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Autore: Afaneia    13/12/2017    2 recensioni
Dopo essere disceso dall'Altopiano delle Origini, Link è riuscito a sconfiggere l'Ira dell'Acqua di Ganon e si è riappropriato del Colosso Sacro Vah Ruta, tornando in possesso di qualche frammento di ricordo relativo a Mipha e alla principessa Zelda. Ma la difficoltà del suo compito lo spaventa ogni giorno un po' di più, fino a farlo sentire inadeguato e incapace, e l'unica soluzione che egli trova è quella di lasciar perdere tutto e scappare.
Un villaggio che ancora non esiste può essere un buon posto per ritrovare se stesso.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Link
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di fughe e di ritrovato coraggio'
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Daccapo.

 

E gli uomini, innocenti,

a infilarsi le forcine dei capelli negli occhi, a sbattere la testa contro il muro altissimo, ben sapendo che il muro non cede né men si fende, per consentirgli di vedere almeno da una fessura

un po' di azzurro non offuscato dalla loro ombra e dal tempo.

 

G. Ritsos, Elena.

 

 

Un giorno, stanco di sentirsi le spalle gravate del peso di salvare Hyrule e dell'angoscia di vedersi addossare compiti e richieste d'aiuto ovunque volga lo sguardo, Link riempie due bisacce di provviste, chiude dietro di sé la porta della sua casa di Finterra, monta a cavallo e si allontana senza voltarsi indietro.

Tutto ciò che vuole è scappare e nascondersi.

Non sa neppure da cosa. Link scappa perché si sente sopraffatto ed estenuato da questo universo che gli è stato imposto, da questa missione di salvezza ch'egli teme di non avere le forze per assolvere ma che ha troppa vergogna di rifiutare, e dalla quale perciò non può fare altro che sottrarsi e fuggire di nascosto, come uno di quei cani feriti e storpi, mutilati, ch'egli vede talvolta inseguiti dai ragazzini. Si sente proprio così. Prova la stessa sensazione di terrore, ancestrale e innominabile, che ha provato quando per la prima volta, il giorno del suo risveglio, egli si è trovato faccia a faccia con un mostro orribile, dalla pelle secca e squamosa, bitorzoluta, e il suo cuore è stato così oppresso dalla paura ch'egli neppure è stato in grado di urlare. Non aveva mai visto un mostro, prima di quel momento, o almeno non lo ricordava, e la sua mente priva di ricordi non aveva idea che qualcosa di tanto orrido e grottesco potesse esistere al mondo.

Quel giorno è stato il suo corpo a rispondere per lui e a salvarlo, agendo mentre egli ancora era confuso e istupidito e aveva troppa paura per fare qualsiasi cosa: la sua schiena è stata rapida e flessibile, i suoi occhi più svelti della sua mente, le sue braccia hanno afferrato un ramo e hanno agito come un tempo il vecchio Link avrebbe fatto con la sua spada. Non aveva mai saputo di saper maneggiare un'arma prima di quel momento: lo ha realizzato solo dopo, a combattimento finito, quando si è ritrovato a un tratto sano e salvo, ansimante, a fissare quel grosso corpo odioso e immobile e ormai incapace di recare qualsiasi minaccia.

Il suo corpo sta agendo per lui anche stavolta. Quando l'angoscia e il senso di oppressione si sono fatti troppo grandi e insopportabili ed egli ha sentito l'aria mancagli nei polmoni e neppure urlare gli è parso più abbastanza, quando si è accorto di non aver sognato, per giorni interi, che di Mipha e del suo sacrificio, il suo corpo si è mosso per lui ed è scappato via. Tutto ciò che vuole è trovare un posto in cui nessuno possa più ricordargli ch'egli ha un compito da svolgere e che sta perdendo tempo, che ogni minuto che trascorre per se stesso è un minuto sottratto a Zelda; un posto in cui nessuna parola paia più carica di rimprovero e di biasimo verso la sua incapacità e la sua inadeguatezza.

Ma dove sia questo posto egli non lo sa, e si accorge di non saperlo solo quando Nemeŝek si ferma scalpitando a un bivio. Guardandosi attorno, egli si accorge d'essere già stato qui. È proprio qui che d'un tratto, sporgendosi sull'acqua, egli si è imbattuto nel principe Sidon che cercava aiuto.

Sidon, già. Se ora andasse da lui, Link sa che Sidon lo aiuterebbe, lo ascolterebbe, cercherebbe per lui una soluzione con tutta la positività e l'entusiasmo del suo modo di vivere. Sidon è l'unico e il migliore amico ch'egli abbia al mondo e del suo affetto sincero, strabordante come la piena del fiume, Link non ha mai dubitato; ma proprio con il suo affetto Link non vuole avere nulla a che fare, ora. Sidon lo ama come il fratello e il compagno d'armi che avrebbe voluto avere, ma la sua gente lo ama come l'eroe ch'egli non potrà essere mai. No, Link non può andare dagli Zora.

Ma proprio quando si ritrova a riflettere al crocevia, mentre Nemeŝek scalpita nella polvere e nitrisce, d'improvviso gli viene in mente che Sidon non è l'unico che gli abbia mostrato gentilezza nella sua vita. Gli torna in mente che c'è stato un altro, una volta, un uomo simpatico e taciturno che gli ha dato una dritta per comprare una casa ma che poi se n'è andato, prima ch'egli avesse il tempo di conoscerlo, e che prima di andarsene gli ha chiesto la sua mappa Sheikah e ha messo un segno in un certo punto, in un villaggio in cui sarebbe andato a lavorare, e lo ha invitato a passarlo a trovare, se per caso un giorno fosse passato per le terre di Akkala.

Chissà, forse il villaggio che Miceda gli ha promesso e che ancora non esiste può essere un buon posto per nascondersi e fingere che ciò che sta accadendo nel mondo non sia un suo problema.

 

Quando fa il suo ingresso al villaggio, caracollando su un cavallo nervoso e schiumante di fatica, l'uomo che sta spaccando le pietre ai piedi di una vasta parete rocciosa non accenna neppure a spaventarsi, forse perché ha capito, anche senza averlo ancora riconosciuto, che da questo cavaliere che procede a passo d'uomo non proviene realmente alcun pericolo.

Allo scalpitio di zoccoli sul selciato Miceda si è raddrizzato, appoggiandosi al suo piccone, si è asciugato la fronte e si è messo a guardare. Non pare così sorpreso di vedersi capitare lì, di punto in bianco, quel ragazzo enigmatico con cui ha parlato solo una o due volte a Finterra, e si limita a seguirlo con sguardo interrogativo via via che si avvicina a lui.

Per salutare quest'uomo che non vede da mesi e che è andato a scovare fino in capo al mondo, Link (che, a onor del vero, non è mai stato particolarmente portato per l'eloquenza) non trova niente di più significativo da dire che: «Ehi.»

Per tutta risposta Miceda lo squadra per un po', puntellandosi con le braccia al proprio piccone, e chiede: «Tu sei quello che ha comprato la casa di Finterra, eh? Ce l'hai fatta a trovarmi.»

Ma la domanda che sarebbe stata ovvia e lecita da parte sua, e che Link ha paventato fino al momento di arrivare, non arriva, per fortuna. Che questa mancanza sua dovuta a una mera dimenticanza o a semplice discrezione, Link gliene è egualmente grato, perché come potrebbe spiegare a parole per quale motivo è venuto fin qui, se neppure lui lo sa fino in fondo?

«Passavo di qui e mi sono ricordato» risponde in tono noncurante, balzando agilmente da cavallo. «Stavo andando alla Città dei Goron e ho pensato di fermarmi a salutarti quando ho visto il segno sulla mappa.»

Dopo un attimo d'incertezza, come se fosse indeciso se dirgli o no qualcosa che potrebbe non fargli piacere, Miceda obietta: «Non credo che ci si arrivi per di qua, sai. Su questo fianco del Monte Morte non c'è proprio niente.»

«Davvero?» La cosa ovviamente non lo tange più di tanto, dato che non stava davvero andando lì; ma l'esser stato colto in fallo su un aspetto tanto macroscopico della sua storia lo fa sentire in qualche modo inadeguato e scoperto come un bambino smentito nel pieno di una bugia. Cerca di ricomporsi in fretta. «Ah, sai... mi sarò sbagliato.»

Di fronte alla palese evidenza della sua spudorata bugia, Miceda non fa una piega. Nel tempo che impiega a stabilire nella sua mente che la sua spiegazione è sufficientemente patetica perché non valga la pena d'indagare ancora e metterlo in difficoltà, Miceda sbatte le palpebre per un po', dopodiché si stringe nelle spalle e torna a imbracciare il piccone. «Già, è facile sbagliarsi. Ma credevo che vivessi a Finterra, tu... non ti piace la tua casa?»

«È una gran bella casa» dice Link per evitare di rispondere direttamente. È la verità, naturalmente, ed egli è davvero alquanto certo che sia la cosa più bella che abbia mai posseduto: ha mura calde e spesse, un focolare immenso capace di scaldare tutto l'edificio, e grandi finestre da cui osservare il mondo che lo circonda. Il punto è che nel preciso momento in cui ci si è ritrovato, egli si è accorto di quanto sia stato assurdo anche solo credere di poter possedere un'altra casa al di fuori di quella stanza deserta in cui è venuto al mondo, là sull'Altopiano delle Origini... «È solo che ho delle cose da fare tra i Goron. Degli affari, capisci, e cose del genere.»

 «Ah, certo» risponde Miceda, col tono eloquente di chi non ha intenzione di credere a una sola parola. Non trovando evidentemente nient'altro di interessante da dire, decide di tornare a imbracciare il piccone. «Comunque, se vuoi restare a riposarti per qualche giorno, sei il benvenuto... solo che non sarò di grande compagnia fino a stasera. Devo fare tutto da solo, e non sono ancora molto avanti coi lavori, come puoi vedere.»

Così, mentre Miceda riprende a lavorare, Link inizia a togliere la bardatura a Nemeŝek e tira fuori qualche mela dalla bisaccia, nel tentativo di placare un po' questo povero cavallo esausto, e poi gironzola lì intorno per un po', senza far niente. Miceda lo lascia fare, forse perché ha capito che quel ragazzo biondo dall'aria smarrita, che una volta a Finterra gli ha chiesto in che anno siamo – in che anno siamo, al diavolo! - e di poter comprare un rudere di casa in via di demolizione, ha bisogno di star lì.

«Hai dei lavori pesanti da fare?»

Per la seconda volta oggi pomeriggio, Miceda s'interrompe e si asciuga la fronte per guardarlo. «Lavori pesanti di che genere?»

«Legna da tagliare, pietre da spaccare. Roba così.»

«Sembri gracilino» obietta Miceda.

Link sa di non essere gracilino e vuole dimostrarglielo. Allora si avvicina di nuovo a Nemeŝek che pascola lì vicino, recupera un'ascia dalla quantità dei bagagli che è costretto a portarsi continuamente appresso e si allontana dal villaggio.

Quando ritorna, sul far della sera, Miceda ha ormai concluso il suo lavoro giornaliero e si sta avviando lentamente verso il magazzino verde che si staglia al limitare del villaggio. Link gli rovescia davanti vari fasci di legno d'acero, senza dir nulla, e Miceda ne rimane molto colpito.

«Però» commenta a bassa voce. Si passa una mano dietro la nuca. «Avrei proprio bisogno di uno come te, però non posso pagarti. Le regole delle costruzioni Cerada...»

«Lo so, lo so» lo interrompe Link. «Non importa che mi paghi. Però puoi darmi da dormire e da mangiare. Questo puoi farlo, no?»

Miceda si gratta la testa. È evidente che la sua proposta lo tenta davvero, dato che è da solo a cercare di realizzare un progetto che richiederebbe un villaggio intero, ma c'è qualcosa che lo trattiene. «Non lo dirai al signor Cerada, vero?»

Link gli porge molto seriamente la mano e ribadisce con voce chiara e netta: «Promesso.»

Con un sospiro profondo, Miceda getta un'ultima occhiata a tutti quei fasci di legna e gli stringe la mano.

 

Link si carica di tutti i lavori più pesanti, in questo villaggio che esiste non perché qualcuno vi abiti, ma per il semplice fatto che qualcuno l'ha progettato (anche se è alquanto sicuro che le cose non funzionino esattamente così, con i centri abitati. Ma non gli va di discuterne, al momento).

Questo villaggio ancora tutto da plasmare è esattamente quello di cui aveva bisogno quando è partito da Finterra: un posto dove nessuno lo conosce – tranne Miceda, che lo considera pazzo, cosa che a lui sta benissimo – dove non deve fare altro che spaccare pietre e bruciare sterpaglie e abbattere alberi. Lui e Miceda lavorano ogni giorno fino a spaccarsi la schiena, in silenzio, e questo è un bene per Link. Tutto quello che voleva, in fin dei conti, era nascondersi in un luogo in cui nessuno potesse trovarlo e non pensare a niente.

Ma nascondersi non è poi così facile quanto gli sarebbe piaciuto. Dalle pendici del vulcano fumigante, egli scorge ogni notte levarsi in cielo quella rossa luna furibonda, e in lontananza, là, da qualche parte nella piana, egli avverte i pensieri profondi e vischiosi del gran male che s'annida nella foschia del castello...

Qua nessuno sa che lui dovrebbe trovarsi là, a combattere il male e a salvare la principessa. Qui, nelle terre di Akkala, egli è solo uno sventurato come tanti che si guadagna, alla sera, il suo tozzo di pane e il suo piatto di minestra, e lotta per sopravvivere anche se Hyrule è dominata dal male, senza neppure pensare a qualcosa di tanto folle come sfidare la Calamità. Forse è questo che Link avrebbe dovuto essere – un contadino impotente che attende pazientemente alla sua vita nei campi, aspettando che arrivi qualcuno forte abbastanza da cambiare le cose. Dopotutto, perché proprio lui dovrebbe essere quel qualcuno? Nessuno gli ha chiesto il suo parere. Egli si è svegliato un giorno nudo e intorpidito dal freddo, senza alcuna memoria di se stesso o del mondo, e gli è stato detto di vestirsi e di affrettarsi a salvare Hyrule e Zelda e a nessuno, mai, è venuto in mente che non fosse corretto fargli una richiesta ch'egli non potesse rifiutare.

«Da dov'è che vieni, tu?» gli chiede Miceda una sera di queste, davanti al fuoco del magazzino dove dormono – perché non può definirsi propriamente abitare, questo.

«Dall'Altopiano delle Origini» risponde Link onestamente.

Per tutta risposta Miceda lo guarda e scoppia a ridere. Link si sente molto confuso, perché non capisce che cosa abbia detto di così divertente. «Sì, come no. Guarda, se non me lo vuoi dire, basta dirlo.»

«Perché non dovrei venire da lì?» chiede cautamente Link, saggiando il terreno come contro un nemico di cui non sappia ben valutare la forza e la stazza. Questa conversazione lo sta facendo sentire molto stupido, e non è una sensazione che gli piaccia.

Il fuoco crepita un po' più debolmente, perciò Miceda si protende in avanti per attizzarlo. «Ma dai... non ci vive nessuno lì. E poi è impossibile scendere, le pareti sono troppo ripide. È abitato solo da mostri, questo lo sanno tutti.»

Link capisce che sarebbe inutile insistere, ma Miceda non gli sembra arrabbiato od offeso per quella che considera una storia di fantasia. Lo considera solo un bello stravagante un po' pazzo, e pare che proprio per questo lo abbia preso in simpatia.

«Mi hanno chiesto di salvare Hyrule» gli dice perciò qualche secondo dopo, per sperimentare la sua reazione. Anche stavolta Miceda pare incredibilmente divertito.

«Sicuro, come no. E per questo ti hanno dato un'ascia da boscaiolo e un martello per spaccare le pietre?»

«Mi hanno dato anche questa tunica azzurra.»

«Nientemeno» commenta Miceda sorridendo eloquentemente.

Ha ragione lui, pensa Link con rabbia il mattino seguente, mentre lavora a spaccare faticosamente gli enormi massi che bloccano il transito. I suoi muscoli tonici si tendono e si contraggono sotto il sole, e sulla sua pelle luccicante di sudore i segni di antiche cicatrici spiccano ancora come cento anni prima. Ha ragione Miceda, continua a pensare. Nessuno gli ha mai spiegato come fare. Hanno lasciato che si svegliasse da solo, là sull'Altopiano, e che cercasse da solo non solamente le risposte, ma persino le domande... e in tutto questo nessuno ha mai chiesto il suo parere. Tutti hanno dato per scontato ch'egli fosse e volesse essere l'eroe e non volesse essere altro, per esserlo stato cento anni fa; ma s'egli ha perduto ogni ricordo di tutto ciò che è avvenuto prima di svegliarsi, come può essere ancora la stessa persona? È forse lecito che altri addossino sulle sue spalle il peso di un destino che non si è scelto e nel quale fatica a riconoscersi, e che persino lo accusino di non ricordarsi di Mipha e di non aver fatto abbastanza per proteggerla, quando non c'è nulla che egli possa fare per cambiare le cose...?

Quando lavora così, sotto il sole, a petto nudo perché ormai quella tunica azzurra gli pesa addosso di un peso insostenibile, Link pensa che in fin dei conti tutte le sue riflessioni suonano molto ragionevoli. In questo mondo ch'egli sta faticosamente imparando a conoscere, non ha forse lo stesso diritto di chiunque altro di scegliere il proprio destino e di vivere una vita semplice, a costruire case per chiunque ne abbia bisogno? Per quale motivo dovrebbe esser proprio là, e non qualcun'altro, a farsi carico del destino di Hyrule?

Ma ogni notte in cielo si leva una luna sempre più rossa, e Link la osserva con preoccupazione.

 

Ogni tanto, quando interrompono lo sfiancante lavoro di spaccar pietre e segar legna, e attizzano il fuoco sotto le ceneri per preparare qualcosa di caldo da mangiare, Link prende un pezzo di pane e va a sedersi vicino allo stagno, per conto suo. La statua della dea che ha intagliato  Miceda è rozza, certo, eppure egli se ne sente enormemente rassicurato.

È stata una statua della dea la prima figura di donna ch'egli abbia mai visto, lassù, sull'Altipiano. Era molto più bella di questa, naturalmente, un'opera d'arte senza tempo dalla cui bellezza rassicurante, persino materna egli si è sentito confortato, quando si sentiva solo e confuso e stava imparando a conoscere un mondo nel quale era appena venuto alla luce. La statua del villaggio è appena sbozzata, certo, ha un aspetto goffo e in qualche modo infantilesco che a malapena ricorda una figura umana, eppure Link se ne sente egualmente rassicurato.

Ha veduto altre donne da allora, certo; ha ricordato la tormentata saggezza di Zelda e la tenerezza di Mipha; ma quando Link scava nel suo passato, e ricerca nella propria memoria un po' di dolcezza, il suo pensiero corre invariabilmente alla statua della dea che ha visto lassù, nel Santuario del Tempo, dov'egli andava a rifugiarsi la sera, quando fingeva di credere di farlo solo perché pioveva ed era troppo freddo, e invece lo faceva perché, così facendo, provava l'illusione di avere anche lui una casa a cui tornare e una madre presso cui dormire.

Gli piacerebbe che qualcuno gli avesse parlato di sua madre, quando si è svegliato. Evidentemente a nessuno dev'esser venuto in mente di parlargliene, tutti presi com'erano a dargli ordini e compiti e missioni da compiere e terre da salvare, ed egli non intende neppure fargliene una colpa. Ma è pentito egualmente di non aver chiesto a Impa quando ne avrebbe avuta l'opportunità... eppure una madre deve averla avuta anche lui, una volta.

Vorrebbe davvero che gliene avessero parlato, ma non perché s'illuda che le cose sarebbero in qualche modo potute cambiare: né sua madre né suo padre avrebbero in alcun modo potuto sopravvivere alla Calamità e ai cento anni che ne sono intercorsi, ed egli non potrebbe comunque conoscerli. Ma gli piacerebbe sapere se erano ancora vivi all'epoca della Calamità, se si sono preoccupati per lui e se qualcuno ha detto loro che era sopravvissuto e stava bene; se sono mai venuti a vederlo mentre dormiva e se sono morti aspettando che si svegliasse...

Ma nel frattempo, almeno fino a quando non vedrà di nuovo Impa e non potrà chiederle se per caso abbia conosciuto i suoi genitori, sperando che le sue parole possano risvegliare in lui qualche nuovo ricordo, questa statua appena sbozzata è l'unica immagine che Link abbia di sua madre, ed egli rimane a osservare il suo riflesso specchiarsi nell'acqua bassa e pulita rifranta dai raggi di sole.

 

Sulla sponda del lago, la sera, è troppo freddo per fare un vero bagno, per non parlare del fatto, naturalmente, che Miceda non ha ancora provveduto a fabbricare una vasca. È stato troppo impegnato.

A sera, perciò, quando rientrano a buio fatto, Link e Miceda possono soltanto riscaldare il più possibile la stanza, fino a riempirla di una nebbia indistinta di funo e di vapore, e lavarsi pazientemente con spugnature d'acqua calda.

Una sera, durante una di queste noiose abluzioni, Miceda si mette a osservarlo per un po', assorto tanto che Link potrebbe credere che stia pensando a tutt'altro, e chiede: «Come te le se procurate quelle cicatrici?»

Gli piacerebbe davvero saper rispondere con precisione a questa domanda.

Il primo ricordo ch'egli abbia, dopo il suo risveglio, è di aver steso le mani di fronte agli occhi, per chissà quale istinto, e di essersi stupito di vederle, come s'egli avesse avuto nella propria mente una precisa idea di come dovessero apparire le sue mani, e ora si stupisse di scoprire che l'immagine mentale non andava a sovrapporsi esattamente a quella che aveva di fronte. Questo gli dava motivo di pensare che, con ogni probabilità, almeno la grande maggioranza delle ferite che aveva risalivano alla sua lotta durante la Calamità, e che egli non aveva perciò mai avuto modo di vederle.

Per i primi tempi guardarle lo ha messo molto a disagio, come se si trovasse a spiare il corpo nudo di una persona ferita, e toccarle lo nauseava profondamente. Ce n'è una che non ha neppure mai visto: facendo scorrere le dita tra i capelli, egli sente sotto la pelle dei polpastrelli il duro nodo sottile, parzialmente rilevato, di una cicatrice che gli percorre la tempia sinistra. Districando i capelli con le dita, con l'aiuto di uno specchio, egli potrebbe guardarla meglio, ma ne è così impressionato e disgustato che preferisce non vederla direttamente.

Il suo primo impulso è quello di dire la verità: che non se lo ricorda come possa essersele procurate. Ma se Miceda non gli ha creduto quando gli ha detto di provenire dall'Altopiano delle Origini, a maggior ragione non gli crederà di certo se gli dirà di aver dormito per un secolo dopo l'avvento della Calamità.

«Sono stato aggredito da due della banda degli Yiga, un paio d'anni fa» risponde senza guardarlo. Miceda lo fissa sgomento, perciò si sente in dovere di proseguire: «Non so, devono avermi scambiato per qualcun'altro. Lo sai, quelli sono dei fanatici.»

«E sei sopravvissuto?»

Se ha una così scarsa fiducia nelle sue capacità guerriere, non c'è molto da sorprendersi che Miceda non lo creda capace di salvare Hyrule.

 «Se ne sono andati pensando che fossi morto» taglia corto Link, sfregandosi nervosamente le braccia con un asciugamano ruvido. I pallidi segni sottili che gli percorrono il petto in grotteschi arabeschi rilevati e spezzati lo mettono a disagio, improvvisamente, ed egli non desidera altro che tornare a vestirsi in fretta. «Mi ha trovato un contadino di passaggio col suo asino e mi ha portato fino al villaggio Calbarico. È tutto qui.»

Dal lungo silenzio di Miceda, che continua a scrutarlo senza risolversi a distogliere lo sguardo da lui, Link intuisce che il suo collega non gli ha creduto nemmeno per un momento. Non che ci avesse sperato troppo, in realtà. Miceda lo considera essenzialmente un folle e un contastorie, e a entrambi sta benissimo così. È forse l'uomo più scettico che abbia mai incontrato.

«La banda degli Yiga, eh?»

«Già» ribadisce Link con convinzione, e Miceda se lo tiene per detto e non dice più niente. Va bene così tra di loro, in fin dei conti. È uno strano modo di comunicare il loro, dopotutto, con Miceda che gli fa domande su di lui e non crede mai a una parola di tutto quello che gli dice, e che nonostante ciò non insiste mai più di così, accontentandosi delle sue risposte incredibili e implausibili, e ha accolto in casa sua un ragazzo misterioso e come pazzo ricoperto di cicatrici come un assassino.

 

Una sera, la lugubre eco di un ululato raggelante lo distoglie dal suo piatto di minestra. Mentre Miceda continua a mangiare tranquillamente, Link si dispone in ascolto.

«Che cosa è stato?»

«I mostri» risponde Miceda distrattamente, esattamente come avrebbe potuto dire: il vento.

Link si accorge d'esser balzato in piedi solo quando sente il frastuono della sedia rovesciata al suolo, ma neppure si ferma a sollevarla. È già affacciato alla finestra, curvo sul vetro a scrutare nel buio: per il momento, non vede niente. Miceda è rimasto al tavolo e lo sta guardando stupito.

«Sono là fuori?»

«Beh, evidentemente. Ma non c'è da aver paura, per il momento... non si avvicineranno a un edificio chiuso, non aver paura. Torna pure a mangiare.»

Le urla dei boblin sembrano ancora sufficientemente lontane da non doversene preoccupare per almeno qualche ora, se non di più, ma la risposta del suo compagno non lo ha tranquillizzato a sufficienza. Link passeggia nervosamente in su e in giù per il magazzino scuotendo la testa, col corpo tutto proteso e già pronto all'azione e la sensazione d'essere stranamente nudo e indifeso senza le sue armi.

«Perché hai scelto proprio questo posto per costruire il villaggio?»

«Che cosa vuoi dire?»

«Perché hai voluto fondarlo qui?» insiste Link cocciutamente.

Miceda non ha ben capito dove voglia andare a parare, ma nonostante ciò prova comunque a rispondergli: «Perché in questa zona non c'era nessun altro villaggio, direi. Si costruisce qualcosa perché ce n'è bisogno. E poi... Link, ma che domande mi fai? Un posto vale l'altro.»

«Ma tu lo sapevi che c'erano dei mostri, in questa zona?»

Miceda ha capito, finalmente, e quando capisce il suo volto si fa molto triste. Gli rivolge un sorriso strano. «Oh, Link...»

«Che c'è?»

«Link... i mostri sono ovunque.»

«Sì, ma...»

«Ci sono mostri fuori da Calbarico. Ci sono membri della banda degli Yiga tutti attorno a Finterra, eppure la gente ci vive lo stesso. Pensi forse che se esistesse un posto più sicuro, non sarei andato là a costruire il mio villaggio? Però la gente da qualche parte deve pur vivere.»

Sì, Link lo ha visto come vive la gente di cui parla Miceda, barricata all'interno del villaggio, a vivere una vita quieta facendo finta che i mostri, quattro o cinquecento metri più a valle, non esistano... chissà come ha fatto a illudersi, per qualche giorno, che qui le cose stessero diversamente. Che boblin e lizal avessero dimenticato questo buco abbandonato dagli dei, e che qui la gente avrebbe potuto vivere e morire in pace, beatamente dimentica della rovina di Hyrule tutto attorno a loro; che il pericolo non sarebbe venuto a cercarlo mai fin lì, ed egli avrebbe potuto dimenticarsi d'esser stato, un tempo, un eroe...

D'improvviso, Link si sente molto stanco. «Che cosa farai quando arriveranno gli abitanti?»

«Quello che facciamo da tutta la vita, Link» risponde Miceda pazientemente. Forse è la prima volta che lo sta prendendo davvero sul serio. «Ci adatteremo.»

Ma questo non è accettabile, non è ammissibile, Link non può tollerare che si viva così, circondati dai mostri a due passi da casa. E come farà la gente ad andare a prendere acqua finché i pozzi non saranno efficienti? E la legna come se la procureranno, quando sarà freddo ma i mostri discenderanno giù dalle montagne? Eppure, se lo stesso Miceda non vede una soluzione, per quale motivo dovrebbe essere lui a crearne una...? Non sta in fondo già facendo tutto quel che può per quel villaggio? Non ha diritto anche lui, come gli altri, a starsene fermo e al sicuro ad aspettare che altri vengano a salvarlo?

«Link, dai, torna a mangiare... c'è il formaggio...»

Già... sarebbe bello, poter pensare soltanto al formaggio...

 

La terza notte, Link indossa l'armatura cheMipha ha creato per lui – l'unica armatura che abbia, in realtà – controlla lo stato delle sue armi, ed esce a sellare il suo cavallo. I ruggiti dei boblin si sono fatti di notte in notte più vicini, ed egli non ha più dubbi: stanotte o domani, al più, saranno qui.

«Link, che cosa stai facendo?»

Miceda lo ha seguito fuori con gli occhi colmi di preoccupazione. Non intende lasciarlo andare, Link ne è consapevole al solo guardarlo, ma proprio per questo non può permettergli di fermarlo. Continua a stringere più saldamente la bardatura di Nemeŝek e si sforza di apparire tranquillo e rassicurante anche così, ricoperto della sua corazza. «Ehi... ho una questione da risolvere, ma non preoccuparti, non ti abbandono. Conto di tornare domattina.»

«Link...» inizia Miceda in tono di supplica. Link lo sa, lo percepisce che quest'uomo è devastato, che vorrebbe disperatamente trattenerlo, e che non sa come farlo; che sente che gli sta sfuggendo dalle mani come acqua da una rete, e tutto ciò che può fare, per trattenere questa fiumana che si allontana, è pregare. «Senti, se è per i mostri, troveremo un'alternativa, va bene? Possiamo costruire delle mura... con tutti quei macigni, possiamo provare a...»

Da quando Link si è svegliato lassù, nell'unica casa che mai potrà avere, Miceda è il primo che si sia mai veramente preoccupato per lui – preoccupato a tal punto da cercare di salvarlo e da non richiedere da lui il sacrificio della sua vita; ma proprio per questo motivo Link non prova nemmeno per un momento la tentazione di tirarsi indietro e lasciar perdere. Proprio ora che non gli viene richiesto da nessuno e che nessuno lo biasimerebbe se decidesse di non provarci, Link vuole davvero rischiare la vita e gettarsi a capofitto nel pericolo per salvare questo carpentiere che è stato il primo a offrirgli ciò di cui aveva veramente bisogno: un lavoro e un piatto di minestra e l'illusione di una vita normale.

Ci è voluto un po', certo, e gli è toccato venire fin qui, ma finalmente Link lo ha capito che questa vita nascosta a far finta che i mostri non esistano egli non potrebbe viverla mai. Questa consapevolezza lo fa sentire talmente risollevato che sorride, e Miceda rabbrividisce e si ritrae di scatto al vederlo sorridere. Forse pensa che sia diventato matto davvero.

«Non preoccuparti, Miceda. Ti prometto che non mi succederà nulla, ma bisogna che i mostri non ci siano quando la gente arriverà.»

Tutte le obiezioni che Miceda sta per muovergli Link le conosce già, per averle troppe volte formulate nella propria mente: che i mostri esistono ovunque e sono una realtà inevitabile, che nessuno al mondo è tenuto a fare più di quanto... ma quelle obiezioni Link non ha più intenzione di ascoltarle, nemmeno da parte sua. Quali che siano i suoi diritti come essere vivente, se c'è qualcosa che sa per certo è che non può rimanere qui ad aspettare che i mostri arrivino alle porte del villaggio. Allora scosta gentilmente Miceda per una spalla, sale a cavallo e lo sprona a partire: alle sue spalle, al centro del villaggio, Miceda rimane a fissare la sua figura che si allontana col cuore infranto, e Link si domanda se essere un eroe voglia dire anche questo.

 

Link ha mentito. Quando ritorna al villaggio il giorno seguente, ormai, l'ora di pranzo è passata da un pezzo. Ha fatto tardi.

Miceda non è al lavoro, stranamente, e neppure è vicino al grande pentolone su cui soliti cucinarsi il pranzo verso mezzogiorno. Quando si rende conto di non trovarlo in giro, Link si sente stupito e parzialmente preoccupato, mentre rientra stanco e trionfante a cavallo, bello di sangue e di polvere, colle bisacce cariche del bottino della sua vittoria. Che Miceda si sia cacciato in qualche guaio per venirlo a cercare?

«Link!»

Solo a questo punto Link capisce che la voce proviene dall'alto. Per vederlo tornare, Miceda deve aver trascorso tutta la notte issato sul tetto della loro casa-magazzino, nella speranza di avvistarlo...

Mentre Miceda si precipita giù, Link gli conduce stancamente Nemeŝek incontro, al passo, ma non smonta di sella. Aspetta.

Lo sguardo di Miceda è attonito e stupefatto, incredulo, il suo petto vibra di un sollievo cui non riesce ancora ad abbandonarsi. Esita ad avvicinarsi al cavallo, mantenendo da lui una distanza dettata dalla prudenza, e dal timore che gli legge negli occhi Link intuisce che stenta a riconoscerlo. Si sono visti solo poche ore fa, ma non è così poco empatico da non comprendere che, dal punto di vista di questo carpentiere, il guerriero che è tornato da uno scontro per lui inimmaginabile non ha più nulla del ragazzo con la tunica azzurra che trascorre le sue giornate a piallare legno. Miceda ha di fronte a sé una persona nuova che credeva di non aver mai conosciuto, e questo lo sorprende.

«Sei sporco di sangue» dice Miceda esitante.

«Non è mio» risponde Link, anche se è una parziale bugia. In parte è anche suo, ma è certo che non sia nulla di più di qualche graffio. La corazza di Mipha e l'ardore della sua preghiera lo hanno protetto a sufficienza, e poi è bello avere finalmente delle ferite sue, che appartengano a lui e non al Link del passato.

Miceda non appare persuaso dalla sua risposta, ma Link non vuole che si preoccupi per una simile sciocchezza. Nel tentativo di cambiare argomento, d'improvviso gli torna in mente d'aver portato qualcosa per lui e subito si affretta a sganciare una grossa sacca dalla sella. Quando precipita a terra, le armi che contiene emettono un suono sinistro, un insieme di scricchiolio di legno e di tintinnio di metallo, e Miceda se ne ritrae di scatto con un brivido d'orrore.

«Che cosa...?»

«Sono le loro armi. Quei mostri non vi daranno più alcun fastidio, ma non posso evitare che ne discendano altri dalle montagne. Io tornerò ogni tanto a controllare la situazione, ma quando non ci sarò, bisognerà che la tua gente possa...»

«La nostra gente» lo interrompe Miceda, e senza neppure rendersene conto Link ripete macchinalmente: «La nostra gente, certo.» Solo dopo averlo detto si rende conto del reale significato di queste parole, ma neppure per un momento pensa di ritirarle o minimizzarle. Per avervi lavorato e averlo difeso, in fin dei conti, questo villaggio appartiene un po' anche a lui.

Miceda esita ancora un po', ma stavolta  il suo silenzio è insolitamente melanconico. Dalla tristezza che ha velato i suoi occhi, è chiaro che ormai ha capito che le cose sono cambiate. «Tu non scendi?»

Il suo cuore vorrebbe restare. Se Link avesse veramente scelta, se davvero gli fosse possibile decidere liberamente come spendere questa vita che gli è stata resa, questo è l'unico posto dove vorrebbe vivere e morire, e questo è l'unico lavoro che gli piacerebbe fare. Ma non ha una vera e propria scelta – o meglio ce l'ha, poiché con la memoria egli non ha perduto anche il libero arbitrio: se restasse qui a nascondersi per tutta la vita, crogiolandosi nella consapevolezza d'avere tutto il diritto di essere egoista, nessuno verrebbe a cercarlo. Ma Link ha scoperto una cosa molto interessante su se stesso, durante la sua fuga, e cioè che, per quanto esista una parte di lui profondamente vigliacca, egoista, che vorrebbe soltanto strisciare in un buco a nascondersi e uscirne solo quando altri abbiano sistemato le cose, non è quella la parte più forte di lui; che esiste un'altra porzione del suo animo, un po' più silenziosa ma molto più determinata dell'altra, che non tollererà mai di restare a guardare mentre altri corrono un pericolo, e che si slancerà sempre, anche quando non gli verrà richiesto da nessuno. È confortante sapere di non essere egoista e spaventato quanto temeva di essere, e di somigliare un po' di più all'eroe che tutti pensano che sia. Ha ricominciato davvero daccapo, qui, anche se non nel modo che si era aspettato.

«Vorrei potermi fermare» risponde. È profondamente sincero, ma è tutto quello che può dire. «Ma ho delle cose da fare in degli altri posti, e mi sono fermato anche troppo. Ho approfittato di un tempo che purtroppo non è solo mio.»

Fino a quando non affronterà l'oscura possenza che si cela là, nella foschia del castello, il suo tempo pulserà allo stesso ritmo di quello di Zelda. Link non può ancora dire di conoscerla, certo, di lei ha ricordato ancora troppo poco; ma per quel poco che ha ricordato di lei, della sua sofferente ricerca di un misticismo che a ogni momento le sfuggiva, forse anche a lei sarebbe piaciuto poter scegliere, cento anni prima, e arrogarsi il diritto di aspettare che qualcun'altro si sacrificasse al suo posto. Il vecchio Link faceva parte della sua guardia, e almeno questo, tuffarsi a salvarla dopo cento anni e cercare di riportarla al mondo esterno, glielo deve. Quando l'avrà salvata e Hyrule sarà tornata in pace, e ogni dovere ch'egli si sia addossato durante la sua vecchia vita sarà stato assolto, allora egli sarà veramente libero e potrà venire a vivere qui, e cercare notizie su sua madre e riversare su Impa tutto il suo rancore, e qualsiasi altra cosa che ora è obbligato a posticipare.

Naturalmente parole per esprimere tutto questo non esistono, e Link non si aspetta neppure che Miceda possa capire o credere a nulla del genere. Ma contrariamente a ogni sua aspettativa, mentre già egli stava cercando dentro di sé una qualche bugia alla quale l'altro possa fingere di credere, inaspettatamente è Miceda a parlare per primo. «Vai a salvare Hyrule, eh?»

Dovevano essere almeno cento anni che Link non rideva. L'avrebbe creduto mai, fino alla sera prima, che quest'uomo più scettico di un ateo avrebbe un giorno creduto davvero alle sue parole?

Sereno quanto mai avrebbe creduto di poter essere, Link annuisce sorridendo. «Già... una specie.»

C'è un'altra mezza idea che gli balena in mente quando pensa di dover ripartire. Volgendo lo sguardo su questa terra ancora vergine, pensa che gli piacerebbe poter vergare finalmente una storia che nessun altro si sia arrogato il diritto di scrivere per lui, una volta che tutto questo sarà finito. «Senti... pensi che potresti tenere una casa libera per me? Te la pago quando torno.»

«Oh, posso fare di meglio.» Miceda non si è preso neppure un momento per rifletterci. Sta sorridendo, finalmente, forse perché Link, implicitamente, gli ha appena promesso di tornare. «Terrò da parte un lotto per te. Quando tornerai, la costruiremo insieme.»

Sarebbe bello poter costruire una casa, come prima cosa quando tutto questo sarà finito. Sarà un bel pensiero da portare con sé, durante la battaglia che lo aspetta al castello di Hyrule.

Protendendosi dalla sella verso di lui, Link gli stringe la mano e risponde: «Promesso.»

«Ecco, a proposito delle case...» Dopo aver lasciato andare la sua mano, Miceda sembra quasi imbarazzato. «L'altro giorno hai detto che stavi andando dalle parti dei Goron. Vai sempre là?»

Link aggrotta la fronte. «Perché me lo chiedi?»

Miceda si stringe nelle spalle. «Beh, mi servirà un po' di aiuto ora che tu te ne vai, se vuoi trovare il villaggio pronto per quando tornerai. Se per caso dovessi trovare qualche Goron che ha bisogno di un lavoro, mandamelo qui. La cosa importante è che...»

«Lo so, lo so» lo interrompe Link sorridendo. «Che il suo nome finisca in da, lo so. Cerada e tutto il resto.»

«A dire il vero, stavo per dire che dev'essere forte quanto te, se deve sostuirti» borbotta Miceda. «Comunque, certo... anche quello che hai detto tu è importante.»

Link sorride tra sé e sé prima di riprendere il filo del discorso. Senza volerlo, quest'uomo si è persino lasciato scappare un complimento. «In questo caso dovrai dirmi come si chiama questo posto. Voglio dire... se incontro un Goron come serve a te, come farò a dirgli dove trovarti se io stesso non conosco il nome del villaggio?»

È solo a questo punto che entrambi si rendono conto che hanno sudato e imprecato e si sono spaccati la schiena ininterrottamente per tutto questo tempo, ma non hanno trovato nemmeno un minuto per pensare al nome del villaggio. Questo pensiero è talmente assurdo che entrambi rimangono senza parole per qualche momento, a chiedersi invano come si siano riferiti al villaggio per tutto questo tempo.

Tutto sommato, pensa Link, questo può essere un segno del destino, e sorride.

«Io un nome da proporre ce l'avrei.»

   
 
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