascherina, guanti: in una manciata di minuti solo i suoi occhi, taglienti più del bisturi che la aspetta, emergono dal viso nascosto dagli indumenti sterili. E sono quegli occhi che pochi istanti più tardi, dall’altro lato del tavolo operatorio su cui è già disteso il bambino addormentato, il dottor Alfredi, pronto ad assisterla, è l’unico a riuscire a incrociare. Soltanto per qualche secondo, ma a lui basta per capire. Capire che, nel poco tempo trascorso da quando si sono lasciati in sala medici, è successo qualcosa che ha mandato di colpo in frantumi il severissimo equilibrio che lei si impone prima di ogni intervento; capire, ben più di quanto già non abbia fatto, che quella che sta per iniziare sarà per lei la prova più dura che abbia mai affrontato; capire soprattutto che, comunque vada, da questa prova l’amica uscirà cambiata. Per sempre.

Gli occhi della Lisandri si sono abbassati su Michele. Nel silenzio assoluto che regna in sala operatoria, per un attimo Alfredi vede nel suo sguardo apparentemente glaciale una carezza che però non raggiunge le mani. Poi, a un suo cenno, la strumentista le porge gli occhiali binoculari; lei li indossa e, con un gesto secco, li aggancia fissandoli dietro la nuca.

«Cominciamo. – Il tono asciutto, pur nella voce attutita dalla mascherina, sembra rimbombare dopo tanto silenzio tra le pareti fredde e luminose della sala. – Bisturi.»

Il tempo scorre muto, lontano, come sconnesso: chi è abituato a varcare quella porta sa che, nel momento stesso in cui lo fa, il mondo là fuori cessa di esistere. Ogni minuto può essere un’ora, ogni ora un minuto: lancette e numeri del grande orologio a parete hanno senso solo per compilare, dopo, il verbale sul registro operatorio. E in quell’atmosfera sospesa Maria Pia Lisandri opera come non ha mai operato prima: i suoi gesti sono fluidi, precisi, rapidissimi, le decisioni fulminee, le scelte perfette, al punto che tutto sembra semplice e privo di rischi. Lo staff, che pure ben conosce il suo talento, è sbalordito; Alfredi stesso è impressionato. La collega ha ingaggiato una lotta fredda, lucida, implacabile, senza alcun segno di turbamento o di fatica: un atteggiamento che, se da un lato trasmette un’altissima tensione, dall’altro sembra anche inaspettatamente diffondere tra i presenti un cautissimo ottimismo.

Quando viene portato alla luce il vaso collassato, però, Alfredi sussulta. Le immagini dell’angiografia erano già abbastanza eloquenti, ma vedere dal vivo è sconvolgente. L’aneurisma è enorme, le sue pareti fragilissime: può rompersi letteralmente da un momento all’altro. Deve esercitare una pressione tremenda sul tessuto cerebrale già gravemente lesionato del bambino. Non c’è da stupirsi delle convulsioni, delle crisi respiratorie, del violento peggioramento di questi pochi mesi: c’è da chiedersi piuttosto come possa Michele, nello stato in cui si trova, essere riuscito finora a superare tutto questo.

L’assistente sta già porgendo il contenitore con la graffetta metallica che servirà a chiudere la sacca aneurismatica. La Lisandri si è fermata. Per una lunghissima manciata di secondi, il massimo del tempo che ha a disposizione, il suo sguardo penetrante esamina tutto il campo operatorio. Poi impugna la pinza, afferra la clip e la porta in posizione.

Sangue. Un lago di sangue. I guanti zuppi, il camice schizzato. La sala che risuona di allarmi.

Non si vede più nulla. L’aneurisma è praticamente esploso. Alfredi scatta, ma non c’è niente da fare. Nel giro di pochi istanti le linee del tracciato cardiaco e cerebrale diventano piatte, gli incalzanti impulsi sonori un’unica, lugubre nota fissa. Michele è morto.

Con un suono alto e chiaro, la pinza colpisce il pavimento. Impietrita, la Lisandri continua a fissare quella devastazione, i guanti insanguinati, i riccioli neri della frangetta di Michele che spuntano da sotto i teli arrossati. Alfredi vede che le sue mani sono scosse da un tremito che si fa sempre più violento. Vorrebbe parlarle, capire come sta, ma adesso non si può, ci sono le procedure da rispettare. E deve prendere lui il controllo, assumere il comando, perché, di questo è certo, la collega non è più in grado di farlo.

«Chiudiamo.»

La durezza con cui viene dato l’ordine non riesce a nascondere la voce incrinata. Inizia lui stesso la sutura, ma lascia quasi subito il compito al medico specializzando che ha assistito all’intervento. Dopo essersi accertato che tutto venga fatto secondo le regole, si allontana dal tavolo operatorio e raggiunge l’amica, che nel frattempo, come un automa, si è ritirata appoggiandosi alla parete vicino alla porta della sala. Le passa un braccio attorno alle spalle per condurla fuori, e un improvviso brivido lo percorre quando si accorge che si fa praticamente trascinare, che non solo non oppone alcuna resistenza, ma sembra completamente assente.

Una volta nella zona-filtro, la aiuta a togliere gli abiti chirurgici: lei lo lascia fare passivamente, come se la cosa non la riguardasse. La accompagna al lavabo e lei compie le abluzioni prescritte con la consueta accuratezza, ma con gesti meccanici, vuoti; poi tocca a lui svestirsi e lavarsi, e quando ha finito la trova ancora immobile dov’era, lo sguardo fisso davanti a sé, il capo leggermente chino, le braccia abbandonate lungo il corpo.

La guida verso una sedia, la fa sedere. La chiama per nome, più e più volte, ma lei non risponde. Non alza neppure gli occhi, pare non sentirlo; unico segno di vita, le mani che non smettono di tremare. Alfredi le afferra, le stringe, la scrolla con sempre maggiore violenza man mano che i secondi passano, alza la voce fino a urlare: niente. Angosciato, il medico sta ormai per ricorrere a un sonoro ceffone, quando lei sembra finalmente rianimarsi, come riemergendo da una distanza siderale. Si volta, lo guarda, e incontrare i suoi occhi è affacciarsi sull’orlo di un buco nero.

«È colpa mia.»

Un sussurro appena percettibile. Alfredi sente mille formiche corrergli giù per la schiena.

«Cosa?»
«Sono stata io.»
«Maria Pia… per l’amor di Dio, che dici?»
«È colpa mia. L’ho ucciso io.»
«Lo hai…? Ma non dire sciocchezze! – esplode il medico, aspro, dopo un attimo di sbigottimento. – Era un intervento disperato, lo sapevi, sei stata tu a dirlo, l’hai usata tu questa parola! Michele è morto e io so che gli volevi bene, posso immaginare quello che provi, ma da qui a incolparti della sua morte passano anni luce! Sappiamo tutti e due che sarebbe stato un miracolo se si fosse salvato! Ci hai provato, hai fatto tutto il possibile, ma la situazione era troppo compromessa. L’aneurisma si è rotto e sapevamo benissimo che poteva succedere. Non hai colpe, Maria Pia, nessuna colpa! Non provare a dartene, perché non ne hai!»

Ha parlato tutto d’un fiato, come se temesse la risposta della collega e volesse ritardarla il più possibile: non perché non sia convinto di quanto ha detto, ma perché qualcosa di indefinibile nel suo viso gli suscita un confuso, inspiegabile timore.

«L’aneurisma non si è rotto – bisbiglia la Lisandri, la voce completamente priva di qualsiasi inflessione. – L’ho rotto io. Ho applicato male la graffetta, l’ho sentita scivolare dalla pinza. Ho sbagliato io.»
«Maria Pia, non…»

Ma Alfredi tace, le parole gli muoiono in gola. La conosce troppo bene e da troppo tempo per non rendersi conto che dietro il tono piatto e lo sguardo inespressivo c’è la valutazione chiara e obiettiva del medico. Lui non è in grado di stabilire se quanto dice sia vero: Maria Pia potrebbe esserne soltanto convinta, ma d’altra parte il fatto che lui non abbia visto imprecisioni non significa che non ce ne siano state. Anche se finora lei non ha mai commesso errori, il suo talento non la esime dal farne. Ma se almeno crollasse, ora, se piangesse, se si disperasse! Sarebbe atroce, ma sarebbe… normale, sarebbe umano. E invece rimane lì immobile, come inebetita, occhi asciutti e volto pietrificato, schiacciata, annientata. Qualcosa in lei si è spezzato, forse per sempre.

Il silenzio si dilata tra loro, come l’acqua limacciosa di un’inondazione sommerge tutto ciò che incontra. Nessuno dei due sa quanto tempo passi, ma, quando gli altri componenti dell'équipe cominciano ad affluire nella stanza, taciturni e turbati per l’accaduto, inaspettatamente è la Lisandri la prima a riscuotersi.

«I genitori – mormora. – Bisogna avvertirli.»
«Vado io» risponde Alfredi, facendo l’atto di alzarsi.
«No – replica immediatamente lei. – Sono io il chirurgo. Devo farlo io.»
«Maria Pia, tu… non stai bene adesso. Lascia che vada io.»
«Tocca a me.»

La voce non è più incolore, né gli occhi spenti; la Lisandri è di nuovo pienamente presente a se stessa. Questa constatazione, che dovrebbe rassicurare Alfredi, lo spaventa ancora di più: perché nei tratti del viso di lei adesso non è inciso soltanto un dolore arido e muto, ma il gelo di una lontananza che la rende irraggiungibile.

«Vengo con te – si arrende, temendo ciò che potrebbe accadere se provasse a insistere ancora. – Solo… ti prego, non dire…»

Non dire che è colpa tua. Non dire che lo hai ucciso tu. Non finisce la frase. Sa che lei ha capito, ed è proprio per questo che il suo sguardo lo fa desistere.

I passi che conducono fuori dal blocco operatorio pesano come macigni. Davanti all’uscita che dà sul corridoio, schermata dai vetri smerigliati, la Lisandri si ferma. Oltre quella porta c’è una giovane madre a cui, solo un paio d’ore fa, ha giurato di tentare con tutte le proprie forze di salvare suo figlio.

Michele. Il suo sorriso luminoso, gli occhi vivaci e intelligenti, la sua stanza piena di pupazzi colorati. Le braccia faticosamente tese verso di lei, il suo nome balbettato con la fierezza di chi ha fatto qualcosa di grande.

Tutto finito, per sempre. Annegato in un lago di sangue.

Per colpa sua.

Sente Andrea dietro di lei afferrarle con forza un braccio. Sa di aver vacillato.

Uno scatto del mento verso l’alto, la maniglia della porta abbassata con un colpo secco.

Due paia di occhi fissi nei suoi, prima ancora di aver varcato la soglia: gli occhi di Elena e Stefano che, seduti poco lontano, sono balzati in piedi andandole incontro, con sulle labbra un interrogativo che non osano formulare. E le parole che non vengono, che non possono venire, perché non esistono parole per dire a due genitori che, senza saperlo, sono già morti anche loro.

Ma le parole non servono. Non ha osato, prima, guardarsi allo specchio sopra il lavabo: ora è un improvviso, straziante urlo a mostrarle, più di qualunque immagine riflessa, che la risposta non data a una domanda non fatta è impressa sul suo volto.

«Abbiamo fatto tutto il possibile… purtroppo l’intervento non è riuscito… l’aneurisma si è rotto prima di poter essere chiuso e non c’è stato nulla da fare…»

Maria Pia Lisandri sente la voce affranta del collega giungerle a tratti, lontanissima, sovrastata dal grido di Elena che, sebbene subito soffocato dal disperato abbraccio del marito, risuona ininterrotto e lancinante nelle sue orecchie. Andrea mente, non è l’intervento a non essere riuscito, è lei che ha fallito. È lei che non ha mantenuto la promessa. Che cosa ci fa ancora qui adesso? Come può credere di poter prendere parte a questo dolore, anche solo di assistervi? La morte di Michele era un’eventualità contemplata, tragica ma possibile, addirittura probabile: una complicazione, una fatalità, una crisi inaspettata. E allora lei avrebbe parlato con questi ragazzi, cercato di confortarli, magari avrebbe abbracciato Elena, forse persino pianto con lei. Era preparata a farlo, non sarebbe stata la prima volta. Ma questo diritto, il diritto di partecipare della vita e dei sentimenti dei suoi pazienti e delle loro famiglie, lei lo ha perso per sempre poco fa, in sala operatoria, insieme al controllo dello strumento che ha ucciso Michele.

Basta.

Senza aver pronunciato una sola parola, si volta di scatto e si allontana. E non importa se, soltanto pochi secondi più tardi, i passi svelti di Andrea la inseguono, se la sua voce concitata la chiama. È sufficiente tirare diritto, fingere di non sentire, infilarsi in un ascensore vuoto che si apre provvidenzialmente di fronte a lei.

Si ritrova nel suo studio senza sapere come ci sia arrivata. Ne è uscita per l’ultima volta quasi trentasei ore fa: un’altra persona, in un’altra vita. Una persona che credeva che le sue mani non l’avrebbero mai tradita, in una vita dove sembrava possibile, con quelle mani, riuscire a salvare gli occhi splendenti e il sorriso radioso di un bambino sfortunato e amatissimo.

Non ci sono più, né l’una né l’altra, come Michele. Non torneranno. Se mai ci sono state, se non hanno rappresentato una brevissima illusione dentro l’incubo di questo presente.

Crolla sulla poltrona dietro la scrivania. Porta le mani al viso, ma le ritira immediatamente: non vuole sentirle, il tocco delle proprie dita sulla pelle le dà la nausea. Chiude gli occhi, sotto l’urto di una fitta acutissima che le trapassa la testa come un punteruolo incandescente, e mille bagliori le esplodono istantaneamente dietro le palpebre abbassate. Le ci vuole qualche secondo per accorgersi che non è un dolore fisico: è l’urlo di Elena che non ha mai smesso di echeggiare nel suo cervello. È così forte, così vicino, così reale che deve riaprire gli occhi, costringersi a prendere in mano il piccolo specchio che tiene appoggiato sul tavolo per essere sicura di non essere lei a urlare. Lo lascia cadere subito, perché il volto che le restituisce lo sguardo non è il suo, ma quello bianco e immoto di un cadavere; la veemenza del gesto fa sì che per un attimo gli occhi le si posino sulle mani, e questo basta a farla sussultare, a farla ritrarre sulla sedia, perché le è sembrato di vederle coperte di sangue.

E allora tutto le è chiaro.

Aveva già capito, aveva già deciso, ma non lo sapeva. Ora lo sa.

La morte di Michele le ha messo dinanzi una strada. L’unica percorribile.

Oggi è stata l’ultima volta che ha messo piede in una sala operatoria.

Oggi è stata l’ultima volta che ha permesso al proprio cuore di lasciar entrare l’affetto e la trepidazione per quanti si affidano a lei.

Non le succederà più di amare, soffrire, sorridere, piangere per chi incrocia la sua strada nei corridoi di questo ospedale. Così non si sopravvive.

Non le succederà più di impugnare un bisturi per salvare una vita e trasformarlo nell’arma che la toglie. Il talento che le hanno fatto credere di possedere non è che una folle, criminale arroganza.

Non le succederà più di avere la temerarietà di giurare di proteggere qualcuno e poi l’irresponsabilità di consegnarlo alla morte. Chi pensa di essere Dio ha per destino l’inferno.

Non succederà più.

Mai più.




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